Torniamo
spesso sullo “stato dell’Unione” perché troppo spesso vediamo
sottovalutazione della gravità dei problemi, anche tra aree politiche
molto diverse. Ci sono quelli che ancora non hanno capito che il vero
“governo” del paese non sta a Palazzo Chigi, ma a Bruxelles (più
realisticamente: tra Francoforte e Berlino, con qualche vacanza a
Parigi). E ci sono quelli che l’hanno capito e sperano (o fanno finta, o
temono) che tutti i problemi siano stati risolti, e dunque l’Unione
Europea marci sicura verso un destino (o un incubo) senza grandi
scossoni.
In questi due insieme potete trovare nazionalisti strabici, “internazionalisti” miopi, europeisti spinti e complottisti hard.
La
situazione è come sempre un po’ più complicata e sotto la cortina di
fumo dell’ufficialità (“tutto va bene, siamo nel migliore dei mondi
possibili”) si agitano sofferenze, tensioni, contraddizioni palesi.
Tanto da far entrare in campo progetti di “riforma”
sagomati su interessi nazionali malamente mascherati e tentativi di
mantenere lo statu quo motivati dal interessi diversi, ma altrettanto
nazionali.
Abbiamo
trovato dunque interessanti due riflessioni che più diverse non si può,
per appartenenza politica, ma straordinariamente convergenti
nell’individuare alcuni dei “difetti” più vistosi nell’architettura
europea che vanno diventando rime di frattura destinate ad esplodere, se
non interverranno – stavolta sì – “riforme radicali” di un progetto
malpensato, malgestito e oggi in palese difficoltà.
Sergio
Romano, ex ambasciatore italiano a Mosca, conservatore intelligente ed
esperto, molto disincantato, ricorda la diffidenza di tutti i
leader del Vecchio Continente davanti alla prospettiva della
riunificazione tedesca. Al di là delle chiacchiere di circostanza,
infatti, chi conosce la vera storia europea (quella racchiusa
negli archivi dei ministeri degli esteri, non quella dei manuali di
liceo) sa che gran parte degli ultimi due secoli sono stati “mossi” in
coincidenza con le dinamiche tedesche. Per motivi oggettivi (la
preponderanza economico-industriale, la qualità tecnologica, ecc) come
per motivi “soggettivi” (la “volontà di potenza” tradotta in politica
estera).
Il secondo, Gyorgy Matolcsy, governatore
della Banca centrale ungherese, mette invece al centro la “stupidità”
della moneta comune, varata per ragioni più politiche che economiche –
“imbrigliare” la Germania! – e priva dei pilastri (“uno stato comune,
un budget che copre almeno il 15-20% del prodotto interno lordo totale
della zona euro, un ministro delle finanze della zona euro e un
ministero con cui accompagnare il processo”) che normalmente rendono una
moneta uno strumento positivo per tutti, anziché devastante per molti,
come si è rivelato l’euro.
Si potrebbe dire: “un ungherese al servizio di Orbàn! Mio dio, ma come si fa dargli credito…”. Glielo ha dato il Financial Times, che qualcosina – in materia di economia capitalistica – ne capisce.
Naturalmente
sono due stimoli per riflettere avendo in testa tutt’altra cosa che il
“buon funzionamento del sistema capitalistico”. Anzi, il suo esatto
opposto. Ma l’unico modo di cambiare il mondo che abbiamo davanti è,
prima di tutto, capire esattamente com’è fatto. Non c’è niente di più dannoso che combattere contro nemici “incogniti”…
Buona lettura.
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Lady Thatcher aveva ragione a temere una Germania riunificata
Sergio Romano – Corriere della Sera
Forse non avevano torto quei tedeschi, soprattutto a sinistra, che preferivano una confederazione
Sapevamo
che trent’anni fa, dopo il crollo del muro di Berlino, alcuni uomini di
Stato europei (fra i quali Mitterrand, Thatcher e Andreotti) vedevano
con qualche timore e molta diffidenza la prospettiva di una Germania
riunificata. Ma un articolo di Philip Stephens apparso sul Financial
Times del 25 ottobre ci ricorda che Margaret Thatcher, allora primo
ministro del Regno Unito, si spinse più in là. Approfittò del viaggio di ritorno, dopo una visita a Tokyo nel settembre 1989, per una sosta a Mosca dove ebbe una conversazione a quattrocchi, nella sala di Santa Caterina del Cremlino, con Mikhail Gorbaciov, presidente dell’Unione Sovietica e segretario generale del Partito comunista. Parlarono di Germania e la Lady di ferro, secondo le note prese da un consigliere di Gorbaciov (Anatolij Cerniaev), disse al suo interlocutore che la Gran Bretagna non desiderava la riunificazione tedesca «perché temeva mutamenti territoriali che avrebbero pregiudicato gli equilibri del secondo dopoguerra».
Per le stesse ragioni Thatcher, in quella circostanza, avrebbe garantito a Gorbaciov che la Nato non si sarebbe adoperata per la dissoluzione del Patto di Varsavia (l’accordo stipulato dall’Urss con i suoi satelliti nel 1955).
Contemporaneamente, secondo i ricordi di Philip Stephens, Thatcher avrebbe proposto al presidente francese François Mitterrand la conclusione di una Intesa Cordiale simile a quella che Francia e Gran Bretagna avevano concluso nell’aprile del 1904 per contenere la crescente potenza del Reich tedesco.
Trent’anni dopo, le preoccupazioni della signora Thatcher mi sembrano almeno in parte giustificate. Con la sua insistenza per il frettoloso riconoscimento della Slovenia e della Croazia nel gennaio 1991, la Germania unificata ha provocato la disintegrazione dello Stato jugoslavo e la frammentazione del Balcani.
Con l’apertura dell’Unione europea agli ex satelliti dell’Urss, fortemente voluta da Berlino, sono stati creati due problemi. Abbiamo accolto nella Ue Paesi che non hanno alcun desiderio di rinunciare alla propria sovranità per creare una Europa federale; e quei Paesi sono diventati satelliti della Nato pregiudicando gravemente i rapporti con la Russia.
La riunificazione tedesca, inoltre, non ha soddisfatto le aspettative dei suoi promotori. Come hanno ricordato Milena Gabanelli e Danilo Taino sul Corriere del 28 ottobre, alcune regioni della Germania orientale continuano a manifestare malumori per le loro condizioni sociali. Sembra esistere ancora, paradossalmente, un patriottismo tedesco-orientale che ha favorito l’ascesa della destra radicale.
Forse non avevano torto quei tedeschi, prevalentemente social-democratici, che nel 1989 avrebbero preferito una confederazione tedesca composta di due Germanie piuttosto che una Germania unificata.
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Il governatore della Banca Centrale ungherese: «È giunto il momento di cercare una via d’uscita dalla trappola dell’euro»
Gyorgy Matolcsy* – Financial Times
È giunto il momento di cercare una via d’uscita dalla trappola dell’euro. C’è un dogma dannoso che vuole l’euro come il “normale” prossimo passo verso l’unificazione dell’Europa occidentale. Ma la valuta comune europea non era affatto normale, perché quasi nessuna delle condizioni preliminari era soddisfatta.
Due decenni dopo il lancio dell’euro, la maggior parte dei pilastri necessari per una valuta globale di successo – uno stato comune, un budget che copre almeno il 15-20% del prodotto interno lordo totale della zona euro, un ministro delle finanze della zona euro e un ministero con cui accompagnare il processo – mancano ancora.
Raramente ammettiamo le vere radici della decisione sconsiderata di creare la valuta comune: era una trappola francese. Mentre la Germania si univa, François Mitterrand, allora presidente francese, temeva un crescente potere tedesco e credeva che convincere il paese a rinunciare al suo marco tedesco fosse sufficiente per evitare un’Europa tedesca. Il cancelliere dell’epoca, Helmut Kohl, cedette e considerò l’euro il prezzo finale per una Germania unificata.
Erano entrambi in errore. Ora abbiamo una Germania europea, non un’Europa tedesca, e l’euro non è stato in grado di impedire l’emergere di una nuova forte potenza tedesca.
Ma anche i tedeschi caddero nella trappola dell’euro “troppo bello per essere vero”. L’inclusione delle economie dell’Europa meridionale nella zona euro ha portato a un tasso di cambio abbastanza debole da consentire ai tedeschi di diventare la più forte macchina di esportazione globale nell’UE.
Questa opportunità inaspettata li ha resi compiacenti. Hanno trascurato di aggiornare la propria infrastruttura o di investire abbastanza nelle industrie del futuro. Hanno perso la rivoluzione digitale, calcolato male l’emergere della Cina e non sono riusciti a costruire società globali paneuropee. Allo stesso tempo, aziende come Allianz, Deutsche Bank e Bayer hanno lanciato inutili sforzi per conquistare Wall Street e gli Stati Uniti.
La maggior parte dei paesi della zona euro ha avuto un andamento migliore prima dell’euro rispetto a quanto non ne abbia fatto.
Secondo l’analisi del Center for European Policy, ci sono stati pochi vincitori e molti perdenti nei primi due decenni dell’euro.
La valuta comune non era necessaria per le storie di successo europee prima del 1999 e la maggior parte degli Stati membri dell’Eurozona non ne ha beneficiato in seguito.
Durante la crisi finanziaria del 2008 e la crisi economica della zona euro 2011-12, la maggior parte dei membri è stata gravemente colpita, avendo accumulato enormi debiti del governo. Non ci sono pasti gratis e prestiti a basso costo spesso costano molto, più tardi.
Alexandre Lamfalussy, l’economista ungherese, aveva ragione a dirci che era necessaria una moneta comune per rafforzare il legame tra le potenze europee e difendere l’UE dai sovietici. C’è solo un inconveniente: la decisione finale di creare l’euro è stata presa a Maastricht nel 1992, con il crollo dell’Unione Sovietica. La raison d’être della valuta terminò proprio mentre stava nascendo.
È giunto il momento di svegliarsi da questo sogno dannoso e infruttuoso. Un buon punto di partenza sarebbe riconoscere che la moneta unica è una trappola praticamente per tutti i suoi membri – per ragioni diverse – non una miniera d’oro.
Gli Stati dell’UE, sia all’interno che all’esterno della zona euro, dovrebbero ammettere che l’euro è stato un errore strategico. L’obiettivo di costruire una valuta occidentale globale che compete con il dollaro era una sfida per gli Stati Uniti. La visione europea degli Stati Uniti d’Europa ha portato a una guerra americana aperta e nascosta contro l’UE e la zona euro negli ultimi due decenni.
Dobbiamo capire come liberarci da questa trappola. Gli europei devono rinunciare alle loro rischiose fantasie di creare un potere in grado di competere con gli Stati Uniti. I membri della zona euro dovrebbero essere autorizzati a lasciare la zona di valuta nei prossimi decenni e quelli rimanenti dovrebbero costruire una valuta globale più sostenibile. Celebriamo il trentesimo anniversario nel 2022 del trattato di Maastricht che ha generato l’euro riscrivendo il patto.
*Governatore della Banca Centrale ungherese
(Traduzione de l’AntiDiplomatico)
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