Anna Lombroso
Poi succede qualcosa, che non è un cigno nero, perché era prevedibile e previsto, profetizzabile e contrastabile, e confonde tutto.
E altro che nuova sintesi sociale: arcaiche figure criminalizzate perché non sapevano approfittare delle magnifiche opportunità del progresso, lavoratori che non si adeguavano doverosamente alla modernità accettandone i comandi in nome dell’interesse generale, trasferendosi altrove o industriandosi in lavoretti alla spina, ceti penalizzati in quanto parassitari e immeritatamente a ricasco di un sistema produttivo che senza di loro avrebbe caratteristiche di dinamismo futurista, sono stati promossi cavalieri, più di Berlusconi insignito del titolo ancora vigente nel ’77, o di Marchionne (2006) o Montezemolo (1998), icone della retorica da sussidiario alla pari del “muratorino” , oggetto di riconoscimenti prestigiosi e dell’annesso medagliere, Grandi Ufficiali come Bertolaso (Medaglia d’oro al merito della sanità pubblica nel 2005), grazie alla possibilità offerta loro di prodigarsi e cadere nelle trincee del Covid19.
Così i servi della gleba sono diventati un esercito di combattenti e resistenti che, dicono, si deve sacrificare per noi, per i nostri frigoriferi, ma pure per i nostri arsenali, garantendoci i barattoli per le conserve ma non i pomodori che resteranno nei campi abbandonati per l’obbligatoria diserzione degli stagionali e per le proibizioni governative
, le scarpe del Made in Italy ma non i camici, come vuole un apparato industriale che si è piegato a stringere un patto di non belligeranza con esecutivo e sindacati sull’onda di scioperi e manifestazioni, purchè non fosse vincolante ma avesse carattere di oculata discrezionalità arbitraria, purchè fosse chiaro che una volta conclusa la fase emergenziale si possa tornare a morire nell’altoforno, cascare da impalcature, contaminare senza virus.
Nell’archivio sempre rinnovato del “è permesso” e del “è proibito”, dietro all’hashtag: #iorestoacasa milioni di lavoratori perlopiù “manuali” che devono produrre la certificazione che attesti “Comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità, motivi di salute, rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza”, devono affollarsi su metro, bus e pullman, circolare per strada muovendo il profitto e il contagio, rischiando e facendo rischiare, stando alla catena di montaggio senza distanze regolamentari, caricando e scaricando casse e furgoni, trascinando carrelli e riempiendo scaffali, stando alla cassa e nei magazzini dei centri commerciali.
Insieme al personale sanitario, sempre per usare quel linguaggio bellico obbligatorio al tempo delle guerra al morbo, devono stare in prima linea, domestiche, operai, dipendenti delle imprese di pulizia, facchini, camionisti, muratori, netturbini, scaffalisti, quelli per i quali la semantica dell’eufemismo progressista aveva trovato altri nomi: colf, operatori ecologici, in modo da far digerire umiliazioni e precarietà, ma pure travet del pubblico impiego, partite Iva, che fanno azioni ripetitive che volutamente esonerano dal pensare e scegliere, operatori dei call center costretti a pagarsi internet per recitare contratti e offerte, dipendenti di enti che cliccano su format, con la stessa remota indifferenza imposta a quelli che sganciano bombe da miglia e miglia di distanza o guidano droni, ormai forzati di una nuova manualità per la quale dividono con i lavoratori del braccio la condanna a salari bassi, ricatti, intimidazioni, anche se vengono persuasi di appartenere a un ceto superiore, meno esposto, meno vulnerabile e più apprezzabile.
E magari è bene ricordare che le regole di sicurezza, igiene e profilassi cui si è generosamente assoggettata Confindustria prevedono che mediante disinfezione una tantum, sia doveroso stare insieme alla mensa, davanti ai banchi delle lavorazioni, mentre la socializzazione è interdetta nel caso di assemblee o presidi, in modo da non disturbare i manovratori, da non compromettere la reputazione nazionale, da non minacciare onorabilità e profitti di un sistema padronale che ha scelto da anni di non investire in ricerca e innovazione, di non mettere un soldo in sicurezza e garanzie, preferendo la distribuzione dei profitti delle operazioni finanziare creative agli indolenti e accidiosi azionisti.
Parlo di quella cricca che dimostra di non conoscere nemmeno le più elementari regole della concorrenza che suggerirebbe di convertire settori in crisi per rispondere a bisogni impellenti che avrebbero un mercato ahimè inesauribile: dispositivi medici, mascherine, guanti, camici, che da sempre sa solo schiacciare i salari verso il basso, piuttosto che elevare prestazioni e prodotti, promuovere fondi e assicurazioni per sfruttare due volte i dipendenti, promuovendo la fine della sanità pubblica, sostenere l’eccellenza delle sue rendite azionarie anzichè quella dei prodotti.
Pochi paesi credo siano afflitti da una classe imprenditoriale e padronale così ottusa, ai cui comandi lavora una classe politica altrettanto miope fino al suicidio, che non capisce che in un mondo così interconnesso la crisi di un comparto comporta a ricasco la sofferenza di tanti altri, che l’afflizione di un’azienda che non paga i suoi debiti si ripercuote sulla banca che le ha dato credito spericolatamente sulla base di relazioni opache, e che così negherà il credito a altri operatori, o che mancando le forniture, è inevitabile una reazione inflazionistica, con una stretta della liquidità di tutto il sistema.
Non è detto che stavolta si salveranno. Mentre è detto che a pagare saremo noi.
Sarebbe consigliabile dunque sospettare dei moniti alla solidarietà, alla coesione ricordate solo all’atto di socializzare le perdite mentre si privatizzano i profitti.
E altrettanto raccomandabile sarebbe non rispondere con la cieca ubbidienza a regole e imperativi che assumono un carattere morale inteso a criminalizzare le vittime, corridori, bambini al parco giochi, vecchi che vanno al supermercato, mentre si dà voce e ascolto ai bisogni della cupola che impone l’allargamento delle liste degli “autorizzati”, delle attività “strategiche” per il Pil ma non per noi, F35 compresi, dei settori strategici e cruciali.
Regole e imperativi così contraddittori, confusi che non possono che dar luogo a discrezionalità, e che potrebbero essere applicati con efficacia solo su un tessuto sociale coeso, in una nazione che si è dotata di infrastrutture, servizi, compresi quelli “democratici” della partecipazione, del rispetto dei bisogni, della tutela dei più deboli.
E in uno Stato che avesse la forza e la sovranità economica e politica per esigere di entrare nel capitale e nel controllo delle aziende strategiche (nella sanità, nelle infrastrutture, nella farmaceutica, nell’energia, nell’ambiente, nell’agroindustria,nell’informatica e nella robotica, nelle telecomunicazioni) garantendo e esaltando la loro funzione di “interesse pubblico”.
L’Italia è ammalata. E solo noi potremmo guarirla e guarirci.
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