«Qualche
sentimentale piangerà che dei marxisti bisticcino fra loro, che
‘autorità’ provate siano messe in discussione.
Ma il marxismo non è una
dozzina di persone che si distribuiscano a vicenda il diritto alla
‘competenza’, e di fronte alle quali la massa dei pii musulmani debba
inchinarsi in cieca fede.
Il marxismo è una dottrina rivoluzionaria che
lotta per sempre nuove conquiste della conoscenza, che da nulla aborre
più che dalle formule valide una volta per tutte, che mantiene viva la
sua forza nel clangore delle armi incrociate dell’autocritica e nei
fulmini della storia.»
(Rosa Luxemburg, 1916)
Riccardo Bellofiore [Dal numero monografico dedicato a Rosa Luxemburg dalla rivista «Alternative per il socialismo», n. 56, dicembre 2019/marzo 2020]
Ecco che si sono
svolte numerose iniziative per ricordarne la figura, è stato pubblicato
qualche volume, o qualche articolo di rivista.
Certo, nulla a che
vedere con la doppia ricorrenza marxiana che abbiamo alle spalle (due
anni fa, il cento- cinquantenario della pubblicazione della prima
edizione del Capitale, l’anno scorso duecento anni dalla nascita di Karl
Marx). Nel caso di Rosa Luxemburg, comprensibilmente (ma pur sempre
discutibilmente) il fuoco eè stato sulla figura personale e politica,
non sulla teorica, tanto meno sulla Luxemburg economista. Il che, dal
mio punto di vista, è una mutilazione che cancella il centro della
figura che si vuole ricordare, e in fondo rende concreto il rischio di
disperderne l’eredità.
Mi
proverò allora a ripercorrerne la riflessione guardando agli scritti
economici e politici, oltre gli stereotipi. Si comincerà dalla Luxemburg
marxista, per approdare alla Luxemburg marxiana, che ci interroga
ancora oggi. Dovrò procedere un po’ con l’accetta, rimandando per un
approfondimento a miei altri scritti, che saccheggerò qua e là.
Rosa
Luxemburg nasce il 5 marzo 1871.
Formalmente, la sua istruzione
universitaria, un vero e proprio dottorato, fu a Zurigo (dov’era
emigrata nel 1889), in legge ed economia, dopo iniziali studi in
filosofia, scienze naturali e matematica. La specializzazione fu in
Staatswissenschaft, scienze politiche, ma il tema della tesi (sostenuta
nel 1897 e pubblicata l’anno successivo) era distintamente economico, e
la sua redazione fu condotta sotto la revisione di un economista della
scuola storica, Julius Wolf: Lo sviluppo industriale della Polonia.
L’integrazione economica di Russia e Polonia aveva reso impraticabile e
indesiderabile un ritorno all’indipendenza della Polonia: questa la
conclusione del lavoro.
Il riferimento sostanziale al marxismo era però
debole, anche se la tesi antinazionalista solida.
Il primo intervento
significativo di Rosa sarà il pamphlet contro Bernstein, Riforma sociale
o rivoluzione, su cui tornerò tra poco.
Vale la pena, prima, di
ricordare alcuni dei pochi interventi degli anni successivi che mostrano
come il suo marxismo fosse alquanto convenzionale.
Si
prenda il saggio del 1903 su Ristagno e progresso nel marxismo.
La tesi è
semplice. La sostanza della teoria è quale ce l’hanno lasciata Marx e
Engels, senza bisogno di ulteriori elaborazioni. Sullo stesso terreno
dell’economia, lo splendido ed elaborato strumento che è Il Capitale
rimane scarsamente usato. Di fatto, solo il primo libro è ciò che viene
compreso ed impiegato. La ragione è però facile da capire. Per quanto
fondamentale sul terreno dottrinale, ai fini dell’azione pratica del
proletariato il libro terzo non è di grande aiuto, come lo è invece il
libro primo che dà conto dell’origine del plusvalore nello sfruttamento e
nella tendenza alla socializzazione della produzione. L’opera di Marx è
compiuta, l’apparente ristagno deriva dallo stato della realtà che non
ha ancora raggiunto quella pienezza che consentirebbe di estrarne altre
gemme.
Tre
anni prima, nel 1900, sulla Die Neue Zeit, in “Zurück auf Adam Smith!”
Luxemburg aveva preso posizione, simmetricamente, contro la nuova scuola
storica tedesca, con il suo approccio storico e induttivo, e contro la
proposta dell’autore del libro che recensiva, il quale voleva tornare al
metodo logico e deduttivo dei classici. Nel saggio colpisce l’adesione
acritica e priva di dubbi all’idea che l’economia politica borghese
fosse esaurita, che una volta emerso il conflitto di classe tra
borghesia e classe operaia non fosse rimasta che l’alternativa tra
economia volgare e la critica dell’economia politica, perfettamente
compiuta nell’opera di Marx.
Due
anni dopo, nel 1905, Luxemburg recensisce sul Vorwärts del 1905 il
primo volume delle Teorie sul plusvalore nella edizione di Kautsky. Il
filo conduttore è sempre lo stesso. L’economia politica ha avuto una
storia: non ne può più avere una. La sua vicenda si è conclusa e può
essere compresa attraverso il filtro della lettura marxiana. Vi sono
frasi brillanti che descrivono la ‘follia oggettiva’ delle leggi del
capitale e la ‘perversione soggettiva’ delle idee del capitale,
irriducibile a cosa perché è innanzi tutto rapporto sociale. La teoria
del valore-lavoro, proprio come il liberalismo e la democrazia, è nata
in culla borghese, ma ormai non può che prosperare nell’orizzonte
socialista. L’economia politica degenera dalla scienza all’utopia,
proprio quando la critica dell’economia politica percorre il tragitto
opposto, dall’utopia alla scienza.
La polemica con Bernstein
Nell’orizzonte
di Rosa Luxemburg la marxista sta anche la critica a Bernstein, ma qui
più d’uno sono gli elementi di interesse. Inquadriamo prima il contesto
della contesa. Luxemburg rivendica le ragioni della ortodossia contro il
revisionismo bernsteiniano, proposto in I presupposti del socialismo e i
compiti della socialdemocrazia (in italiano arricchito da una splendida
introduzione di Lucio Colletti, la cui lettura è obbligatoria per chi
voglia iniziare a capire qualcosa della teoria del valore di Marx).
Contrariamente alle convinzioni di Marx, le contraddizioni del
capitalismo andavano attenuandosi: la legge della caduta tendenziale del
saggio del profitto non valeva più, l’impoverimento crescente del
proletariato era smentito, la disoccupazione non era cresciuta in modo
significativo, credito e cartelli contrastavano l’anarchia del mercato,
la società per azioni includeva i lavoratori tra i proprietari rendendo
più stabile la società perché la ricchezza era sempre meno concentrata e
le classi medie si espandevano. Il socialismo non dipendeva da alcuna
necessità economica, il capitalismo era suscettibile di essere
trasformato dall’interno. Il problema non era la tattica, era la
strategia a causa dell’insufficienza della teoria.
Archiviata
la natura scientifica del socialismo, quest’ultimo andava rivendicato
come scelta etica di sapore kantiano, e andava conquistato in una
transizione democratica non violenta e grazie al contributo essenziale
della lotta sindacale. Il fine è niente, il movimento è tutto. (Il
lettore attento si renderà conto che quelle che apparivano eresie di
Bernstein sono oggi divenute ovvietà scontate nella sinistra che si
pensa molto radicale).
Luxemburg
rivendica la posizione del socialismo rivoluzionario. I cartelli
mostrano la tendenza inarrestabile del capitalismo al monopolio, che non
può che aggravare la tendenza ad un crollo ineluttabile: se è vero che
la trustificazione del capitale rimanda la crisi da realizzo del
capitale, la renderà però più acuta e drammatica. La teoria del crollo è
il pilastro ineliminabile del socialismo in una accezione marxiana:
senza crollo l’espropriazione degli espropriatori e dunque la
rivoluzione è impossibile. Bisogna però evitare un approccio troppo
semplicistico. Il crollo andava inteso come caso limite, non come
previsione puntuale avente una corrispondenza empirica. Il mercato
mondiale non era ancora una realtà, e la fase impura del capitalismo
aveva un orizzonte di durata non specificabile innanzi a sé. La carenza
di sbocchi che si aggrava con il capitale monopolistico prelude ad una
tendenza al ristagno più che a un collasso immediato. Interessanti erano
tre aspetti. Primo, l’imputazione a Bernstein di assumere una
prospettiva individualistica e non macrosociale. Secondo, la
sottolineatura della non linearità della dinamica capitalistica, e
dunque la dialettica di tendenza e controtendenza. Terzo, la più nitida
comprensione del nodo politico interno al partito, che rende la sua
critica più acuta di quella che gli fece Kautsky. Vediamo rapidamente
gli ultimi due punti. La concentrazione del capitale in imprese sempre
più grandi è una tendenza di lungo termine, che si realizza in un
movimento ciclico che vede costantemente l’operare di una
controtendenza, il rifiorire delle piccole imprese. Allo stesso modo,
l’accumulazione del capitale tendenzialmente riunifica e rafforza il
proletariato, il che non esclude l’operare della controtendenza
costituita da ondate di destrutturazione della classe operaia. Un quadro
ben più complesso e ricco di quello di Bernstein, che riconosce una
realtà articolata. Del revisionismo la Luxemburg individua una radice di
classe, lo prende insomma sul serio, ponendo il problema di una pratica
diversa del partito, che istituisca un legame organico tra lotte
immediate e presa del potere politico.
È
però evidente che Luxemburg la marxista in questi scritti si muove
ancora in un orizzonte che condivide sostanzialmente una visione
positivistica, tra il naturalistico e il meccanicistico, che è comune a
tutta la Seconda Internazionale.
La Introduzione all’economia politica
Passiamo
a Rosa Luxemburg la marxiana: la teorica che va oltre la ricezione
classica di Marx tipica del suo tempo, e pone interrogativi
inimmaginabili rispetto alla vulgata; la rivoluzionaria che non teme di
porre in dubbio quanto scritto da Marx, e intende aggiornarne l’analisi
al passo con la realtà economica e politica che ha di fronte. Un saggio
di questo atteggiamento ce lo danno le pagine sul Capitale che le chiese
Franz Mehring per la sua biografia di Marx:
«Nei
due ultimi volumi del Capitale dobbiamo cercare non una soluzione pronta
e compiuta di tutti i più importanti problemi di economia politica, ma
in parte soltanto l’impostazione di questi problemi, e inoltre
indicazioni sulla direzione da seguire per cercarne la soluzione. Come
tutta la concezione del mondo di Marx, anche la sua opera principale non
è una Bibbia, con verità inappellabili pronte e valide una volta per
sempre, ma una fonte inesauribile di incitamento ad ulteriore lavoro
teorico, a ulteriori ricerche e lotte per la verità.»
Alcuni
spunti sono già nello stesso pamphlet contro Bernstein. Rosa Luxemburg
anticipa una lettura dell’astrazione del lavoro che sottolinea come si
tratti non di una astrazione concettuale ma di una astrazione reale – il
lavoro astratto è una scoperta, scrive, non una invenzione. Di più,
Luxemburg individua nel valore una dimensione essenzialmente monetaria –
non è una grandezza eterea, non quantitativa; ha cioè una esistenza
sociale reale, non immaginaria. Anche se il modo con cui queste tesi
vengono formulate non può che seguire Marx nell’assumere il denaro come
merce, è un punto cruciale in quanto la critica dell’economia politica
è legata a filo doppio al riconoscere nella moneta una componente
essenziale del valore. Come dirà nella Introduzione all’economia
politica, scoprire che nel valore di scambio di ogni merce, ovvero nel
denaro, c’è semplicemente del lavoro umano, non è che riconoscere metà
della verità. L’altra metà consiste nello spiegare come, perché il
lavoro prende la forma strana del valore di scambio e la forma
misteriosa del denaro.
La
svolta fu quando dovette preparare le lezioni di economia per la scuola
di partito (svolte tra il 1907 e il 1912), pagine che furono pubblicate
postume (nello stato incompleto in cui vennero ritrovate) da Paul Levi
nel 1925. Approntando le lezioni, si rese conto che vi era un punto
irrisolto negli schemi di riproduzione di Marx. Gli schemi davano
l’impressione che potesse essere possibile una illimitata riproduzione
allargata in equilibrio. Ci tornerò presto. Per ora è piuttosto da
chiarire come, nella esposizione della teoria del capitale di Marx, Rosa
Luxemburg insista su tre punti che non soltanto sono effettivamente
centrali per la critica dell’economia politica, ma che anche consentono,
una volta messi insieme, di comprendere meglio la natura del problema
su cui inciampò, un problema che non ha nulla a che vedere con una
difficoltà che emerge nella circolazione da un supposto sottoconsumo
estraneo al suo modo di vedere le cose, ma che ha la sua causa nella
dinamica produttiva.
Vediamo
in sequenza i tre punti. Il primo attiene alla merce e allo scambio.
Nel capitalismo, come società di mercato generalizzato, produttori
individuali separati sono connessi socialmente solo attraverso un nesso
cosale indiretto. Il lavoro concreto dei singoli prestato all’interno
dei molti capitali in concorrenza è un lavoro immediatamente privato,
comandato dai capitalisti nell’attesa che esso si riveli poi
effettivamente sul mercato, ex post, un lavoro sociale indifferenziato.
Non è singolare, scrive, che in una società siffatta l’economia produca
risultati inattesi ed enigmatici per gli interessati stessi, diventi per
loro un fenomeno strano, alienato, indipendente, di cui occorre
ricercare le leggi come si studiano i fenomeni della natura esterna. Per
questo l’economia politica come disciplina autonoma nasce soltanto con
il capitalismo, quando l’economico si separa dagli altri momenti della
connessione sociale, e trova in sé stesso la propria finalità e la
propria giustificazione. È evidente che ciò comporta che il valore si
attualizzi all’incrocio tra produzione e circolazione: si badi, non
nella produzione soltanto, o nella circolazione soltanto, ma nello
scambio in quanto rende attuale il valore costituito in potenza nella
produzione. Dalla circostanza che si dà valore soltanto se la merce è
valore d’uso per altri discende che la produzione è trainata dalla
domanda.
Il
secondo punto riguarda la teoria del salario. La forma merce si
generalizza con la riduzione a merce della stessa capacità lavorativa.
La forza-lavoro è proprietà degli esseri umani viventi che si riducono a
suoi portatori. Il valore d’uso della forza-lavoro è il lavoro stesso,
non separabile dal suo venditore. Ciò ha due conseguenze. In primo
luogo, data la durata della giornata lavorativa, il capitalista ottiene
un incremento della quota del pluslavoro, e quindi del plusvalore, nella
misura in cui è in grado, mediante tecniche di produzione più avanzate,
di ridurre il valore di scambio della forza-lavoro, che ha il suo
corrispettivo nel salario reale. In secondo luogo, l’estrazione di
questo pluslavoro dipende dalla capacità di imporre l’effettiva
erogazione del lavoro: dipende perciò da un conflitto tra le classi nel
processo di produzione, conflitto che ha la sua radice profonda nel
controllo che il lavoratore, singolo o collettivo, è in grado in certe
circostanze di sviluppare sulla propria attività, e dunque su quel
lavoro vivo, fluido, in divenire, che costituisce la sostanza della
valorizzazione. Qui interviene il terzo punto, che discende dai
precedenti: la legge della caduta tendenziale del salario relativo. Nel
sistema salariale, scrive la Luxemburg, la parte del prodotto spettante
ai lavoratori non viene determinata in modo legale o forzoso o
arbitrario, ma dipende inversamente dal grado raggiunto dalla
produttività del lavoro. Il costante progresso della tecnica rappresenta
per il capitalismo una necessità, una condizione vitale. La concorrenza
tra i singoli imprenditori costringe ognuno di loro a produrre il più a
buon mercato possibile, cioè con il maggior risparmio possibile di
lavoro umano. Vi è una continua e necessaria compressione del rapporto
tra il capitale variabile e il plusvalore: o, se si vuole, della parte
del valore della forza-lavoro nel nuovo valore prodotto. Ciò non è che
l’inverso dell’estrazione di plusvalore relativo – il risultato della
sussunzione reale del lavoro al capitale, con la sua spinta endogena a
rivoluzionare l’assetto organizzativo e tecnologico del processo
produttivo.
Luxemburg
rifiuta insomma la tesi dell’impoverimento assoluto: i salari reali
possono crescere, ma devono farlo meno della forza produttiva del
lavoro. Le innovazioni possono dar luogo contemporaneamente ad un
aumento del plusvalore e ad un maggior benessere dei lavoratori: non
solo nel senso di salari reali più elevati, anche nel senso di riduzioni
dell’orario di lavoro. Contrariamente alla versione determinista della
lotta di classe che di norma viene attribuita alla Luxemburg, si
riconosce uno spazio per una collusione riformista tra capitale e lavoro
all’interno del capitalismo avanzato. La possibile convergenza di
interessi tra le due classi vale, beninteso, soltanto finché si rimane
sul terreno del valore d’uso, della ricerca di un maggior benessere
materiale. Le cose non stanno più così, e necessariamente, sul terreno
del valore, della spartizione antagonistica della giornata lavorativa,
della lotta tra capitale e lavoro sull’uso della forza-lavoro.
Se e
quando il salario relativo crescesse – come conseguenza, non soltanto
del conflitto distributivo, ma anche delle lotte dei lavoratori nella
produzione – questo infrangerebbe certamente una compatibilità
distributiva: che è però ‘oggettiva’, nient’affatto naturale. Ciò deve
essere prolungato in un’uscita politica dal capitalismo stesso.
L’accumulazione del capitale
La
caduta tendenziale del salario relativo comprime la quota dei salari nel
reddito, il che evidentemente allarga il vuoto della domanda effettiva
che deve essere colmato dagli investimenti dei capitalisti perché non vi
sia insufficiente realizzazione del plusvalore. Questo è esattamente il
problema che incontra Luxemburg nell’Introduzione all’economia politica
e che la porta alle tesi de L’accumulazione del capitale,
riduttivamente ricondotte dai suoi critici ad una ottica
sotto-consumistica che le è massimamente estranea.
Tra i
pochi studiosi (si contano su meno dita che in una mano monca) che
hanno davvero preso le misure della sfida teorica da lei lanciata vi è
Tadeusz Kowalik, che ne fece negli anni Sessanta l’oggetto di una
dissertazione con Oskar Lange (ne uscì un libro che, ironia della
sorte, fu tradotto in italiano da Gabriele Pastrello solo nel gennaio
1977: avevo appena presentato la mia tesi sullo stesso argomento, con
una argomentazione non distante, nel dicembre 1976, supervisore Claudio
Napoleoni). Lange – che a Kowalik anticipò, profetico: “il tema è
interessante, ma non la aiuterà” – dà una sintesi estrema della
discussione:
«Gli
schemi bi- e tri-settoriali di Marx inizialmente non erano stati presi
in considerazione. La discussione su questo problema si sviluppò
soltanto alla fine del secolo scorso. In quel periodo (nel 1893) Lenin
pubblicò lo scritto A proposito della cosiddetta questione del mercato
in polemica con la tesi dei populisti (i narodniki) secondo cui in
Russia non era possibile lo sviluppo del capitalismo a causa della
assenza del mercato. In quest’opera Lenin si avvalse degli schemi della
riproduzione di Marx e li utilizzò per esaminare il problema
dell’accumulazione e dello sviluppo dell’economia. Un poco più tardi,
l’economista russo Tugan-Baranowski cercò di dimostrare, in base agli
schemi di Marx, che il capitalismo, come sistema economico, ha
possibilità di sviluppo illimitate. Partendo da queste prese di
posizione si sviluppò la discussione, durata trent’anni, sull’importanza
degli schemi marxiani della riproduzione allargata per definire le
prospettive di sviluppo del modo di produzione capitalistico. Questa
discussione non ha portato a nessuna conclusione perché, come è
risultato, gli schemi dell’equilibrio della riproduzione non sono
sufficienti per risolvere il problema che è oggetto della discussione
stessa.» (Oskar Lange, Teoria della riproduzione, Boringhieri, 1965)
In
una critica agli schemi di riproduzione Luxemburg si chiede da dove
viene la moneta che realizza il plusvalore. Il costante andare e
ritornare, ne L’accumulazione del capitale, alla questione del denaro è
un indice del fatto che la Luxemburg aveva colto bene la natura
monetaria del processo capitalistico. È vero che ella si muove
inizialmente in modo malcerto: coglie però l’importanza di una
difficoltà di realizzazione del plusvalore che ha origine
nell’accumulazione stessa, un problema che sfugge interamente ai suoi
critici abbagliati da un’immagine del processo economico che non lascia
spazio alla moneta se non come velo inessenziale dei fenomeni reali:
un’immagine che equipara l’economia capitalistica ad un’economia di
baratto.
Qualche
anno dopo la sua morte, nel 1924, la più brillante delle molte critiche
da subito levate contro di lei fu quella, espressa in tono sprezzante,
di Bukharin, resa poi canonica da Sweezy, in base alla quale Luxemburg
non si sarebbe resa conto che, poiché le industrie investono parte del
plusvalore, e ciò avviene anche in capitale variabile addizionale, la
riproduzione capitalistica allargata implicherebbe di per sé un
incremento del consumo dei lavoratori. Come abbiamo appena detto, la
Luxemburg era consapevole che l’accumulazione del capitale implica
normalmente occupazione e salari reali più alti. È il salario relativo
che decresce, ma ciò è dovuto esattamente ad una vivace accumulazione
nella forma della estrazione del plusvalore relativo. A dissipare la
leggenda di una Luxemburg sottoconsumista, per la quale il problema
della crisi rimanda al fatto che il capitalismo è un mondo di bassi
salari, può bastare questa citazione dalla Luxemburg ripresa dal suo
contributo alla biografia di Franz Mehring, già ricordata:
«Tra i
temi di propaganda più radicati nell’agitazione socialdemocratica e
soprattutto sindacale c’è la affermazione secondo cui le crisi hanno
origine prima di tutto per la miopia dei capitalisti che non vorrebbero
assolutamente capire che le masse dei loro operai sono i loro migliori
clienti, e che basterebbe pagare loro salari più alti per conservarsi
una clientela che avrebbe possibilità di comprare e per sventare il
pericolo di crisi. Per quanto popolare sia questa idea, essa è
completamente sbagliata, e Marx la confuta con le seguenti parole: “È
una pura tautologia, dire che le crisi hanno origine per la mancanza di
consumo in grado di pagare, o di consumatori in grado di pagare.”»
Per
capire il punto de L’accumulazione del capitale si devono cogliere tre
aspetti: che il problema va impostato in termini di riproduzione
macro-monetaria; che la soluzione non può consistere in un aumento del
consumo ma in un aumento dell’investimento capitalistico; che la
questione critica riguarda l’andamento dinamico dell’accumulazione,
perché nel corso del tempo diviene massimamente improbabile che
l’investimento cresca nella misura richiesta.
Per
inquadrare il problema, è certo utile rilevare che Tugan-Baranowski e
Luxemburg riproducono, dopo Marx, un disaccordo analogo a quello che si
era prodotto prima di Marx, tra, da un lato, Ricardo, e, dall’altro,
Malthus e Sismondi. Da un lato, della barricata, l’affermazione in base
alla quale l’equilibrio aggregato tra la domanda e l’offerta è
garantito. In questo caso, si possono dare soltanto crisi dovute alle
sproporzioni tra domanda e offerta, con eccesso di offerta di un settore
equilibrato da un pari eccesso di domanda in un altro. Dall’altro lato
della barricata, l’affermazione opposta in base alla quale l’equilibrio è
logicamente impossibile e un eccesso di merci nello scambio generale è
un esito sicuro, conseguenza di una inevitabile mancanza universale di
domanda effettiva. È questa una posizione che alcune volte assume la
forma di un rozzo sotto-consumismo: non è questo però, come si è
anticipato, il caso della Luxemburg, che semmai prelude alla posizione
di Keynes nella Teoria generale che attribuisce la crisi ad un
sotto-investimento.
Dal
punto di vista degli schemi di riproduzione il nocciolo di verità
(parziale) della posizione luxemburghiana venne isolato da Kalecki. Gli
schemi possono essere letti in modo da mettere in evidenza le
contraddizioni inerenti al capitalismo a causa del problema della
domanda effettiva. Le variabili indipendenti (‘autonome’) fondamentali
che determinano i profitti della classe capitalistica sono
l’investimento e il consumo degli stessi capitalisti: di lì si può
derivare il reddito nazionale e l’occupazione, data la distribuzione tra
salari e profitti, e dunque il saggio di sfruttamento, che contribuisce
a definire la quota del consumo totale in rapporto al reddito.
Superando
l’opposizione tra i due punti di vista di Tugan-Baranowski e Rosa
Luxemburg, Kalecki li giustapponeva come posizioni estreme e
unilaterali. Tugan-Baranowski ha ragione riguardo al fatto che il
consumo non è lo scopo della produzione capitalistica, ma confonde una
possibilità con una necessità. Non c’è motivo perché i capitalisti
debbano continuare a investire secondo quell’ammontare che sarebbe
necessario a mantenere le proporzioni che garantiscono il non
presentarsi del problema della domanda effettiva. Se questo non accade,
il processo capitalistico diviene instabile. La doppia natura
dell’investimento – nello stesso tempo componente della domanda
effettiva nel periodo corrente e incremento alla capacità produttiva
nel periodo seguente – significa che la difficoltà, anche se superata
in un punto del tempo, si riproporrà costantemente. La riproduzione
allargata non è una condizione naturale e ovvia del sistema
capitalistico. L’errore principale commesso da Luxemburg è stato
soltanto quello di assumere che le decisioni di investimento vengano
prese dalla classe capitalistica nella sua interezza. Se fosse davvero
così, essi investirebbero come si immagina Tugan-Baranowski. Ma il
problema è ben reale.
Storicamente,
i mercati esterni possono contribuire a risolvere i problemi derivanti
dalla carenza di domanda effettiva, nella misura delle esportazioni
nette. Kalecki, d’altra parte, ampliava la definizione di mercati
esterni finendo con includervi la spesa del governo, sotto il nome di
esportazioni interne o ‘domestiche’. Questo si trovava in parte anche
nell’argomentazione originale di Luxemburg, nel capitolo sulle commesse
pubbliche per gli armamenti. Il militarismo ha un effetto positivo
sull’accumulazione – anche qualora le spese militari fossero finanziate
per il tramite di una compressione del potere d’acquisto dei lavoratori,
ma anche dei ceti medi, per mezzo di tasse o inflazione.
Secondo
Kalecki, affinché la spesa per armamenti abbia effetti positivi
sull’accumulazione, essa deve essere finanziata con prestiti o tasse sui
capitalisti. O i capitalisti finanziari fanno credito al governo, e
così quest’ultimo acquista altri beni dai capitalisti industriali,
oppure i profitti dei capitalisti che producono merci per il settore
militare devono provenire (almeno parzialmente) dai profitti dei
capitalisti che producono le altre merci. Kalecki pare non considerare
esplicitamente i disavanzi finanziati, direttamente o indirettamente,
tramite iniezione di nuova moneta da parte della banca centrale: i
prestiti bancari sono sufficienti a promuovere la realizzazione dei
risparmi potenziali, in quanto la domanda autonoma si autofinanzia. È
certo, peraltro, che in quest’ultimo caso l’effetto espansivo è
magnificato.
Non
stupisce che le tesi della Luxemburg, in anticipo sui tempi, siano state
meglio comprese da un autore fuori dai canoni del marxismo classico
come Kalecki. Ma l’autrice che più pare intendere il senso profondo del
discorso luxemburghiano è ancora più distante dalla scolastica marxista,
come lei eretica tra gli eretici: Joan Robinson.
Nella
sua introduzione del 1951 alla edizione inglese de L’accumulazione del
capitale, l’economista inglese provava a esporre, in termini più
semplici, il filo conduttore dell’argomentazione di quel libro. Il punto
delicato stava negli incentivi che spingono all’investimento, nei
motivi per i quali i capitalisti dovrebbero allargare il loro stock di
capitale effettivo, in funzione della domanda futura delle merci
prodotte dal nuovo capitale. L’investimento può determinarsi come
continuo incremento di capitale solo se i capitalisti sono fiduciosi
nella continua espansione del mercato dei beni che produrranno. Ad
essere in questione è insomma se le prospettive ex ante di una domanda
crescente di merci sono davvero presenti. Per questa ragione mettersi a
discutere le elaborazioni numeriche sugli schemi prodotte dalla
Luxemburg non porta da nessuna parte: in quel caso abbiamo sempre a che
fare con quantità ex post. Con tutti i suoi errori, tuttavia, il punto
cruciale della Luxemburg resta: la vera contraddizione del capitalismo è
che non c’è garanzia alcuna che l’accumulazione complessiva e la
totalità dei risparmi coincidano.
L’Anticritica
Secondo
il filo di ragionamento esposto nel paragrafo precedente, Rosa
Luxemburg non deve essere giudicata in base ai risultati delle sue
analisi come li troviamo esposti nel libro del 1913, ma dal punto di
vista delle nuove problematiche che ha aperto. Grazie alla sua idea che
la traduzione dei risparmi (potenziali) in investimenti non potesse
essere data per scontata, il ruolo fondamentale delle decisioni
d’investimento per l’accumulazione del capitale poteva essere messo in
luce in tutta la sua rilevanza, come osserva Joan Robinson. Rimase
tuttavia abbagliata dall’idea che gli investimenti dei capitalisti
fossero avanzati direttamente in termini di classe. Una volta che gli
schemi vengano interpretati alla maniera di Kalecki, l’equazione
fondamentale dei profitti potrebbe essere ampliata in modo da
considerare come elementi di spesa determinanti i profitti non soltanto
le esportazioni nette (come in Luxemburg), ma anche il disavanzo statale
(le esportazioni interne o ‘domestiche’ di Kalecki).
Naturalmente
lungo questa strada si apre alla possibilità di soluzioni politiche al
fallimento della domanda effettiva, per esempio attraverso un
abbassamento della disuguaglianza dei redditi, o una politica espansiva
del credito, o la spesa del governo (specialmente rilevanti qui le
commesse per armamenti). Potremmo aggiungere che, se nel modello
permettessimo ai salariati di risparmiare (deviando in ciò da Luxemburg,
ma anche da Kalecki), un incremento della propensione al consumo dei
lavoratori (cioè una riduzione della loro propensione al risparmio,
idealmente fino ad annullarsi o divenire negativa) potrebbe portare ad
un aumento dei profitti lordi (come sottolineato da Josef Steindl). Ciò
significa, naturalmente, che il consumo a debito può essere un’altra
strada per aggirare la difficoltà di realizzazione del valore e del
plusvalore.
Detto
questo anche una lettura simpatetica quale quella condotta in
precedenza fuori dall’orizzonte marxista tradizionale, sulle orme di
Kalecki e Kowalik, Robinson e Steindl, lascia da parte due punti
centrali, connessi tra di loro.
Il
primo ha a che vedere proprio con una radicalizzazione del tema marxiano
del ciclo del capitale monetario. È chiarito in quel testo trascurato
dalla letteratura critica, che è però luminoso, che è l’Anticritica,
scritta in prigione. In quel testo Luxemburg integra la prospettiva
della forma di denaro del valore con gli schemi di riproduzione in un
modo che traduce questi ultimi in un modello propriamente circuitista e
macro-monetario. La questione è ora posta così: il capitale complessivo
deve realizzare un profitto lordo aggregato in forma monetaria. Questo
richiede l’intervento di un ‘finanziamento’: all’apertura del circuito,
come finanziamento iniziale per la produzione; alla chiusura del
circuito, come finanziamento finale della domanda di merci. Nelle parole
di Luxemburg: ‘da chi è sborsato il denaro?’ e ‘da dove proviene?’. Le
spese all’interno del settore capitalistico delle imprese sono spese
interne, ‘affari di famiglia’, e non vi è alcun problema a recuperare
quelle somme. Lo stesso vale, in fondo, per la spesa salariale
monetaria: sebbene corrisponda a un flusso di denaro che va dalla classe
dei capitalisti alla classe dei lavoratori, ammesso (come fa Luxemburg,
e come è assunto anche da Kalecki) che i lavoratori spendano tutto il
loro reddito, questo finanziamento iniziale torna interamente alle
imprese senza rischi di disperdersi (lo stesso varrebbe se tutti i
risparmi dei lavoratori si rivolgessero ai mercati finanziari).
Il
problema della Luxemburg è ora chiaro ed è tutto meno che tecnico, è un
problema sociale: da dove proviene la domanda monetaria
capitalisticamente produttiva per realizzare monetariamente il
sovrappiù? Ed è questo il secondo punto. Sono allora due le
proposizioni che la Luxemburg sta avanzando, entrambe essenziali: primo,
deve esserci una realizzazione monetaria del plusvalore alla chiusura
del circuito; e, secondo, tale afflusso deve essere in grado di spingere
ad aprire il circuito nella forma di investimenti capitalistici.
I
critici (sino allo stesso simpatizzante Kalecki) cancellano la questione
monetaria proprio laddove Luxemburg la pone al centro. Chiedendosi da
dove provenga il ‘finanziamento’ (nel duplice senso che si è detto),
senza saperlo, ella era in sintonia con la tradizione che, da Wicksell
fino a Schumpeter e al Keynes del Trattato sulla moneta, anticipa la
moderna ‘teoria del circuito monetario’. Il problema che pone con
insistenza, come si dia una realizzazione monetaria del plusvalore, può
certo essere risolto alla Kalecki (disavanzi del governo finanziati con
nuova moneta; oggi potremmo dire con il consumo a debito con la stessa
funzione). Ma si trascurerebbe il secondo punto del ragionamento. È
vero: le esportazioni nette rivolte al settore estero e le esportazioni
interne al settore governativo sono soluzioni logicamente e storicamente
ragionevoli alla sua difficoltà, e dunque la sua teoria del crollo come
tale non è accettabile. Vi è però un limite, grave, in una lettura
simpatetica della Luxemburg che si accontenti di un orizzonte
keynesiano/kaleckiano. Vediamo quale nelle righe che seguono.
C’è
una ragione precisa per cui ella rifiuta qualsiasi soluzione che si
riduca ad un incremento nel consumo, incluso il consumo dei capitalisti.
La prospettiva keynesiana/kaleckiana è efficace nell’isolare il
problema della domanda effettiva. Luxemburg sta però pensando
l’accumulazione del capitale in una forma marxiana non edulcorata, quale
riproduzione del ‘rapporto di capitale’. Il punto non è soltanto quello
della realizzazione del plusvalore potenziale (attivando processi di
produzione qualsiasi), bensì innanzitutto quello della sua
accumulazione, a partire da una spesa del plusvalore che nello stesso
tempo si ponga come il primo atto di un nuovo ciclo di produzione di
plusvalore (cioè attivando processi di produzione di capitale). La forma
di domanda che risolve il suo problema deve essere l’investimento dei
capitalisti. Questa è la ragione per cui l’armamento è perfettamente
calzante con la sua prospettiva. Come ha notato Joan Robinson, il
militarismo implica investimenti capitalistici che sono sì produttivi di
plusvalore, ma la cui produzione è composta di valori d’uso che non
entrano nella riproduzione capitalistica. Nuova domanda effettiva senza
nuova capacità produttiva.
Se si
leggono insieme l’Introduzione all’economia politica e L’accumulazione
del capitale, tanto più se nell’orizzonte macro-monetario di classe
dell’Anticritica, è chiaro che il problema del realizzo del plusvalore è
interno, e non separato, dalla dinamica della valorizzazione nel
processo di accumulazione. Luxemburg non poteva sapere che nei
Grundrisse Marx aveva fornito gli elementi per formulare una teoria
della crisi più convincente, anche se lui stesso non vi ritornò mai
esplicitamente.
La
questione può essere messa in questi termini. La crescita degli
investimenti si accompagna alla crescita di nuove imprese e di nuovi
rami di produzione, ed al cambiamento delle vecchie imprese e dei vecchi
rami di produzione. Ciò, tanto più se si accompagna alla produzione di
plusvalore relativo che implica crescita del saggio di plusvalore,
comporta uno sbilanciamento significativo delle condizioni di equilibrio
degli scambi intersettoriali. Cambiamenti di tal fatta in una economia
non pianificata rendono sempre più probabile l’emergere di una crisi da
sproporzioni, con eccessi di domanda in alcuni settori ed eccessi di
offerta in altri settori.
L’eccesso
della produzione sulla domanda solvibile determina caduta dei prezzi, e
si avranno perciò perdite e fallimenti, che a loro volta comporteranno
licenziamenti; cadono quindi sia la domanda di beni strumentali da parte
delle imprese fallite sia la domanda di beni salario da parte dei
disoccupati. Quando questo fenomeno investe settori importanti
dell’economia, la flessione della domanda di investimenti e di consumo
trasmette l’eccesso di offerta ad altri settori, in un processo a
catena, che ha come suo esito una sovrapproduzione generale. Lo sviluppo
sproporzionato della produzione determina la crisi nella realizzazione.
Organizzazione, sindacato e consigli
La
riduzione di Rosa Luxemburg al crollismo fa il paio con l’accusa di
spontaneismo, visto come l’altra faccia della medaglia del determinismo
economico. Anche qui le cose non stanno esattamente così. Per intendere
la teoria della organizzazione della Luxemburg, nella sua opposizione a
Lenin, è bene rileggersi un articolo di Rossana Rossanda, “Classe e
partito”, comparso nel settembre 1969 sul manifesto rivista.
Per
Lenin la lotta operaia non può andare oltre il conflitto economico,
oltre la rivendicazione di una distribuzione più favorevole ai
lavoratori. La lotta sociale può divenire lotta politica soltanto se il
partito, l’autentico ‘soggetto’ rivoluzionario, è in grado di dare
‘coscienza’ al proletariato che è ‘oggetto’ dell’agire rivoluzionario,
in sé totalmente interno ad un orizzonte capitalistico. Una visione in
cui è evidente la radice idealistica. La Luxemburg, scrive Rossanda,
affronta la questione dell’organizzazione all’interno della concezione
marxiana della coscienza di classe, contro la tesi leniniana di
un’avanguardia esterna. Il ruolo dell’avanguardia resta comunque
centrale per trasformare le contraddizioni oggettive, cioè sociali, in
rottura rivoluzionaria: ma non certo per una assenza della dimensione
politica della lotta operaia in quanto tale, quanto piuttosto per il
rischio della sua oggettiva frantumazione e per la conseguente
necessità di una strategia unificante.
Paradossalmente,
una ripresa della visione luxemburghiana la si legge, negli stessi
anni, nel Poscritto che Lucio Magri pubblicò nel 1970 sulla New Left
Review alla traduzione inglese di un saggio del 1966 apparso su Critica
marxista, “Problemi della teoria marxista del partito rivoluzionario”.
Paradossalmente perché, benché quello scritto intendesse sfuggire alla
coppia spontaneismo-giacobinismo, se correttamente vedeva nel secondo
corno il limite del leninismo, sbrigativamente inquadrava nel primo
corno il pensiero di Rosa Luxemburg. Come gli fece notare Norman Geras
in The Legacy of Rosa Luxemburg, non può non colpire che nel testo del
1966 Lenin venga assolto dall’imputazione di giacobinismo attribuendogli
la tesi luxemburghiana che pone l’alternativa ‘socialismo o barbarie’:
Il
passaggio dal capitalismo al socialismo non fu per lui un processo
necessario, la fatale e univoca conclusione delle forze oggettive di
sviluppo interne alla società capitalistica. Egli affermò al contrario
che tali forze per un verso si dimostrano incapaci financo di portare a
compimento la rivoluzione borghese, per l’altro pongono capo, nel loro
processo spontaneo, alla crisi della civiltà, ad una nuova barbarie.
L’atto con cui il proletariato interviene in questo sviluppo, ne
corregge la dinamica, e produce una soluzione positiva e superante,
interpreta e realizza possibilità intrinseche nella storia, sue spinte
reali, ma è pur sempre una scelta, l’espressione di una volontà libera.
La coscienza rivoluzionaria dunque non è e non può essere solo una
‘scienza della società capitalistica’ ma altresì prassi creatrice del
proletariato nel processo della propria autosoppressione; non può essere
una scienza dell’economia, ma una ‘critica dell’economia’, non il
prodotto del pensiero precedente ma il suo superamento.
Nel
Poscritto Magri riconosce che l’articolo del 1966, viziato da
considerazioni tattiche per la sua collocazione nel Partito comunista,
si limitava in fondo a interpretare in modo aperto e democratico il
leninismo e nulla più. L’errore, non tattico ma fondamentale, era una
visione del partito come totalità, dove invece il capitalismo produce e
riproduce, sia pure in forma ambigua e contraddittoria, le forze sociali
e i bisogni su cui, attraversando i movimenti di massa, è possibile
costruire l’alternativa rivoluzionaria. Occorre insomma stabilire una
dialettica tra masse e partito, dove le prime non vanno viste come
disorganizzate e il secondo come vertice istituzionale, apparato
burocratico. Fra il partito e le masse deve esservi un terzo momento, i
consigli, istituzioni politiche autonome e unitarie della classe,
rispetto alle quali il partito agisce come sintesi e stimolo. Ma questo,
anche se non viene detto, è proprio Rosa Luxemburg, oltre che il primo
Gramsci.
Nella
sua tesi di laurea, scritta negli stessi anni, Claudio Sabattini coglie
limpidamente che la Luxemburg non è spontaneista: la sua è semmai una
teoria dell’organizzazione alternativa a quella blanquista di Lenin, in
quanto l’avanguardia (centralizzata) non è separata dal movimento che
deve unificare e cui deve dare sbocco politico, ed è sempre soggetta al
controllo dal basso. Sabattini chiarisce anche bene come la maturazione
della riflessione politica della Luxemburg si accompagni ad una diversa
caratterizzazione della lotta sindacale. Al tempo della polemica con
Bernstein, la Luxemburg afferma che il sindacato non fa altro che
realizzare la legge capitalistica del valore della forza-lavoro contro
l’impulso immediato del singolo capitalista, il suo ruolo è del tutto
impolitico se non per il contribuire a quella pedagogia rivoluzionaria
che rivela al proletariato i limiti del sistema. Contrariamente al
giudizio che ne aveva dato Lelio Basso, qui lotta per le riforme e lotta
rivoluzionaria, economia e politica, sembrano irrimediabilmente scisse.
La
svolta è appunto la polemica con Lenin sul partito e poi, come
conseguenza della Rivoluzione Russa del 1905, lo scritto Sciopero
generale, partito e sindacati del 1906. Lo sciopero di massa non è solo
un mezzo, e lungi dall’essere impolitico è la forma di manifestazione
della lotta proletaria nella rivoluzione. Il rapporto tra lotta
economica e lotta politica va nei due sensi: la coscienza è radicata
nell’essere sociale della classe, con cui pure non si identifica. In
quell’antagonismo si dà, scrive Sabattini, “una possibilità storica
dell’autonomia, nella prassi, della classe operaia nei confronti del
capitale a partire dalla fabbrica [...] a condizione di fare valere la
sua ‘insubordinazione’ al regime capitalistico di fabbrica, puntando
sulla continua autodeterminazione delle proprie condizioni.”
Un
discorso che parla ancora al nostro presente, su tre questioni. La
rottura della tenaglia tra separatezza del partito (coscienza esterna) e
autosufficienza (immediata) del movimento. La centralità della lotta
del mondo del lavoro a partire dalle sue condizioni, per una
ridefinizione generale del contesto sociale. Tra i due momenti,
essenziale, ancora nelle parole di Sabattini, l’autogoverno della classe
come strumento non sostituibile del processo rivoluzionario.
Oltre la centralità dell’economico
Si è
già ricordato che quando si legge di Rosa Luxemburg negli ultimi
decenni, non è della teoria marxiana dell’economia e dell’organizzazione
che si tratta, ma della socialista (o comunista) ‘dal volto umano’,
amante della natura, femminista ante-litteram. Le cose non sono così
semplici.
Alla
Luxemburg era estranea una visione romantica della natura, di cui ben
conosceva la crudeltà. In una famosa lettera dal carcere, del 2 maggio
1917, scrive:
Interiormente,
mi sento molto più a mio agio in un piccolo tratto di giardino, come
qui, o in un campo, stesa sull’erba e circondata di calabroni, che in un
congresso del partito. A voi posso dire tutto ciò, voi non mi
sospetterete subito di aver tradito il socialismo. Voi lo sapete,
malgrado questo spero di morire al mio posto: in una battaglia di strada
o in un penitenziario. Ma nel mio intimo, io appartengo più agli
uccelli che ai miei “compagni”. E questo non perché solo nella natura,
come tanti politici che hanno fatto interiormente bancarotta, io trovo
un rifugio, un riposo. Al contrario, io trovo nella natura, come tra gli
uomini, tanta crudeltà, che ne soffro molto.
Né la
sua visione del femminismo non classista dei suoi tempi era poi così
simpatetica. In un articolo del 1914 scrive che come mogli borghesi le
donne sono parassiti della società, che godono dei frutti dello
sfruttamento, mentre come piccolo borghesi sono animali da soma per lo
sfruttamento. È come proletarie che le donne divengono per la prima
volta esseri umani, perché è soltanto attraverso la lotta che si diviene
esseri umani, partecipi nel processo della cultura e della storia
dell’umanità. Si sarebbe ben guardata dal qualificare il lavoro
domestico o di cura un lavoro direttamente produttivo di valore. Nel
capitalismo e nel mondo del lavoro salariato, scrive nel 1912, l’unico
lavoro produttivo è quello che produce plusvalore. Produttiva di valore è
la danzatrice di music-hall, non chi svolge lavoro per la riproduzione
sociale. È certo brutale e folle, ma corrisponde esattamente alla
brutalità e alla follia della società capitalistica. Qui sta esattamente
il punto, per la donna come per l’uomo proletario, secondo la
rivoluzionaria polacca. Riconoscere chiaramente e lucidamente questa
brutalità e follia: combatterla praticamente, non negarla
illusoriamente.
Una
delle proposizioni più controverse, ma anche più preziose di Rosa
Luxemburg è che l’economia politica è destinata a esaurirsi essendo
coeva al capitalismo: “Poiché l’economia è una scienza delle leggi
particolari del modo di produzione capitalista, la sua esistenza e la
sua funzione dipendono da questo modo di produzione e perdono ogni base
quando questo cessa di esistere [...] la fine dell’economia politica
come scienza è una azione storica”. Ciò per cui si batte è la messa in
atto di un intervento politico che sradichi le basi oggettive –
materiali, o sociali, che dir si voglia – dell’opacità del modo di
produzione capitalistico e lo scandalo dello sfruttamento.
Al di
là del capitale, dunque, i fenomeni economici e la riflessione su di
essi – che, come è ovvio, non scompariranno – dismettono la propria
separatezza ed autonomia, per divenire subordinati ad altre forme
dell’agire e ad altri discorsi. La centralità dell’‘economico’, direbbe
Claudio Napoleoni, non può che essere constatata, e il suo superamento
deve essere posto come compito. Se la rivoluzione è rottura del primato
dell’economico, si dovrà allora andare oltre la centralità della
produzione. La liberazione del lavoro andrà non contrapposta ma
integrata alle ulteriori dimensioni essenziali dell’essere umano, come
il piacere e la contemplazione, la cura e il rispetto della natura.
In un
approccio che vuole andare – per così dire – oltre Marx con Marx non è
per nulla rifiutata la pluralità dell’identità sociale individuale. Non è
vero che in Marx si darebbe una forzata accentuazione del tema
dell’unità teorica delle diverse identità attorno alla dimensione
esclusiva dell’homo faber. Tutto al contrario: se qualcosa di Marx è
ancora oggi attuale, è proprio la sottolineatura che ad imporre un’unità
coatta è semmai il capitale; ma anche che per lottare efficacemente
contro il primato della produzione bisogna riconoscerne la realtà.
La misura delle cose
Edoarda
Masi, in un contributo ad un convegno che organizzai a Bergamo nel 2004
ricordò una (durissima) lettera che Luxemburg indirizzò a Mathilde
Würm il 28 dicembre 1916, dove, in risposta al pessimismo e al tono
meschinamente lamentoso della sua amica, Rosa Luxemburg usò toni così
violenti da apparire quasi incredibili (ma è questo un caso in cui la
polemica, aggiunge Masi a ragione, è tanto più forte quanto più profondo
è l’affetto), e conclude:
Ti
basta così, come auguri di Natale? Allora bada di rimanere Mensch
[essere umano]! Essere Mensch è la cosa più importante! E questo
significa: essere fermi, lucidi e allegri. Sì, allegri nonostante tutto e
tutti – giacché il piagnisteo è affare dei deboli. Essere Mensch
significa gettare gioiosamente tutta la propria vita sulla bilancia
della sorte, quando è necessario, ma nello stesso tempo godere di ogni
giorno chiaro e di ogni bella nuvola; oh, non posso scrivere nessuna
ricetta su come essere Mensch, so soltanto come lo si è, e anche tu lo
sapevi quando passeggiavamo qualche ora insieme nei campi di Südende e
la luce rossa del crepuscolo si stendeva sul grano. Il mondo è così
bello nonostante tutto l’orrore e sarebbe ancora più bello se non ci
fossero i deboli e i vili.
In una lettera del 3 luglio 1900 al suo compagno, Leo Jogiches, leggiamo queste frasi:
Come
ho bisogno di te! Abbiamo bisogno l’uno dell’altro! Davvero nessun’altra
coppia ha una tale missione in questa vita come noi abbiamo,
mutuamente, di fare dell’altro un Mensch. Noi, tutti e due, internamente
‘viviamo’ di continuo, cioè cambiamo, cresciamo, perciò di continuo si
crea una sproporzione, uno squilibrio, una disarmonia di alcune parti
dell’anima con le altre. Dunque bisogna fare una continua revisione
interna, ricostituire l’ordine e l’armonia. C’è sempre qualche cosa da
fare con se stessi, ma per non perdere mai la misura delle cose, che
consiste a mio avviso nell’utilità della vita esteriore, l’atto
positivo, l’attività creativa, in una parola per non affondare nella
consumazione e nella digestione spirituale, ci vuole il controllo di
un’altra persona, che ci sia vicina, che comprenda tutto, ma che sia
fuori da questo ‘io’ che cerca l’armonia. [corsivo nell’originale]
Forse
mi sbaglio, ma vedo un nesso tra quanto scrive questa donna innamorata e
quanto pensa la marxista e la rivoluzionaria: e certo è difficile
trovare un esempio più alto di questo di una antropologia autenticamente
marxiana nella sua accezione più ricca.
Mi
sembra che la Rosa inattuale di cui ha scritto Rossana Rossanda nella
sua introduzione alla ristampa della biografia di Paul Frölich, la
Luxemburg che parla al nostro bisogno di “unità della persona nella
indolenzita trama del dolore e della speranza, dell’intelligenza e dei
sentimenti, dell’io e del mondo, ricomposti”, sia la stessa Luxemburg
che vuole superare la separazione tra individuo e società di cui parla
l’Introduzione all’economia politica. Che la donna che scrive “ho
bisogno dopotutto di qualcuno che mi creda quando dico che solo per
sbaglio sono presa nel turbine della storia del mondo, ma che in realtà
sono nata per stare a custodire le oche”, è la stessa persona che
preconizza nei suoi scritti scientifici la possibile fine di un mondo
costruito sul primato dell’economico.
Che,
insomma, questa donna che sottopone l’‘io’ che cerca l’armonia al
rischio della relazione con l’altro da sé ed alla sfida del cambiamento
sia, fuori da ogni vuota retorica, la combattente che le sue opere e la
sua lotta ci hanno consegnato.
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