mercoledì 27 novembre 2019

Una storia degli Anni ’70

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«Correvo. Correvo pensando ad Anna. Dietro di me le guardie ansimavano, minacciando di spararmi. Davanti avevo solo i grandi spazi vuoti della notte».
 
È un breve ma quanto mai significativo frammento, tratto dalle prime pagine di Correvo pensando ad Anna. Una storia degli anni ’70, libro firmato da Pasquale Abatangelo (ex membro dei Nuclei Armati Proletari e delle Brigate Rosse), edito da PGreco, e dedicato all’amatissima Anna, moglie e compagna di una vita.

Un frammento tanto significativo, da dare il titolo al libro in parola.
Quella corsa, dopo un tentativo di furto ai danni di un negozio di elettrodomestici, si concluse con l’arresto e la reclusione, dell’allora giovane ribelle Pasquale Abatangelo, nel carcere fiorentino delle Murate.
Si era nel Gennaio del 1970. Allora, Pasquale non era ancora il militante politicizzatosi dietro le sbarre di una delle tante celle che lo avrebbero tenuto rinchiuso nel corso di quasi trent’anni.
Non era ancora il militante comunista, fondatore dei Nuclei Armati Proletari, poi approdato alle Brigate Rosse, che avrebbe fatto parte del Movimento dei Proletari Prigionieri, del cosiddetto Fronte delle Carceri, e che tanti grattacapi avrebbe dato a secondini e direttori degli Istituti penitenziari, dei giudiziari e dei vari “carceri speciali”.
Supercarceri che furono teatro di epocali rivolte, scatenate dalla rabbia proletaria tenuta in gabbia, capeggiate da membri autorevoli del movimento dei prigionieri, dei Nap, delle Br, delle organizzazioni comuniste extraparlamentari.
Rivolte e distruzioni. Come all’Asinara, a Badu ‘e Carros, a Trani, a Porto Azzurro, a Palmi, a Fossombrone. Nomi che ancora oggi danno i brividi a chi ha avuto in sorte di “frequentarli”.
Rivolte e distruzioni, alle quali faceva seguito – sempre – la violenza cieca delle guardie penitenziarie.
Un prezzo ineluttabile da pagare alla lotta, messo in conto ogni volta. Quei militanti prigionieri ne erano coscienti. E pagavano senza lamentarsi. Era questo il clima di quegli anni. Era questo il gioco crudele delle parti.
Eppure, quel giovane beat e contestatore, dedito anche all’uso sporadico di droghe, portava già in sé i germi del rigoroso e inflessibile guerrigliero, che avrebbe fatto di quel ragazzo, senza patria e senza causa, un uomo tosto e un brigatista irriducibile. Per usare un termine tanto caro ai media di regime e al regime stesso.
Quel ragazzo – come tanti altri di quella generazione che si affacciava al decennio dei ’70 e che aveva già visto sfilare i cortei operai e studenteschi dell’autunno caldo del ’68 – era, dunque, già in conflitto con il sistema iniquo della società divisa per classi.
Quel sistema economico, politico, sociale, scellerato e diseguale, di cui lo Stato borghese e sedicente “democratico” si rendeva, e si rende tutt’ora, garante. Con le sue leggi, le sue regole, la sua ideologia di casta.
In conflitto con una società che, nella sua apatia reazionaria e conformista, tendeva ad escludere ogni forma di ribellione che provenisse dai ceti subalterni, dalle fasce sociali più deboli, dalle categorie che si voleva sottomesse e invisibili. Per storia o per principio religioso. Come la donna.
A rifiutare ogni antagonismo, prodottosi nelle pieghe e nelle piaghe di quel nascente proletariato metropolitano che, negli anni successivi, avrebbe saldato le sue rivendicazioni con quelle dell’operaio massa, degli studenti, del proletariato extra legale, di una parte degli intellettuali più radicali.
Con le rivendicazioni di tutti coloro che, stanchi della sclerotica fissità del sistema borghese, che fondava la sua ragione d’essere su una morale perbenista e clericale, e su una rigida gerarchia di classe, volevano cambiare il mondo. Nel nome della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia proletaria. Insomma, nel nome del comunismo!
Un insieme magmatico e plurale, di soggettività politiche e individualità, che, attingendo al patrimonio delle lotte operaie che avevano caratterizzato fino ad allora l’intero ‘900; guardando ai movimenti di liberazione che insorgevano nel mondo, contro gli imperi coloniali e contro l’imperialismo Usa; ispirandosi alle guerriglie in corso nel continente latinoamericano; e forti di quella cultura rivoluzionaria marxista, di cui era imbevuta la loro linfa ideologica – seppur declinata secondo diverse chiavi di lettura, ortodosse o eretiche che fossero – diede vita al più grande movimento rivoluzionario, nel cuore della vecchia Europa a capitalismo avanzato.
Un’onda d’urto di violenza tale da destabilizzare equilibri che si riteneva stabili e consolidati. Da far tremare la Repubblica e il partito-stato democristiano. E tale finanche da mettere in crisi quell’alleanza atlantica, della quale l’Italia si è sempre dichiarata serva e vassalla fedele, pur rappresentando l’anello debole dell’imperialismo occidentale.
Di questo e di tanto altro parla il libro di Pasquale Abatangelo.
Un libro appassionato, lucido, sincero. Che non fa sconti a nessuno. Al Potere in primo luogo. Ma anche alle organizzazioni rivoluzionarie e combattenti. Ed infine, tanto meno a sé stesso.
Un racconto di vita e militanza fibroso e refrattario ad ogni vittimismo lamentevole, tipico di molti sconfitti.
Un libro che ci offre uno spaccato di storia sociale, politica e umana, nell’ Italia attraversata dal movimento del sessantotto, dalle spinte insurrezionali e dalla Lotta Armata.
Una narrazione che si staglia sullo sfondo della ristrutturazione capitalistica del lavoro e del sistema produttivo, in corso negli anni ’70.
E su uno scenario internazionale, all’interno del quale, dopo la sconfitta del Vietnam, riprendeva vigore l’imperialismo statunitense e cominciavano ad agitarsi i primi sussulti di quel neoliberismo, le cui spietate politiche anti popolari hanno poi trovato piena applicazione negli anni ’90. Giungendo fino ai nostri giorni, devastati dalla crisi.
Una scrittura veloce e immediata, che attraversa il clima rivoluzionario e caldo che ha pervaso, per quasi un quindicennio, il nostro paese.
Un procedere puntiglioso, che prova a spiegare le dinamiche stesse che portarono, parte di quella generazione, a prendere le armi e a praticare il terreno della lotta armata. Tra azioni deflagranti, avanzate clamorose e battute di arresto. Fino alla sconfitta finale.
Una riflessione, intima e collettiva, che Abatangelo propone su quell’esperienza. Per comprenderne ed analizzarne gli errori, certo. Ma anche per cogliere quelle istanze rivoluzionarie che possono, ancor oggi, risultare positive e praticabili.
E che potrebbero costituire il lievito necessario per un movimento comunista in estrema difficoltà, ma che di sicuro non vuole rinunciare a dare battaglia. Che non vuole rinunciare alla Lotta di Classe. Ancorché non armata!
Per tutto il libro, ci sembra di avvertire l’ansimare convulso di quel ragazzo che corre per sfuggire agli sbirri. E noi corriamo insieme a lui. Ansimiamo con lui. Parteggiamo inequivocabilmente per lui.
Una corsa lunga e a tratti frenetica, fino all’ultimo respiro. Una vita dura e militante, come dicevamo.
Il carcere. Il sogno rivoluzionario di una generazione e il suo dissolversi tra divisioni interne, pulsioni centrifughe e soggettiviste, errori politici e teorici.
Ma soprattutto, un sogno infrantosi contro la brutale risposta di uno Stato “democratico” disposto a tutto, pur di piegare e annientare quel movimento rivoluzionario. Insorto con o senza armi.
I Nuclei Armati Proletari e le Brigate Rosse. Le rivolte carcerarie e la repressione. La violenza dei secondini. L’Asinara e il “circuito dei camosci”.
E su ogni cosa, l’amore per Anna e di Anna. La sua donna, fino all’ultimo giorno di vita. Una piccola ma importantissima storia, calata nel divenire e nel succedersi rapido degli eventi della Storia più grande.
Ma anche l’amore fraterno per Nicola. Figura imprescindibile, nella vita di Pasquale.
Correvo pensando ad Anna è un crudo, umano, commovente confronto con la realtà rivoluzionaria. Senza assoluzioni di comodo. Morali o politiche che siano!
Un libro intenso e pieno di passione. Che trasuda comunismo rivoluzionario e cultura proletaria ad ogni parola, ad ogni frase.
Che non si nasconde, che non recrimina, che non cerca attenuanti e non si piange addosso. Un libro da cui è espunto ogni irritante e grottesco sentimento vittimario. Di rassegnazione o di resa.
Pagine che restituiscono fierezza e orgoglio di classe. Intrise di quella lealtà di cui sono capaci solo i veri comunisti rivoluzionari. Non certo gli infami!
Un libro che si nutre di lotta e di conflitto. Dove l’innato desiderio di libertà e la necessità dell’uomo monodimensionato dell’era moderna, di spezzare il giogo del sistema capitalistico, che risucchia e annichilisce l’esistenza stessa del proletariato, delle classi subalterne e di chiunque senta la lama fredda della mannaia del potere, vibrargli sul collo e incombere su una vita smembrata dal quadrante del tempo veloce e dalle disarticolanti leggi del lavoro e del profitto, si scontrano con le asfittiche regole di mercato, imposte dalle élites nella plancia di comando.
Élites finanziarie o statali, globali o nazionali, il cui unico scopo è l’estrazione del plusvalore dalla carne di schiavi, consapevoli o meno della loro stessa schiavitù. Della loro stessa riduzione a merce.
Segmenti di un potere “imperiale”, pronti a soffocare nel sangue ogni tentativo di rivolta o di semplice opposizione sociale e antagonista. Con l’ausilio antidemocratico di torture, di sistemi ai limiti dell’umano, e di leggi speciali anticostituzionali. La cui applicazione più rigorosa e crudele, trova nell’istituzione carceraria la sua implacabile logica repressiva.
Logica che venne avallata, nell’Italia di quegli anni, da quel Partito Comunista, le cui smanie governiste trovarono, nel Compromesso Storico con il padronato e la Dc, il loro fisiologico e ripugnante sbocco politico. Ai danni, chiaramente, del movimento operaio, e in contrapposizione con il patrimonio di lotte che aveva attraversato l’intero novecento. E di cui il Pci avrebbe dovuto essere erede e baluardo, contro il dominio del Capitale
Pasquale, dunque, ci parla della sua vita, senza reticenze. Sapendo che dall’altra parte della pagina incontrerà lo sguardo, gli occhi, l’intelligenza dei compagni.
Ci dice di un’infanzia povera e del collegio di via dei Malcontenti. Della lontananza obbligata dall’effetto materno e degli abusi “preteschi” di rito.
Siamo con lui durante la ribellione e camminiamo sulle strade del movimento Beat.
Viviamo la droga e i primi furti. Il carcere. L’incontro con il proletariato extra legale e la successiva politicizzazione con il Movimento dei Proletari Prigionieri.
Assistiamo alla nascita dei Nuclei Armati Proletari e al conseguente passaggio con le Brigate Rosse.
Partecipiamo alla Lotta Armata. Vissuta dall’interno di quell’istituzione totale che furono i carceri speciali, creati dallo Stato e dal boia Carlo Alberto Dalla Chiesa, per spezzare la resistenza dei “prigionieri politici” provenienti dal movimento rivoluzionario.
Per precludere ogni sbocco possibile al dialogo tra il proletariato combattente rinchiuso nelle celle dei padroni e le organizzazioni esterne.
Veniamo catapultati nel vivo delle azioni delle Br, e del rapimento Moro.
Pasquale ci trascina con lui nella costante formazione marxista. Ci coinvolge nelle rivolte carcerarie.
Piangiamo con lui i compagni rimasti sul terreno, uccisi con il sogno rivoluzionario negli occhi. Come Sergio Romeo, Luca e Annamaria Mantini, Riccardo Dura e tanti altri.
Avvertiamo sulla nostra carne le botte e le manganellate, frutto della feroce repressione del nemico.
Dello Stato borghese che si voleva abbattere, nel nome degli ideali di libertà e di giustizia sociale. Nel nome del comunismo.
Il tutto, all’incrocio di un passaggio storico irripetibile e condensato nel clima insorgente di una generazione, che vide la Rivoluzione ad un passo.
Ne respirò il vento dolce della Primavera e quello acre del sangue. Scorgendo il sole di un’alba radiosa su cui si addensarono, prima minacciose e poi furenti, le nubi oscure della tempesta che dissolse il sogno.
Un sogno infrantosi contro l’inevitabile risposta di un nemico che si mostrò implacabile, crudele, violento. Invocando una democrazia che aveva stuprato per primo con stragi, attentati, bombe, repressione poliziesca, morti operaie, golpe di matrice militare, quando non dichiaratamente fascista. Nel segno del Capitale e della pace borghese. Dell’atlantismo e dell’imperialismo Usa.
Uno degli immortali scatti di Tano D’amico
Soprattutto, con la complicità di quel Partito Comunista che realizzò la più squallida delle infamie. Convertendosi alla logica padronale del sistema liberale, per mezzo di quel Compromesso Storico che svendette, sui banchi del mercato della politica e della finanza, un patrimonio di lotte e di cultura operaia. Col solo fine della governabilità.
Pasquale Abatangelo a quel Pci non risparmia critiche. Il suo giudizio è intriso di quella spietatezza che, sola, si può riservare a coloro che ci hanno voltato le spalle quando avremmo avuto più bisogno di aiuto. A coloro che ci hanno tradito!
Ma Abatangelo non fa sconti neanche alla sua parte. Non mancano le critiche ad un movimento che non seppe unire le sue diverse anime, scadendo, alla fine, in un frazionismo letale, che produsse spaccature e distinguo che lo condussero alla sconfitta.
Non manca la lucida presa d’atto di una Lotta Armata che finì per avvitarsi su sé stessa, in un crescendo di conflitti interni, di recriminazioni e accuse reciproche.
Di sterili battaglie teoriche, di azioni avventate e disomogenee. Su cui posero la definitiva pietra tombale le dissociazioni e i pentimenti repentini e vigliacchi. Finanche dei più alti e, fino ad allora, stimati dirigenti.
Una lotta armata che non seppe trovare più risorse, di fronte alla risposta dello Stato, e in un quadro internazionale completamente mutato, agli inizi degli anni ’80.
Mutazione che si realizzava sia sul versante economico, nel quale si portava a compimento quella ristrutturazione capitalistica del lavoro e del sistema produttivo intrapresa nel decennio precedente; sia sul terreno militare, con la recrudescenza, dopo il disastro del Vietnam, dell’imperialismo Usa. Che ripropose la sua logica guerrafondaia su un mondo, nella carne del quale aveva necessità di aprire nuove, putrescenti pustole mercantili.
Il libro di Pasquale, all’incrocio tra romanzo storico, racconto di formazione ed elegia di carattere politico, rappresenta una splendida, necessaria, commovente testimonianza di un periodo storico, troppe volte mortificato ed adulterato dalla narrazione di comodo offerta dai vincitori.
Una narrazione che, inevitabilmente, ha cancellato la verità storica dei fatti. Bisogna essere riconoscenti a Pasquale per questo straordinario lavoro di memoria e di trasmissione. Dobbiamo essergli riconoscenti come individui e come collettivo comunista.
Perché, nel fluire continuo della Storia, il passato degli sconfitti possa far ascoltare la sua voce nel nostro presente. Riscattando le proprie ragioni e i propri morti. Per condurci infine, nella pratica incessante delle lotte, ad un mondo senza classi.
Scrive George Jackson, nel suo bellissimo saggio Col sangue agli occhi, portato a termine nel carcere americano di San Quintino, libro amatissimo da Abatangelo: «Per lo schiavo, la rivoluzione è un imperativo, è un atto cosciente di disperazione, dettato dall’amore».
Le ultime pagine di questa Storia degli anni ’70 si chiudono esattamente rievocando, con un implicito senso di continuità, quelle parole. E a noi ci piace chiudere così. Rivendicando la rivoluzione, come atto disperato generato dall’odio di classe. E come gesto d’amore dei dannati della terra!

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