«Correvo. Correvo pensando ad Anna. Dietro di me le guardie ansimavano, minacciando di spararmi. Davanti avevo solo i grandi spazi vuoti della notte».
È un breve ma quanto mai significativo frammento, tratto dalle prime pagine di “Correvo pensando ad Anna. Una storia degli anni ’70“, libro firmato da Pasquale Abatangelo (ex membro dei Nuclei Armati Proletari e delle Brigate Rosse), edito da PGreco, e dedicato all’amatissima Anna, moglie e compagna di una vita.
Un frammento tanto significativo, da dare il titolo al libro in parola.
Quella corsa, dopo un tentativo di furto ai danni di un negozio di elettrodomestici, si concluse con l’arresto e la reclusione, dell’allora giovane ribelle Pasquale Abatangelo, nel carcere fiorentino delle Murate.
Si era nel Gennaio del 1970. Allora, Pasquale non era ancora il militante politicizzatosi dietro le sbarre di una delle tante celle che lo avrebbero tenuto rinchiuso nel corso di quasi trent’anni.
Non
era ancora il militante comunista, fondatore dei Nuclei Armati
Proletari, poi approdato alle Brigate Rosse, che avrebbe fatto parte del
Movimento dei Proletari Prigionieri, del cosiddetto Fronte delle
Carceri, e che tanti grattacapi avrebbe dato a secondini e direttori
degli Istituti penitenziari, dei giudiziari e dei vari “carceri
speciali”.
Supercarceri
che furono teatro di epocali rivolte, scatenate dalla rabbia proletaria
tenuta in gabbia, capeggiate da membri autorevoli del movimento dei
prigionieri, dei Nap, delle Br, delle organizzazioni comuniste
extraparlamentari.
Rivolte
e distruzioni. Come all’Asinara, a Badu ‘e Carros, a Trani, a Porto
Azzurro, a Palmi, a Fossombrone. Nomi che ancora oggi danno i brividi a
chi ha avuto in sorte di “frequentarli”.
Rivolte e distruzioni, alle quali faceva seguito – sempre – la violenza cieca delle guardie penitenziarie.
Un
prezzo ineluttabile da pagare alla lotta, messo in conto ogni volta.
Quei militanti prigionieri ne erano coscienti. E pagavano senza
lamentarsi. Era questo il clima di quegli anni. Era questo il gioco
crudele delle parti.
Eppure,
quel giovane beat e contestatore, dedito anche all’uso sporadico di
droghe, portava già in sé i germi del rigoroso e inflessibile guerrigliero, che avrebbe fatto di quel ragazzo, senza patria e senza causa, un uomo tosto e un brigatista irriducibile. Per usare un termine tanto caro ai media di regime e al regime stesso.
Quel
ragazzo – come tanti altri di quella generazione che si affacciava al
decennio dei ’70 e che aveva già visto sfilare i cortei operai e
studenteschi dell’autunno caldo del ’68 – era, dunque, già in conflitto con il sistema iniquo della società divisa per classi.
Quel sistema economico, politico, sociale, scellerato e diseguale, di cui lo Stato borghese e sedicente “democratico” si rendeva, e si rende tutt’ora, garante. Con le sue leggi, le sue regole, la sua ideologia di casta.
In conflitto con una società che, nella sua apatia reazionaria e conformista, tendeva ad escludere ogni forma di ribellione che provenisse dai
ceti subalterni, dalle fasce sociali più deboli, dalle categorie che si
voleva sottomesse e invisibili. Per storia o per principio religioso.
Come la donna.
A
rifiutare ogni antagonismo, prodottosi nelle pieghe e nelle piaghe di
quel nascente proletariato metropolitano che, negli anni successivi,
avrebbe saldato le sue rivendicazioni con quelle dell’operaio massa,
degli studenti, del proletariato extra legale, di una parte degli
intellettuali più radicali.
Con
le rivendicazioni di tutti coloro che, stanchi della sclerotica fissità
del sistema borghese, che fondava la sua ragione d’essere su una morale
perbenista e clericale, e su una rigida gerarchia di classe, volevano
cambiare il mondo. Nel nome della libertà, dell’uguaglianza e della
giustizia proletaria. Insomma, nel nome del comunismo!
Un
insieme magmatico e plurale, di soggettività politiche e individualità,
che, attingendo al patrimonio delle lotte operaie che avevano
caratterizzato fino ad allora l’intero ‘900; guardando ai movimenti di
liberazione che insorgevano nel mondo, contro gli imperi coloniali e
contro l’imperialismo Usa; ispirandosi alle guerriglie in corso nel
continente latinoamericano; e forti di quella cultura rivoluzionaria
marxista, di cui era imbevuta la loro linfa ideologica – seppur
declinata secondo diverse chiavi di lettura, ortodosse o eretiche che
fossero – diede vita al più grande movimento rivoluzionario, nel cuore
della vecchia Europa a capitalismo avanzato.
Un’onda
d’urto di violenza tale da destabilizzare equilibri che si riteneva
stabili e consolidati. Da far tremare la Repubblica e il partito-stato
democristiano. E tale finanche da mettere in crisi quell’alleanza
atlantica, della quale l’Italia si è sempre dichiarata serva e vassalla
fedele, pur rappresentando l’anello debole dell’imperialismo
occidentale.
Di questo e di tanto altro parla il libro di Pasquale Abatangelo.
Un
libro appassionato, lucido, sincero. Che non fa sconti a nessuno. Al
Potere in primo luogo. Ma anche alle organizzazioni rivoluzionarie e
combattenti. Ed infine, tanto meno a sé stesso.
Un racconto di vita e militanza fibroso e refrattario ad ogni vittimismo lamentevole, tipico di molti sconfitti.
Un
libro che ci offre uno spaccato di storia sociale, politica e umana,
nell’ Italia attraversata dal movimento del sessantotto, dalle spinte
insurrezionali e dalla Lotta Armata.
Una
narrazione che si staglia sullo sfondo della ristrutturazione
capitalistica del lavoro e del sistema produttivo, in corso negli anni
’70.
E
su uno scenario internazionale, all’interno del quale, dopo la
sconfitta del Vietnam, riprendeva vigore l’imperialismo statunitense e
cominciavano ad agitarsi i primi sussulti di quel neoliberismo, le cui
spietate politiche anti popolari hanno poi trovato piena applicazione
negli anni ’90. Giungendo fino ai nostri giorni, devastati dalla crisi.
Una
scrittura veloce e immediata, che attraversa il clima rivoluzionario e
caldo che ha pervaso, per quasi un quindicennio, il nostro paese.
Un
procedere puntiglioso, che prova a spiegare le dinamiche stesse che
portarono, parte di quella generazione, a prendere le armi e a praticare
il terreno della lotta armata. Tra azioni deflagranti, avanzate
clamorose e battute di arresto. Fino alla sconfitta finale.
Una
riflessione, intima e collettiva, che Abatangelo propone su
quell’esperienza. Per comprenderne ed analizzarne gli errori, certo. Ma
anche per cogliere quelle istanze rivoluzionarie che possono, ancor
oggi, risultare positive e praticabili.
E
che potrebbero costituire il lievito necessario per un movimento
comunista in estrema difficoltà, ma che di sicuro non vuole rinunciare a
dare battaglia. Che non vuole rinunciare alla Lotta di Classe. Ancorché
non armata!
Per
tutto il libro, ci sembra di avvertire l’ansimare convulso di quel
ragazzo che corre per sfuggire agli sbirri. E noi corriamo insieme a
lui. Ansimiamo con lui. Parteggiamo inequivocabilmente per lui.
Una corsa lunga e a tratti frenetica, fino all’ultimo respiro. Una vita dura e militante, come dicevamo.
Il
carcere. Il sogno rivoluzionario di una generazione e il suo
dissolversi tra divisioni interne, pulsioni centrifughe e soggettiviste,
errori politici e teorici.
Ma
soprattutto, un sogno infrantosi contro la brutale risposta di uno
Stato “democratico” disposto a tutto, pur di piegare e annientare quel
movimento rivoluzionario. Insorto con o senza armi.
I
Nuclei Armati Proletari e le Brigate Rosse. Le rivolte carcerarie e la
repressione. La violenza dei secondini. L’Asinara e il “circuito dei
camosci”.
E
su ogni cosa, l’amore per Anna e di Anna. La sua donna, fino all’ultimo
giorno di vita. Una piccola ma importantissima storia, calata nel
divenire e nel succedersi rapido degli eventi della Storia più grande.
Ma anche l’amore fraterno per Nicola. Figura imprescindibile, nella vita di Pasquale.
Correvo pensando ad Anna è un crudo, umano, commovente confronto con la realtà rivoluzionaria. Senza assoluzioni di comodo. Morali o politiche che siano!
Un libro intenso e pieno di passione. Che trasuda comunismo rivoluzionario e cultura proletaria ad ogni parola, ad ogni frase.
Che
non si nasconde, che non recrimina, che non cerca attenuanti e non si
piange addosso. Un libro da cui è espunto ogni irritante e grottesco
sentimento vittimario. Di rassegnazione o di resa.
Pagine che restituiscono fierezza e orgoglio di classe. Intrise di quella lealtà di cui sono capaci solo i veri comunisti rivoluzionari. Non certo gli infami!
Un libro che si nutre di lotta e di conflitto. Dove l’innato desiderio di libertà e la necessità dell’uomo monodimensionato
dell’era moderna, di spezzare il giogo del sistema capitalistico, che
risucchia e annichilisce l’esistenza stessa del proletariato, delle
classi subalterne e di chiunque senta la lama fredda della mannaia del
potere, vibrargli sul collo e incombere su una vita smembrata dal
quadrante del tempo veloce e dalle disarticolanti leggi del lavoro e del
profitto, si scontrano con le asfittiche regole di mercato, imposte
dalle élites nella plancia di comando.
Élites
finanziarie o statali, globali o nazionali, il cui unico scopo è
l’estrazione del plusvalore dalla carne di schiavi, consapevoli o meno
della loro stessa schiavitù. Della loro stessa riduzione a merce.
Segmenti
di un potere “imperiale”, pronti a soffocare nel sangue ogni tentativo
di rivolta o di semplice opposizione sociale e antagonista. Con
l’ausilio antidemocratico di torture, di sistemi ai limiti dell’umano, e
di leggi speciali anticostituzionali. La cui applicazione più rigorosa e
crudele, trova nell’istituzione carceraria la sua implacabile logica
repressiva.
Logica
che venne avallata, nell’Italia di quegli anni, da quel Partito
Comunista, le cui smanie governiste trovarono, nel Compromesso Storico
con il padronato e la Dc, il loro fisiologico e ripugnante sbocco
politico. Ai danni, chiaramente, del movimento operaio, e in
contrapposizione con il patrimonio di lotte che aveva attraversato
l’intero novecento. E di cui il Pci avrebbe dovuto essere erede e
baluardo, contro il dominio del Capitale
Pasquale,
dunque, ci parla della sua vita, senza reticenze. Sapendo che
dall’altra parte della pagina incontrerà lo sguardo, gli occhi,
l’intelligenza dei compagni.
Ci
dice di un’infanzia povera e del collegio di via dei Malcontenti. Della
lontananza obbligata dall’effetto materno e degli abusi “preteschi” di
rito.
Siamo con lui durante la ribellione e camminiamo sulle strade del movimento Beat.
Viviamo
la droga e i primi furti. Il carcere. L’incontro con il proletariato
extra legale e la successiva politicizzazione con il Movimento dei
Proletari Prigionieri.
Assistiamo alla nascita dei Nuclei Armati Proletari e al conseguente passaggio con le Brigate Rosse.
Partecipiamo
alla Lotta Armata. Vissuta dall’interno di quell’istituzione totale che
furono i carceri speciali, creati dallo Stato e dal boia Carlo Alberto
Dalla Chiesa, per spezzare la resistenza dei “prigionieri politici”
provenienti dal movimento rivoluzionario.
Per
precludere ogni sbocco possibile al dialogo tra il proletariato
combattente rinchiuso nelle celle dei padroni e le organizzazioni
esterne.
Veniamo catapultati nel vivo delle azioni delle Br, e del rapimento Moro.
Pasquale ci trascina con lui nella costante formazione marxista. Ci coinvolge nelle rivolte carcerarie.
Piangiamo
con lui i compagni rimasti sul terreno, uccisi con il sogno
rivoluzionario negli occhi. Come Sergio Romeo, Luca e Annamaria Mantini,
Riccardo Dura e tanti altri.
Avvertiamo sulla nostra carne le botte e le manganellate, frutto della feroce repressione del nemico.
Dello Stato borghese che si voleva abbattere, nel nome degli ideali di libertà e di giustizia sociale. Nel nome del comunismo.
Il
tutto, all’incrocio di un passaggio storico irripetibile e condensato
nel clima insorgente di una generazione, che vide la Rivoluzione ad un
passo.
Ne
respirò il vento dolce della Primavera e quello acre del sangue.
Scorgendo il sole di un’alba radiosa su cui si addensarono, prima
minacciose e poi furenti, le nubi oscure della tempesta che dissolse il
sogno.
Un
sogno infrantosi contro l’inevitabile risposta di un nemico che si
mostrò implacabile, crudele, violento. Invocando una democrazia che
aveva stuprato per primo con stragi, attentati, bombe, repressione
poliziesca, morti operaie, golpe di matrice militare, quando non
dichiaratamente fascista. Nel segno del Capitale e della pace borghese.
Dell’atlantismo e dell’imperialismo Usa.
Soprattutto, con la complicità di quel Partito Comunista che realizzò
la più squallida delle infamie. Convertendosi alla logica padronale del
sistema liberale, per mezzo di quel Compromesso Storico che svendette,
sui banchi del mercato della politica e della finanza, un patrimonio di
lotte e di cultura operaia. Col solo fine della governabilità.
Pasquale
Abatangelo a quel Pci non risparmia critiche. Il suo giudizio è intriso
di quella spietatezza che, sola, si può riservare a coloro che ci hanno
voltato le spalle quando avremmo avuto più bisogno di aiuto. A coloro
che ci hanno tradito!
Ma
Abatangelo non fa sconti neanche alla sua parte. Non mancano le
critiche ad un movimento che non seppe unire le sue diverse anime,
scadendo, alla fine, in un frazionismo letale, che produsse spaccature e
distinguo che lo condussero alla sconfitta.
Non
manca la lucida presa d’atto di una Lotta Armata che finì per avvitarsi
su sé stessa, in un crescendo di conflitti interni, di recriminazioni e
accuse reciproche.
Di
sterili battaglie teoriche, di azioni avventate e disomogenee. Su cui
posero la definitiva pietra tombale le dissociazioni e i pentimenti
repentini e vigliacchi. Finanche dei più alti e, fino ad allora, stimati
dirigenti.
Una
lotta armata che non seppe trovare più risorse, di fronte alla risposta
dello Stato, e in un quadro internazionale completamente mutato, agli
inizi degli anni ’80.
Mutazione
che si realizzava sia sul versante economico, nel quale si portava a
compimento quella ristrutturazione capitalistica del lavoro e del
sistema produttivo intrapresa nel decennio precedente; sia sul terreno
militare, con la recrudescenza, dopo il disastro del Vietnam,
dell’imperialismo Usa. Che ripropose la sua logica guerrafondaia su un
mondo, nella carne del quale aveva necessità di aprire nuove,
putrescenti pustole mercantili.
Il libro di Pasquale, all’incrocio tra romanzo storico, racconto di formazione ed elegia di
carattere politico, rappresenta una splendida, necessaria, commovente
testimonianza di un periodo storico, troppe volte mortificato ed
adulterato dalla narrazione di comodo offerta dai vincitori.
Una
narrazione che, inevitabilmente, ha cancellato la verità storica dei
fatti. Bisogna essere riconoscenti a Pasquale per questo straordinario
lavoro di memoria e di trasmissione. Dobbiamo essergli riconoscenti come
individui e come collettivo comunista.
Perché,
nel fluire continuo della Storia, il passato degli sconfitti possa far
ascoltare la sua voce nel nostro presente. Riscattando le proprie
ragioni e i propri morti. Per condurci infine, nella pratica incessante
delle lotte, ad un mondo senza classi.
Scrive George Jackson, nel suo bellissimo saggio Col sangue agli occhi, portato a termine nel carcere americano di San Quintino, libro amatissimo da Abatangelo: «Per lo schiavo, la rivoluzione è un imperativo, è un atto cosciente di disperazione, dettato dall’amore».
Le
ultime pagine di questa Storia degli anni ’70 si chiudono esattamente
rievocando, con un implicito senso di continuità, quelle parole. E a noi
ci piace chiudere così. Rivendicando la rivoluzione, come atto
disperato generato dall’odio di classe. E come gesto d’amore dei dannati
della terra!
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