domenica 15 marzo 2020

Rosa Luxemburg, teorica marxiana dell’economia e della politica

«Qualche sentimentale piangerà che dei marxisti bisticcino fra loro, che ‘autorità’ provate siano messe in discussione. 
Ma il marxismo non è una dozzina di persone che si distribuiscano a vicenda il diritto alla ‘competenza’, e di fronte alle quali la massa dei pii musulmani debba inchinarsi in cieca fede. 
Il marxismo è una dottrina rivoluzionaria che lotta per sempre nuove conquiste della conoscenza, che da nulla aborre più che dalle formule valide una volta per tutte, che mantiene viva la sua forza nel clangore delle armi incrociate dell’autocritica e nei fulmini della storia.» 
(Rosa Luxemburg, 1916)


Riccardo Bellofiore [Dal numero monografico dedicato a Rosa Luxemburg dalla rivista «Alternative per il socialismo», n. 56, dicembre 2019/marzo 2020]
Risultato immagini per Rosa LuxemburgSono trascorsi cento anni dall’assassinio di Rosa Luxemburg. 
Ecco che si sono svolte numerose iniziative per ricordarne la figura, è stato pubblicato qualche volume, o qualche articolo di rivista. 
Certo, nulla a che vedere con la doppia ricorrenza marxiana che abbiamo alle spalle (due anni fa, il cento- cinquantenario della pubblicazione della prima edizione del Capitale, l’anno scorso duecento anni dalla nascita di Karl Marx). Nel caso di Rosa Luxemburg, comprensibilmente (ma pur sempre discutibilmente) il fuoco eè stato sulla figura personale e politica, non sulla teorica, tanto meno sulla Luxemburg economista. Il che, dal mio punto di vista, è una mutilazione che cancella il centro della figura che si vuole ricordare, e in fondo rende concreto il rischio di disperderne l’eredità.
Mi proverò allora a ripercorrerne la riflessione guardando agli scritti economici e politici, oltre gli stereotipi. Si comincerà dalla Luxemburg marxista, per approdare alla Luxemburg marxiana, che ci interroga ancora oggi. Dovrò procedere un po’ con l’accetta, rimandando per un approfondimento a miei altri scritti, che saccheggerò qua e là.
Gli inizi: ristagno e crisi nel marxismo
Rosa Luxemburg nasce il 5 marzo 1871. 
Formalmente, la sua istruzione universitaria, un vero e proprio dottorato, fu a Zurigo (dov’era emigrata nel 1889), in legge ed economia, dopo iniziali studi in filosofia, scienze naturali e matematica. La specializzazione fu in Staatswissenschaft, scienze politiche, ma il tema della tesi (sostenuta nel 1897 e pubblicata l’anno successivo) era distintamente economico, e la sua redazione fu condotta sotto la revisione di un economista della scuola storica, Julius Wolf: Lo sviluppo industriale della Polonia. 
L’integrazione economica di Russia e Polonia aveva reso impraticabile e indesiderabile un ritorno all’indipendenza della Polonia: questa la conclusione del lavoro. 
Il riferimento sostanziale al marxismo era però debole, anche se la tesi antinazionalista solida. 
Il primo intervento significativo di Rosa sarà il pamphlet contro Bernstein, Riforma sociale o rivoluzione, su cui tornerò tra poco. 
Vale la pena, prima, di ricordare alcuni dei pochi interventi degli anni successivi che mostrano come il suo marxismo fosse alquanto convenzionale.
Si prenda il saggio del 1903 su Ristagno e progresso nel marxismo. 
La tesi è semplice. La sostanza della teoria è quale ce l’hanno lasciata Marx e Engels, senza bisogno di ulteriori elaborazioni. Sullo stesso terreno dell’economia, lo splendido ed elaborato strumento che è Il Capitale rimane scarsamente usato. Di fatto, solo il primo libro è ciò che viene compreso ed impiegato. La ragione è però facile da capire. Per quanto fondamentale sul terreno dottrinale, ai fini dell’azione pratica del proletariato il libro terzo non è di grande aiuto, come lo è invece il libro primo che dà conto dell’origine del plusvalore nello sfruttamento e nella tendenza alla socializzazione della produzione. L’opera di Marx è compiuta, l’apparente ristagno deriva dallo stato della realtà che non ha ancora raggiunto quella pienezza che consentirebbe di estrarne altre gemme.
Tre anni prima, nel 1900, sulla Die Neue Zeit, in “Zurück auf Adam Smith!” Luxemburg aveva preso posizione, simmetricamente, contro la nuova scuola storica tedesca, con il suo approccio storico e induttivo, e contro la proposta dell’autore del libro che recensiva, il quale voleva tornare al metodo logico e deduttivo dei classici. Nel saggio colpisce l’adesione acritica e priva di dubbi all’idea che l’economia politica borghese fosse esaurita, che una volta emerso il conflitto di classe tra borghesia e classe operaia non fosse rimasta che l’alternativa tra economia volgare e la critica dell’economia politica, perfettamente compiuta nell’opera di Marx.
Due anni dopo, nel 1905, Luxemburg recensisce sul Vorwärts del 1905 il primo volume delle Teorie sul plusvalore nella edizione di Kautsky. Il filo conduttore è sempre lo stesso. L’economia politica ha avuto una storia: non ne può più avere una. La sua vicenda si è conclusa e può essere compresa attraverso il filtro della lettura marxiana. Vi sono frasi brillanti che descrivono la ‘follia oggettiva’ delle leggi del capitale e la ‘perversione soggettiva’ delle idee del capitale, irriducibile a cosa perché è innanzi tutto rapporto sociale. La teoria del valore-lavoro, proprio come il liberalismo e la democrazia, è nata in culla borghese, ma ormai non può che prosperare nell’orizzonte socialista. L’economia politica degenera dalla scienza all’utopia, proprio quando la critica dell’economia politica percorre il tragitto opposto, dall’utopia alla scienza.
La polemica con Bernstein
Nell’orizzonte di Rosa Luxemburg la marxista sta anche la critica a Bernstein, ma qui più d’uno sono gli elementi di interesse. Inquadriamo prima il contesto della contesa. Luxemburg rivendica le ragioni della ortodossia contro il revisionismo bernsteiniano, proposto in I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (in italiano arricchito da una splendida introduzione di Lucio Colletti, la cui lettura è obbligatoria per chi voglia iniziare a capire qualcosa della teoria del valore di Marx). Contrariamente alle convinzioni di Marx, le contraddizioni del capitalismo andavano attenuandosi: la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto non valeva più, l’impoverimento crescente del proletariato era smentito, la disoccupazione non era cresciuta in modo significativo, credito e cartelli contrastavano l’anarchia del mercato, la società per azioni includeva i lavoratori tra i proprietari rendendo più stabile la società perché la ricchezza era sempre meno concentrata e le classi medie si espandevano. Il socialismo non dipendeva da alcuna necessità economica, il capitalismo era suscettibile di essere trasformato dall’interno. Il problema non era la tattica, era la strategia a causa dell’insufficienza della teoria.
Archiviata la natura scientifica del socialismo, quest’ultimo andava rivendicato come scelta etica di sapore kantiano, e andava conquistato in una transizione democratica non violenta e grazie al contributo essenziale della lotta sindacale. Il fine è niente, il movimento è tutto. (Il lettore attento si renderà conto che quelle che apparivano eresie di Bernstein sono oggi divenute ovvietà scontate nella sinistra che si pensa molto radicale).
Luxemburg rivendica la posizione del socialismo rivoluzionario. I cartelli mostrano la tendenza inarrestabile del capitalismo al monopolio, che non può che aggravare la tendenza ad un crollo ineluttabile: se è vero che la trustificazione del capitale rimanda la crisi da realizzo del capitale, la renderà però più acuta e drammatica. La teoria del crollo è il pilastro ineliminabile del socialismo in una accezione marxiana: senza crollo l’espropriazione degli espropriatori e dunque la rivoluzione è impossibile. Bisogna però evitare un approccio troppo semplicistico. Il crollo andava inteso come caso limite, non come previsione puntuale avente una corrispondenza empirica. Il mercato mondiale non era ancora una realtà, e la fase impura del capitalismo aveva un orizzonte di durata non specificabile innanzi a sé. La carenza di sbocchi che si aggrava con il capitale monopolistico prelude ad una tendenza al ristagno più che a un collasso immediato. Interessanti erano tre aspetti. Primo, l’imputazione a Bernstein di assumere una prospettiva individualistica e non macrosociale. Secondo, la sottolineatura della non linearità della dinamica capitalistica, e dunque la dialettica di tendenza e controtendenza. Terzo, la più nitida comprensione del nodo politico interno al partito, che rende la sua critica più acuta di quella che gli fece Kautsky. Vediamo rapidamente gli ultimi due punti. La concentrazione del capitale in imprese sempre più grandi è una tendenza di lungo termine, che si realizza in un movimento ciclico che vede costantemente l’operare di una controtendenza, il rifiorire delle piccole imprese. Allo stesso modo, l’accumulazione del capitale tendenzialmente riunifica e rafforza il proletariato, il che non esclude l’operare della controtendenza costituita da ondate di destrutturazione della classe operaia. Un quadro ben più complesso e ricco di quello di Bernstein, che riconosce una realtà articolata. Del revisionismo la Luxemburg individua una radice di classe, lo prende insomma sul serio, ponendo il problema di una pratica diversa del partito, che istituisca un legame organico tra lotte immediate e presa del potere politico.
È però evidente che Luxemburg la marxista in questi scritti si muove ancora in un orizzonte che condivide sostanzialmente una visione positivistica, tra il naturalistico e il meccanicistico, che è comune a tutta la Seconda Internazionale.
La Introduzione all’economia politica
Passiamo a Rosa Luxemburg la marxiana: la teorica che va oltre la ricezione classica di Marx tipica del suo tempo, e pone interrogativi inimmaginabili rispetto alla vulgata; la rivoluzionaria che non teme di porre in dubbio quanto scritto da Marx, e intende aggiornarne l’analisi al passo con la realtà economica e politica che ha di fronte. Un saggio di questo atteggiamento ce lo danno le pagine sul Capitale che le chiese Franz Mehring per la sua biografia di Marx:
«Nei due ultimi volumi del Capitale dobbiamo cercare non una soluzione pronta e compiuta di tutti i più importanti problemi di economia politica, ma in parte soltanto l’impostazione di questi problemi, e inoltre indicazioni sulla direzione da seguire per cercarne la soluzione. Come tutta la concezione del mondo di Marx, anche la sua opera principale non è una Bibbia, con verità inappellabili pronte e valide una volta per sempre, ma una fonte inesauribile di incitamento ad ulteriore lavoro teorico, a ulteriori ricerche e lotte per la verità.»
Alcuni spunti sono già nello stesso pamphlet contro Bernstein. Rosa Luxemburg anticipa una lettura dell’astrazione del lavoro che sottolinea come si tratti non di una astrazione concettuale ma di una astrazione reale – il lavoro astratto è una scoperta, scrive, non una invenzione. Di più, Luxemburg individua nel valore una dimensione essenzialmente monetaria – non è una grandezza eterea, non quantitativa; ha cioè una esistenza sociale reale, non immaginaria. Anche se il modo con cui queste tesi vengono formulate non può che seguire Marx nell’assumere il denaro come merce, è un punto cruciale in quanto la critica dell’economia politica è legata a filo doppio al riconoscere nella moneta una componente essenziale del valore. Come dirà nella Introduzione all’economia politica, scoprire che nel valore di scambio di ogni merce, ovvero nel denaro, c’è semplicemente del lavoro umano, non è che riconoscere metà della verità. L’altra metà consiste nello spiegare come, perché il lavoro prende la forma strana del valore di scambio e la forma misteriosa del denaro.
La svolta fu quando dovette preparare le lezioni di economia per la scuola di partito (svolte tra il 1907 e il 1912), pagine che furono pubblicate postume (nello stato incompleto in cui vennero ritrovate) da Paul Levi nel 1925. Approntando le lezioni, si rese conto che vi era un punto irrisolto negli schemi di riproduzione di Marx. Gli schemi davano l’impressione che potesse essere possibile una illimitata riproduzione allargata in equilibrio. Ci tornerò presto. Per ora è piuttosto da chiarire come, nella esposizione della teoria del capitale di Marx, Rosa Luxemburg insista su tre punti che non soltanto sono effettivamente centrali per la critica dell’economia politica, ma che anche consentono, una volta messi insieme, di comprendere meglio la natura del problema su cui inciampò, un problema che non ha nulla a che vedere con una difficoltà che emerge nella circolazione da un supposto sottoconsumo estraneo al suo modo di vedere le cose, ma che ha la sua causa nella dinamica produttiva.
Vediamo in sequenza i tre punti. Il primo attiene alla merce e allo scambio. Nel capitalismo, come società di mercato generalizzato, produttori individuali separati sono connessi socialmente solo attraverso un nesso cosale indiretto. Il lavoro concreto dei singoli prestato all’interno dei molti capitali in concorrenza è un lavoro immediatamente privato, comandato dai capitalisti nell’attesa che esso si riveli poi effettivamente sul mercato, ex post, un lavoro sociale indifferenziato. Non è singolare, scrive, che in una società siffatta l’economia produca risultati inattesi ed enigmatici per gli interessati stessi, diventi per loro un fenomeno strano, alienato, indipendente, di cui occorre ricercare le leggi come si studiano i fenomeni della natura esterna. Per questo l’economia politica come disciplina autonoma nasce soltanto con il capitalismo, quando l’economico si separa dagli altri momenti della connessione sociale, e trova in sé stesso la propria finalità e la propria giustificazione. È evidente che ciò comporta che il valore si attualizzi all’incrocio tra produzione e circolazione: si badi, non nella produzione soltanto, o nella circolazione soltanto, ma nello scambio in quanto rende attuale il valore costituito in potenza nella produzione. Dalla circostanza che si dà valore soltanto se la merce è valore d’uso per altri discende che la produzione è trainata dalla domanda.
Il secondo punto riguarda la teoria del salario. La forma merce si generalizza con la riduzione a merce della stessa capacità lavorativa. La forza-lavoro è proprietà degli esseri umani viventi che si riducono a suoi portatori. Il valore d’uso della forza-lavoro è il lavoro stesso, non separabile dal suo venditore. Ciò ha due conseguenze. In primo luogo, data la durata della giornata lavorativa, il capitalista ottiene un incremento della quota del pluslavoro, e quindi del plusvalore, nella misura in cui è in grado, mediante tecniche di produzione più avanzate, di ridurre il valore di scambio della forza-lavoro, che ha il suo corrispettivo nel salario reale. In secondo luogo, l’estrazione di questo pluslavoro dipende dalla capacità di imporre l’effettiva erogazione del lavoro: dipende perciò da un conflitto tra le classi nel processo di produzione, conflitto che ha la sua radice profonda nel controllo che il lavoratore, singolo o collettivo, è in grado in certe circostanze di sviluppare sulla propria attività, e dunque su quel lavoro vivo, fluido, in divenire, che costituisce la sostanza della valorizzazione. Qui interviene il terzo punto, che discende dai precedenti: la legge della caduta tendenziale del salario relativo. Nel sistema salariale, scrive la Luxemburg, la parte del prodotto spettante ai lavoratori non viene determinata in modo legale o forzoso o arbitrario, ma dipende inversamente dal grado raggiunto dalla produttività del lavoro. Il costante progresso della tecnica rappresenta per il capitalismo una necessità, una condizione vitale. La concorrenza tra i singoli imprenditori costringe ognuno di loro a produrre il più a buon mercato possibile, cioè con il maggior risparmio possibile di lavoro umano. Vi è una continua e necessaria compressione del rapporto tra il capitale variabile e il plusvalore: o, se si vuole, della parte del valore della forza-lavoro nel nuovo valore prodotto. Ciò non è che l’inverso dell’estrazione di plusvalore relativo – il risultato della sussunzione reale del lavoro al capitale, con la sua spinta endogena a rivoluzionare l’assetto organizzativo e tecnologico del processo produttivo.
Luxemburg rifiuta insomma la tesi dell’impoverimento assoluto: i salari reali possono crescere, ma devono farlo meno della forza produttiva del lavoro. Le innovazioni possono dar luogo contemporaneamente ad un aumento del plusvalore e ad un maggior benessere dei lavoratori: non solo nel senso di salari reali più elevati, anche nel senso di riduzioni dell’orario di lavoro. Contrariamente alla versione determinista della lotta di classe che di norma viene attribuita alla Luxemburg, si riconosce uno spazio per una collusione riformista tra capitale e lavoro all’interno del capitalismo avanzato. La possibile convergenza di interessi tra le due classi vale, beninteso, soltanto finché si rimane sul terreno del valore d’uso, della ricerca di un maggior benessere materiale. Le cose non stanno più così, e necessariamente, sul terreno del valore, della spartizione antagonistica della giornata lavorativa, della lotta tra capitale e lavoro sull’uso della forza-lavoro.
Se e quando il salario relativo crescesse – come conseguenza, non soltanto del conflitto distributivo, ma anche delle lotte dei lavoratori nella produzione – questo infrangerebbe certamente una compatibilità distributiva: che è però ‘oggettiva’, nient’affatto naturale. Ciò deve essere prolungato in un’uscita politica dal capitalismo stesso.
L’accumulazione del capitale
La caduta tendenziale del salario relativo comprime la quota dei salari nel reddito, il che evidentemente allarga il vuoto della domanda effettiva che deve essere colmato dagli investimenti dei capitalisti perché non vi sia insufficiente realizzazione del plusvalore. Questo è esattamente il problema che incontra Luxemburg nell’Introduzione all’economia politica e che la porta alle tesi de L’accumulazione del capitale, riduttivamente ricondotte dai suoi critici ad una ottica sotto-consumistica che le è massimamente estranea.
Tra i pochi studiosi (si contano su meno dita che in una mano monca) che hanno davvero preso le misure della sfida teorica da lei lanciata vi è Tadeusz Kowalik, che ne fece negli anni Sessanta l’oggetto di una dissertazione con Oskar Lange (ne uscì un libro che, ironia della sorte, fu tradotto in italiano da Gabriele Pastrello solo nel gennaio 1977: avevo appena presentato la mia tesi sullo stesso argomento, con una argomentazione non distante, nel dicembre 1976, supervisore Claudio Napoleoni). Lange – che a Kowalik anticipò, profetico: “il tema è interessante, ma non la aiuterà” – dà una sintesi estrema della discussione:
«Gli schemi bi- e tri-settoriali di Marx inizialmente non erano stati presi in considerazione. La discussione su questo problema si sviluppò soltanto alla fine del secolo scorso. In quel periodo (nel 1893) Lenin pubblicò lo scritto A proposito della cosiddetta questione del mercato in polemica con la tesi dei populisti (i narodniki) secondo cui in Russia non era possibile lo sviluppo del capitalismo a causa della assenza del mercato. In quest’opera Lenin si avvalse degli schemi della riproduzione di Marx e li utilizzò per esaminare il problema dell’accumulazione e dello sviluppo dell’economia. Un poco più tardi, l’economista russo Tugan-Baranowski cercò di dimostrare, in base agli schemi di Marx, che il capitalismo, come sistema economico, ha possibilità di sviluppo illimitate. Partendo da queste prese di posizione si sviluppò la discussione, durata trent’anni, sull’importanza degli schemi marxiani della riproduzione allargata per definire le prospettive di sviluppo del modo di produzione capitalistico. Questa discussione non ha portato a nessuna conclusione perché, come è risultato, gli schemi dell’equilibrio della riproduzione non sono sufficienti per risolvere il problema che è oggetto della discussione stessa.» (Oskar Lange, Teoria della riproduzione, Boringhieri, 1965)
In una critica agli schemi di riproduzione Luxemburg si chiede da dove viene la moneta che realizza il plusvalore. Il costante andare e ritornare, ne L’accumulazione del capitale, alla questione del denaro è un indice del fatto che la Luxemburg aveva colto bene la natura monetaria del processo capitalistico. È vero che ella si muove inizialmente in modo malcerto: coglie però l’importanza di una difficoltà di realizzazione del plusvalore che ha origine nell’accumulazione stessa, un problema che sfugge interamente ai suoi critici abbagliati da un’immagine del processo economico che non lascia spazio alla moneta se non come velo inessenziale dei fenomeni reali: un’immagine che equipara l’economia capitalistica ad un’economia di baratto.
Qualche anno dopo la sua morte, nel 1924, la più brillante delle molte critiche da subito levate contro di lei fu quella, espressa in tono sprezzante, di Bukharin, resa poi canonica da Sweezy, in base alla quale Luxemburg non si sarebbe resa conto che, poiché le industrie investono parte del plusvalore, e ciò avviene anche in capitale variabile addizionale, la riproduzione capitalistica allargata implicherebbe di per sé un incremento del consumo dei lavoratori. Come abbiamo appena detto, la Luxemburg era consapevole che l’accumulazione del capitale implica normalmente occupazione e salari reali più alti. È il salario relativo che decresce, ma ciò è dovuto esattamente ad una vivace accumulazione nella forma della estrazione del plusvalore relativo. A dissipare la leggenda di una Luxemburg sottoconsumista, per la quale il problema della crisi rimanda al fatto che il capitalismo è un mondo di bassi salari, può bastare questa citazione dalla Luxemburg ripresa dal suo contributo alla biografia di Franz Mehring, già ricordata:
«Tra i temi di propaganda più radicati nell’agitazione socialdemocratica e soprattutto sindacale c’è la affermazione secondo cui le crisi hanno origine prima di tutto per la miopia dei capitalisti che non vorrebbero assolutamente capire che le masse dei loro operai sono i loro migliori clienti, e che basterebbe pagare loro salari più alti per conservarsi una clientela che avrebbe possibilità di comprare e per sventare il pericolo di crisi. Per quanto popolare sia questa idea, essa è completamente sbagliata, e Marx la confuta con le seguenti parole: “È una pura tautologia, dire che le crisi hanno origine per la mancanza di consumo in grado di pagare, o di consumatori in grado di pagare.”»
Per capire il punto de L’accumulazione del capitale si devono cogliere tre aspetti: che il problema va impostato in termini di riproduzione macro-monetaria; che la soluzione non può consistere in un aumento del consumo ma in un aumento dell’investimento capitalistico; che la questione critica riguarda l’andamento dinamico dell’accumulazione, perché nel corso del tempo diviene massimamente improbabile che l’investimento cresca nella misura richiesta.
Per inquadrare il problema, è certo utile rilevare che Tugan-Baranowski e Luxemburg riproducono, dopo Marx, un disaccordo analogo a quello che si era prodotto prima di Marx, tra, da un lato, Ricardo, e, dall’altro, Malthus e Sismondi. Da un lato, della barricata, l’affermazione in base alla quale l’equilibrio aggregato tra la domanda e l’offerta è garantito. In questo caso, si possono dare soltanto crisi dovute alle sproporzioni tra domanda e offerta, con eccesso di offerta di un settore equilibrato da un pari eccesso di domanda in un altro. Dall’altro lato della barricata, l’affermazione opposta in base alla quale l’equilibrio è logicamente impossibile e un eccesso di merci nello scambio generale è un esito sicuro, conseguenza di una inevitabile mancanza universale di domanda effettiva. È questa una posizione che alcune volte assume la forma di un rozzo sotto-consumismo: non è questo però, come si è anticipato, il caso della Luxemburg, che semmai prelude alla posizione di Keynes nella Teoria generale che attribuisce la crisi ad un sotto-investimento.
Dal punto di vista degli schemi di riproduzione il nocciolo di verità (parziale) della posizione luxemburghiana venne isolato da Kalecki. Gli schemi possono essere letti in modo da mettere in evidenza le contraddizioni inerenti al capitalismo a causa del problema della domanda effettiva. Le variabili indipendenti (‘autonome’) fondamentali che determinano i profitti della classe capitalistica sono l’investimento e il consumo degli stessi capitalisti: di lì si può derivare il reddito nazionale e l’occupazione, data la distribuzione tra salari e profitti, e dunque il saggio di sfruttamento, che contribuisce a definire la quota del consumo totale in rapporto al reddito.
Superando l’opposizione tra i due punti di vista di Tugan-Baranowski e Rosa Luxemburg, Kalecki li giustapponeva come posizioni estreme e unilaterali. Tugan-Baranowski ha ragione riguardo al fatto che il consumo non è lo scopo della produzione capitalistica, ma confonde una possibilità con una necessità. Non c’è motivo perché i capitalisti debbano continuare a investire secondo quell’ammontare che sarebbe necessario a mantenere le proporzioni che garantiscono il non presentarsi del problema della domanda effettiva. Se questo non accade, il processo capitalistico diviene instabile. La doppia natura dell’investimento – nello stesso tempo componente della domanda effettiva nel periodo corrente e incremento alla capacità produttiva nel periodo seguente – significa che la difficoltà, anche se superata in un punto del tempo, si riproporrà costantemente. La riproduzione allargata non è una condizione naturale e ovvia del sistema capitalistico. L’errore principale commesso da Luxemburg è stato soltanto quello di assumere che le decisioni di investimento vengano prese dalla classe capitalistica nella sua interezza. Se fosse davvero così, essi investirebbero come si immagina Tugan-Baranowski. Ma il problema è ben reale.
Storicamente, i mercati esterni possono contribuire a risolvere i problemi derivanti dalla carenza di domanda effettiva, nella misura delle esportazioni nette. Kalecki, d’altra parte, ampliava la definizione di mercati esterni finendo con includervi la spesa del governo, sotto il nome di esportazioni interne o ‘domestiche’. Questo si trovava in parte anche nell’argomentazione originale di Luxemburg, nel capitolo sulle commesse pubbliche per gli armamenti. Il militarismo ha un effetto positivo sull’accumulazione – anche qualora le spese militari fossero finanziate per il tramite di una compressione del potere d’acquisto dei lavoratori, ma anche dei ceti medi, per mezzo di tasse o inflazione.
Secondo Kalecki, affinché la spesa per armamenti abbia effetti positivi sull’accumulazione, essa deve essere finanziata con prestiti o tasse sui capitalisti. O i capitalisti finanziari fanno credito al governo, e così quest’ultimo acquista altri beni dai capitalisti industriali, oppure i profitti dei capitalisti che producono merci per il settore militare devono provenire (almeno parzialmente) dai profitti dei capitalisti che producono le altre merci. Kalecki pare non considerare esplicitamente i disavanzi finanziati, direttamente o indirettamente, tramite iniezione di nuova moneta da parte della banca centrale: i prestiti bancari sono sufficienti a promuovere la realizzazione dei risparmi potenziali, in quanto la domanda autonoma si autofinanzia. È certo, peraltro, che in quest’ultimo caso l’effetto espansivo è magnificato.
Non stupisce che le tesi della Luxemburg, in anticipo sui tempi, siano state meglio comprese da un autore fuori dai canoni del marxismo classico come Kalecki. Ma l’autrice che più pare intendere il senso profondo del discorso luxemburghiano è ancora più distante dalla scolastica marxista, come lei eretica tra gli eretici: Joan Robinson.
Nella sua introduzione del 1951 alla edizione inglese de L’accumulazione del capitale, l’economista inglese provava a esporre, in termini più semplici, il filo conduttore dell’argomentazione di quel libro. Il punto delicato stava negli incentivi che spingono all’investimento, nei motivi per i quali i capitalisti dovrebbero allargare il loro stock di capitale effettivo, in funzione della domanda futura delle merci prodotte dal nuovo capitale. L’investimento può determinarsi come continuo incremento di capitale solo se i capitalisti sono fiduciosi nella continua espansione del mercato dei beni che produrranno. Ad essere in questione è insomma se le prospettive ex ante di una domanda crescente di merci sono davvero presenti. Per questa ragione mettersi a discutere le elaborazioni numeriche sugli schemi prodotte dalla Luxemburg non porta da nessuna parte: in quel caso abbiamo sempre a che fare con quantità ex post. Con tutti i suoi errori, tuttavia, il punto cruciale della Luxemburg resta: la vera contraddizione del capitalismo è che non c’è garanzia alcuna che l’accumulazione complessiva e la totalità dei risparmi coincidano.
L’Anticritica
Secondo il filo di ragionamento esposto nel paragrafo precedente, Rosa Luxemburg non deve essere giudicata in base ai risultati delle sue analisi come li troviamo esposti nel libro del 1913, ma dal punto di vista delle nuove problematiche che ha aperto. Grazie alla sua idea che la traduzione dei risparmi (potenziali) in investimenti non potesse essere data per scontata, il ruolo fondamentale delle decisioni d’investimento per l’accumulazione del capitale poteva essere messo in luce in tutta la sua rilevanza, come osserva Joan Robinson. Rimase tuttavia abbagliata dall’idea che gli investimenti dei capitalisti fossero avanzati direttamente in termini di classe. Una volta che gli schemi vengano interpretati alla maniera di Kalecki, l’equazione fondamentale dei profitti potrebbe essere ampliata in modo da considerare come elementi di spesa determinanti i profitti non soltanto le esportazioni nette (come in Luxemburg), ma anche il disavanzo statale (le esportazioni interne o ‘domestiche’ di Kalecki).
Naturalmente lungo questa strada si apre alla possibilità di soluzioni politiche al fallimento della domanda effettiva, per esempio attraverso un abbassamento della disuguaglianza dei redditi, o una politica espansiva del credito, o la spesa del governo (specialmente rilevanti qui le commesse per armamenti). Potremmo aggiungere che, se nel modello permettessimo ai salariati di risparmiare (deviando in ciò da Luxemburg, ma anche da Kalecki), un incremento della propensione al consumo dei lavoratori (cioè una riduzione della loro propensione al risparmio, idealmente fino ad annullarsi o divenire negativa) potrebbe portare ad un aumento dei profitti lordi (come sottolineato da Josef Steindl). Ciò significa, naturalmente, che il consumo a debito può essere un’altra strada per aggirare la difficoltà di realizzazione del valore e del plusvalore.
Detto questo anche una lettura simpatetica quale quella condotta in precedenza fuori dall’orizzonte marxista tradizionale, sulle orme di Kalecki e Kowalik, Robinson e Steindl, lascia da parte due punti centrali, connessi tra di loro.
Il primo ha a che vedere proprio con una radicalizzazione del tema marxiano del ciclo del capitale monetario. È chiarito in quel testo trascurato dalla letteratura critica, che è però luminoso, che è l’Anticritica, scritta in prigione. In quel testo Luxemburg integra la prospettiva della forma di denaro del valore con gli schemi di riproduzione in un modo che traduce questi ultimi in un modello propriamente circuitista e macro-monetario. La questione è ora posta così: il capitale complessivo deve realizzare un profitto lordo aggregato in forma monetaria. Questo richiede l’intervento di un ‘finanziamento’: all’apertura del circuito, come finanziamento iniziale per la produzione; alla chiusura del circuito, come finanziamento finale della domanda di merci. Nelle parole di Luxemburg: ‘da chi è sborsato il denaro?’ e ‘da dove proviene?’. Le spese all’interno del settore capitalistico delle imprese sono spese interne, ‘affari di famiglia’, e non vi è alcun problema a recuperare quelle somme. Lo stesso vale, in fondo, per la spesa salariale monetaria: sebbene corrisponda a un flusso di denaro che va dalla classe dei capitalisti alla classe dei lavoratori, ammesso (come fa Luxemburg, e come è assunto anche da Kalecki) che i lavoratori spendano tutto il loro reddito, questo finanziamento iniziale torna interamente alle imprese senza rischi di disperdersi (lo stesso varrebbe se tutti i risparmi dei lavoratori si rivolgessero ai mercati finanziari).
Il problema della Luxemburg è ora chiaro ed è tutto meno che tecnico, è un problema sociale: da dove proviene la domanda monetaria capitalisticamente produttiva per realizzare monetariamente il sovrappiù? Ed è questo il secondo punto. Sono allora due le proposizioni che la Luxemburg sta avanzando, entrambe essenziali: primo, deve esserci una realizzazione monetaria del plusvalore alla chiusura del circuito; e, secondo, tale afflusso deve essere in grado di spingere ad aprire il circuito nella forma di investimenti capitalistici.
I critici (sino allo stesso simpatizzante Kalecki) cancellano la questione monetaria proprio laddove Luxemburg la pone al centro. Chiedendosi da dove provenga il ‘finanziamento’ (nel duplice senso che si è detto), senza saperlo, ella era in sintonia con la tradizione che, da Wicksell fino a Schumpeter e al Keynes del Trattato sulla moneta, anticipa la moderna ‘teoria del circuito monetario’. Il problema che pone con insistenza, come si dia una realizzazione monetaria del plusvalore, può certo essere risolto alla Kalecki (disavanzi del governo finanziati con nuova moneta; oggi potremmo dire con il consumo a debito con la stessa funzione). Ma si trascurerebbe il secondo punto del ragionamento. È vero: le esportazioni nette rivolte al settore estero e le esportazioni interne al settore governativo sono soluzioni logicamente e storicamente ragionevoli alla sua difficoltà, e dunque la sua teoria del crollo come tale non è accettabile. Vi è però un limite, grave, in una lettura simpatetica della Luxemburg che si accontenti di un orizzonte keynesiano/kaleckiano. Vediamo quale nelle righe che seguono.
C’è una ragione precisa per cui ella rifiuta qualsiasi soluzione che si riduca ad un incremento nel consumo, incluso il consumo dei capitalisti. La prospettiva keynesiana/kaleckiana è efficace nell’isolare il problema della domanda effettiva. Luxemburg sta però pensando l’accumulazione del capitale in una forma marxiana non edulcorata, quale riproduzione del ‘rapporto di capitale’. Il punto non è soltanto quello della realizzazione del plusvalore potenziale (attivando processi di produzione qualsiasi), bensì innanzitutto quello della sua accumulazione, a partire da una spesa del plusvalore che nello stesso tempo si ponga come il primo atto di un nuovo ciclo di produzione di plusvalore (cioè attivando processi di produzione di capitale). La forma di domanda che risolve il suo problema deve essere l’investimento dei capitalisti. Questa è la ragione per cui l’armamento è perfettamente calzante con la sua prospettiva. Come ha notato Joan Robinson, il militarismo implica investimenti capitalistici che sono sì produttivi di plusvalore, ma la cui produzione è composta di valori d’uso che non entrano nella riproduzione capitalistica. Nuova domanda effettiva senza nuova capacità produttiva.
Se si leggono insieme l’Introduzione all’economia politica e L’accumulazione del capitale, tanto più se nell’orizzonte macro-monetario di classe dell’Anticritica, è chiaro che il problema del realizzo del plusvalore è interno, e non separato, dalla dinamica della valorizzazione nel processo di accumulazione. Luxemburg non poteva sapere che nei Grundrisse Marx aveva fornito gli elementi per formulare una teoria della crisi più convincente, anche se lui stesso non vi ritornò mai esplicitamente.
La questione può essere messa in questi termini. La crescita degli investimenti si accompagna alla crescita di nuove imprese e di nuovi rami di produzione, ed al cambiamento delle vecchie imprese e dei vecchi rami di produzione. Ciò, tanto più se si accompagna alla produzione di plusvalore relativo che implica crescita del saggio di plusvalore, comporta uno sbilanciamento significativo delle condizioni di equilibrio degli scambi intersettoriali. Cambiamenti di tal fatta in una economia non pianificata rendono sempre più probabile l’emergere di una crisi da sproporzioni, con eccessi di domanda in alcuni settori ed eccessi di offerta in altri settori.
L’eccesso della produzione sulla domanda solvibile determina caduta dei prezzi, e si avranno perciò perdite e fallimenti, che a loro volta comporteranno licenziamenti; cadono quindi sia la domanda di beni strumentali da parte delle imprese fallite sia la domanda di beni salario da parte dei disoccupati. Quando questo fenomeno investe settori importanti dell’economia, la flessione della domanda di investimenti e di consumo trasmette l’eccesso di offerta ad altri settori, in un processo a catena, che ha come suo esito una sovrapproduzione generale. Lo sviluppo sproporzionato della produzione determina la crisi nella realizzazione.
Organizzazione, sindacato e consigli
La riduzione di Rosa Luxemburg al crollismo fa il paio con l’accusa di spontaneismo, visto come l’altra faccia della medaglia del determinismo economico. Anche qui le cose non stanno esattamente così. Per intendere la teoria della organizzazione della Luxemburg, nella sua opposizione a Lenin, è bene rileggersi un articolo di Rossana Rossanda, “Classe e partito”, comparso nel settembre 1969 sul manifesto rivista.
Per Lenin la lotta operaia non può andare oltre il conflitto economico, oltre la rivendicazione di una distribuzione più favorevole ai lavoratori. La lotta sociale può divenire lotta politica soltanto se il partito, l’autentico ‘soggetto’ rivoluzionario, è in grado di dare ‘coscienza’ al proletariato che è ‘oggetto’ dell’agire rivoluzionario, in sé totalmente interno ad un orizzonte capitalistico. Una visione in cui è evidente la radice idealistica. La Luxemburg, scrive Rossanda, affronta la questione dell’organizzazione all’interno della concezione marxiana della coscienza di classe, contro la tesi leniniana di un’avanguardia esterna. Il ruolo dell’avanguardia resta comunque centrale per trasformare le contraddizioni oggettive, cioè sociali, in rottura rivoluzionaria: ma non certo per una assenza della dimensione politica della lotta operaia in quanto tale, quanto piuttosto per il rischio della sua oggettiva frantumazione e per la conseguente necessità di una strategia unificante.
Paradossalmente, una ripresa della visione luxemburghiana la si legge, negli stessi anni, nel Poscritto che Lucio Magri pubblicò nel 1970 sulla New Left Review alla traduzione inglese di un saggio del 1966 apparso su Critica marxista, “Problemi della teoria marxista del partito rivoluzionario”. Paradossalmente perché, benché quello scritto intendesse sfuggire alla coppia spontaneismo-giacobinismo, se correttamente vedeva nel secondo corno il limite del leninismo, sbrigativamente inquadrava nel primo corno il pensiero di Rosa Luxemburg. Come gli fece notare Norman Geras in The Legacy of Rosa Luxemburg, non può non colpire che nel testo del 1966 Lenin venga assolto dall’imputazione di giacobinismo attribuendogli la tesi luxemburghiana che pone l’alternativa ‘socialismo o barbarie’:
Il passaggio dal capitalismo al socialismo non fu per lui un processo necessario, la fatale e univoca conclusione delle forze oggettive di sviluppo interne alla società capitalistica. Egli affermò al contrario che tali forze per un verso si dimostrano incapaci financo di portare a compimento la rivoluzione borghese, per l’altro pongono capo, nel loro processo spontaneo, alla crisi della civiltà, ad una nuova barbarie. L’atto con cui il proletariato interviene in questo sviluppo, ne corregge la dinamica, e produce una soluzione positiva e superante, interpreta e realizza possibilità intrinseche nella storia, sue spinte reali, ma è pur sempre una scelta, l’espressione di una volontà libera. La coscienza rivoluzionaria dunque non è e non può essere solo una ‘scienza della società capitalistica’ ma altresì prassi creatrice del proletariato nel processo della propria autosoppressione; non può essere una scienza dell’economia, ma una ‘critica dell’economia’, non il prodotto del pensiero precedente ma il suo superamento.
Nel Poscritto Magri riconosce che l’articolo del 1966, viziato da considerazioni tattiche per la sua collocazione nel Partito comunista, si limitava in fondo a interpretare in modo aperto e democratico il leninismo e nulla più. L’errore, non tattico ma fondamentale, era una visione del partito come totalità, dove invece il capitalismo produce e riproduce, sia pure in forma ambigua e contraddittoria, le forze sociali e i bisogni su cui, attraversando i movimenti di massa, è possibile costruire l’alternativa rivoluzionaria. Occorre insomma stabilire una dialettica tra masse e partito, dove le prime non vanno viste come disorganizzate e il secondo come vertice istituzionale, apparato burocratico. Fra il partito e le masse deve esservi un terzo momento, i consigli, istituzioni politiche autonome e unitarie della classe, rispetto alle quali il partito agisce come sintesi e stimolo. Ma questo, anche se non viene detto, è proprio Rosa Luxemburg, oltre che il primo Gramsci.
Nella sua tesi di laurea, scritta negli stessi anni, Claudio Sabattini coglie limpidamente che la Luxemburg non è spontaneista: la sua è semmai una teoria dell’organizzazione alternativa a quella blanquista di Lenin, in quanto l’avanguardia (centralizzata) non è separata dal movimento che deve unificare e cui deve dare sbocco politico, ed è sempre soggetta al controllo dal basso. Sabattini chiarisce anche bene come la maturazione della riflessione politica della Luxemburg si accompagni ad una diversa caratterizzazione della lotta sindacale. Al tempo della polemica con Bernstein, la Luxemburg afferma che il sindacato non fa altro che realizzare la legge capitalistica del valore della forza-lavoro contro l’impulso immediato del singolo capitalista, il suo ruolo è del tutto impolitico se non per il contribuire a quella pedagogia rivoluzionaria che rivela al proletariato i limiti del sistema. Contrariamente al giudizio che ne aveva dato Lelio Basso, qui lotta per le riforme e lotta rivoluzionaria, economia e politica, sembrano irrimediabilmente scisse.
La svolta è appunto la polemica con Lenin sul partito e poi, come conseguenza della Rivoluzione Russa del 1905, lo scritto Sciopero generale, partito e sindacati del 1906. Lo sciopero di massa non è solo un mezzo, e lungi dall’essere impolitico è la forma di manifestazione della lotta proletaria nella rivoluzione. Il rapporto tra lotta economica e lotta politica va nei due sensi: la coscienza è radicata nell’essere sociale della classe, con cui pure non si identifica. In quell’antagonismo si dà, scrive Sabattini, “una possibilità storica dell’autonomia, nella prassi, della classe operaia nei confronti del capitale a partire dalla fabbrica [...] a condizione di fare valere la sua ‘insubordinazione’ al regime capitalistico di fabbrica, puntando sulla continua autodeterminazione delle proprie condizioni.”
Un discorso che parla ancora al nostro presente, su tre questioni. La rottura della tenaglia tra separatezza del partito (coscienza esterna) e autosufficienza (immediata) del movimento. La centralità della lotta del mondo del lavoro a partire dalle sue condizioni, per una ridefinizione generale del contesto sociale. Tra i due momenti, essenziale, ancora nelle parole di Sabattini, l’autogoverno della classe come strumento non sostituibile del processo rivoluzionario.
Oltre la centralità dell’economico
Si è già ricordato che quando si legge di Rosa Luxemburg negli ultimi decenni, non è della teoria marxiana dell’economia e dell’organizzazione che si tratta, ma della socialista (o comunista) ‘dal volto umano’, amante della natura, femminista ante-litteram. Le cose non sono così semplici.
Alla Luxemburg era estranea una visione romantica della natura, di cui ben conosceva la crudeltà. In una famosa lettera dal carcere, del 2 maggio 1917, scrive:
Interiormente, mi sento molto più a mio agio in un piccolo tratto di giardino, come qui, o in un campo, stesa sull’erba e circondata di calabroni, che in un congresso del partito. A voi posso dire tutto ciò, voi non mi sospetterete subito di aver tradito il socialismo. Voi lo sapete, malgrado questo spero di morire al mio posto: in una battaglia di strada o in un penitenziario. Ma nel mio intimo, io appartengo più agli uccelli che ai miei “compagni”. E questo non perché solo nella natura, come tanti politici che hanno fatto interiormente bancarotta, io trovo un rifugio, un riposo. Al contrario, io trovo nella natura, come tra gli uomini, tanta crudeltà, che ne soffro molto.
Né la sua visione del femminismo non classista dei suoi tempi era poi così simpatetica. In un articolo del 1914 scrive che come mogli borghesi le donne sono parassiti della società, che godono dei frutti dello sfruttamento, mentre come piccolo borghesi sono animali da soma per lo sfruttamento. È come proletarie che le donne divengono per la prima volta esseri umani, perché è soltanto attraverso la lotta che si diviene esseri umani, partecipi nel processo della cultura e della storia dell’umanità. Si sarebbe ben guardata dal qualificare il lavoro domestico o di cura un lavoro direttamente produttivo di valore. Nel capitalismo e nel mondo del lavoro salariato, scrive nel 1912, l’unico lavoro produttivo è quello che produce plusvalore. Produttiva di valore è la danzatrice di music-hall, non chi svolge lavoro per la riproduzione sociale. È certo brutale e folle, ma corrisponde esattamente alla brutalità e alla follia della società capitalistica. Qui sta esattamente il punto, per la donna come per l’uomo proletario, secondo la rivoluzionaria polacca. Riconoscere chiaramente e lucidamente questa brutalità e follia: combatterla praticamente, non negarla illusoriamente.
Una delle proposizioni più controverse, ma anche più preziose di Rosa Luxemburg è che l’economia politica è destinata a esaurirsi essendo coeva al capitalismo: “Poiché l’economia è una scienza delle leggi particolari del modo di produzione capitalista, la sua esistenza e la sua funzione dipendono da questo modo di produzione e perdono ogni base quando questo cessa di esistere [...] la fine dell’economia politica come scienza è una azione storica”. Ciò per cui si batte è la messa in atto di un intervento politico che sradichi le basi oggettive – materiali, o sociali, che dir si voglia – dell’opacità del modo di produzione capitalistico e lo scandalo dello sfruttamento.
Al di là del capitale, dunque, i fenomeni economici e la riflessione su di essi – che, come è ovvio, non scompariranno – dismettono la propria separatezza ed autonomia, per divenire subordinati ad altre forme dell’agire e ad altri discorsi. La centralità dell’‘economico’, direbbe Claudio Napoleoni, non può che essere constatata, e il suo superamento deve essere posto come compito. Se la rivoluzione è rottura del primato dell’economico, si dovrà allora andare oltre la centralità della produzione. La liberazione del lavoro andrà non contrapposta ma integrata alle ulteriori dimensioni essenziali dell’essere umano, come il piacere e la contemplazione, la cura e il rispetto della natura.
In un approccio che vuole andare – per così dire – oltre Marx con Marx non è per nulla rifiutata la pluralità dell’identità sociale individuale. Non è vero che in Marx si darebbe una forzata accentuazione del tema dell’unità teorica delle diverse identità attorno alla dimensione esclusiva dell’homo faber. Tutto al contrario: se qualcosa di Marx è ancora oggi attuale, è proprio la sottolineatura che ad imporre un’unità coatta è semmai il capitale; ma anche che per lottare efficacemente contro il primato della produzione bisogna riconoscerne la realtà.
La misura delle cose
Edoarda Masi, in un contributo ad un convegno che organizzai a Bergamo nel 2004 ricordò una (durissima) lettera che Luxemburg indirizzò a Mathilde Würm il 28 dicembre 1916, dove, in risposta al pessimismo e al tono meschinamente lamentoso della sua amica, Rosa Luxemburg usò toni così violenti da apparire quasi incredibili (ma è questo un caso in cui la polemica, aggiunge Masi a ragione, è tanto più forte quanto più profondo è l’affetto), e conclude:
Ti basta così, come auguri di Natale? Allora bada di rimanere Mensch [essere umano]! Essere Mensch è la cosa più importante! E questo significa: essere fermi, lucidi e allegri. Sì, allegri nonostante tutto e tutti – giacché il piagnisteo è affare dei deboli. Essere Mensch significa gettare gioiosamente tutta la propria vita sulla bilancia della sorte, quando è necessario, ma nello stesso tempo godere di ogni giorno chiaro e di ogni bella nuvola; oh, non posso scrivere nessuna ricetta su come essere Mensch, so soltanto come lo si è, e anche tu lo sapevi quando passeggiavamo qualche ora insieme nei campi di Südende e la luce rossa del crepuscolo si stendeva sul grano. Il mondo è così bello nonostante tutto l’orrore e sarebbe ancora più bello se non ci fossero i deboli e i vili.
In una lettera del 3 luglio 1900 al suo compagno, Leo Jogiches, leggiamo queste frasi:
Come ho bisogno di te! Abbiamo bisogno l’uno dell’altro! Davvero nessun’altra coppia ha una tale missione in questa vita come noi abbiamo, mutuamente, di fare dell’altro un Mensch. Noi, tutti e due, internamente ‘viviamo’ di continuo, cioè cambiamo, cresciamo, perciò di continuo si crea una sproporzione, uno squilibrio, una disarmonia di alcune parti dell’anima con le altre. Dunque bisogna fare una continua revisione interna, ricostituire l’ordine e l’armonia. C’è sempre qualche cosa da fare con se stessi, ma per non perdere mai la misura delle cose, che consiste a mio avviso nell’utilità della vita esteriore, l’atto positivo, l’attività creativa, in una parola per non affondare nella consumazione e nella digestione spirituale, ci vuole il controllo di un’altra persona, che ci sia vicina, che comprenda tutto, ma che sia fuori da questo ‘io’ che cerca l’armonia. [corsivo nell’originale]
Forse mi sbaglio, ma vedo un nesso tra quanto scrive questa donna innamorata e quanto pensa la marxista e la rivoluzionaria: e certo è difficile trovare un esempio più alto di questo di una antropologia autenticamente marxiana nella sua accezione più ricca.
Mi sembra che la Rosa inattuale di cui ha scritto Rossana Rossanda nella sua introduzione alla ristampa della biografia di Paul Frölich, la Luxemburg che parla al nostro bisogno di “unità della persona nella indolenzita trama del dolore e della speranza, dell’intelligenza e dei sentimenti, dell’io e del mondo, ricomposti”, sia la stessa Luxemburg che vuole superare la separazione tra individuo e società di cui parla l’Introduzione all’economia politica. Che la donna che scrive “ho bisogno dopotutto di qualcuno che mi creda quando dico che solo per sbaglio sono presa nel turbine della storia del mondo, ma che in realtà sono nata per stare a custodire le oche”, è la stessa persona che preconizza nei suoi scritti scientifici la possibile fine di un mondo costruito sul primato dell’economico.
Che, insomma, questa donna che sottopone l’‘io’ che cerca l’armonia al rischio della relazione con l’altro da sé ed alla sfida del cambiamento sia, fuori da ogni vuota retorica, la combattente che le sue opere e la sua lotta ci hanno consegnato.

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