In questi 15 anni il governo ha raggiunto importanti risultati di giustizia sociale, ma anche trasformato progressivamente il Mas in un sistema di potere. Ciò ha favorito il carattere di massa del fronte di opposizione sfociato nel vero e proprio golpe di questi giorni.
Molti di noi stanno seguendo con apprensione
l’evolversi degli eventi in Bolivia, paese non troppo abituato alle
prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo.
Il presidente della
Repubblica Evo Morales, il vicepresidente Álvaro García Linera, e la
presidente del Senato Adriana Salvatierra, tutti appartenenti al Mas
(Movimento per il socialismo), si sono recentemente dimessi, sull’onda
di violente proteste di piazza e su esplicita pressione delle Forze
armate.
Si è generato così un vuoto istituzionale di potere, «colmato»
dall’autoproclamazione della vicepresidente del Senato Jeanine Añez
(rappresentante di Unidad Democrática, una delle forze di opposizione
all’interno dell’attuale parlamento) quale presidente ad interim.
Altrettanto recente è la fuga di Morales in Messico, paese che ha
concesso asilo politico all’ormai ex presidente, così come l’arresto di
due membri del Tribunale elettorale, accusati di aver truccato i
risultati delle elezioni presidenziali del 20 ottobre scorso.
Il Paese è
drammaticamente polarizzato, non si contano ormai i casi di atti
vandalici nei confronti delle abitazioni private di leader politici di
spicco (colpite soprattutto figure vicine al presidente dimissionario), e
si respira un’aria di redde rationem dai contorni grotteschi ed estremamente pericolosi.
Questo articolo però non intende soffermarsi troppo, o
principalmente, sul resoconto degli eventi, né «fare chiarezza»: intende
al contrario rendere complesso uno scenario troppo spesso semplificato,
benché tali semplificazioni siano più che comprensibili nel contesto
altamente polarizzato quale quello attuale. Non intendo inoltre affrontare interpretazioni, per così dire, geopolitiche degli eventi boliviani: sebbene le influenze (e ingerenze) straniere siano senz’altro pesanti, in questo pezzo si vuole capire perché si è arrivati alla situazione attuale, e quali sono le radici locali del conflitto in atto.
A mio parere comprendere certe dinamiche locali, sia di breve sia di medio-lungo termine, è fondamentale per un’analisi non superficiale della crisi boliviana, nonché per stimolare diverse riflessioni sui successi e i limiti del proceso de cambio boliviano.
Limiti che sono stati decisivi per porre le condizioni per la (momentanea?) fine di un’esperienza di portata storica.
Che cos’è il Mas
Evo Morales è stata la figura presidenziale più longeva della storia boliviana. I suoi quattordici anni al potere hanno segnato una cesura decisiva. Il proceso de cambio boliviano è un fenomeno storico, sociale e politico estremamente complesso, e per molti versi esaltante. Morales è alla guida da oramai vent’anni del Mas-Ipsp, acronimo che sta per Movimento per il socialismo – Strumento politico per la sovranità dei popoli. Dei due acronimi, quello decisivo per comprendere le radici ideologiche e sociali del proceso de cambio è senz’altro il secondo, tant’è che gli stessi dirigenti e militanti si riferiscono al partito chiamandolo, per brevità, «strumento politico». Il partito di Morales di fatto è poco più che un «braccio elettorale» di una coalizione di sindacati contadini microfundistas, profondamente radicati nell’Altopiano occidentale boliviano di etnia aymara, nonché di sindacati dei coltivatori della foglia di coca (presenti principalmente nel Chapare, zona tropicale al centro del Paese e culla politica di Evo Morales) e di altre organizzazioni rurali composte da indigeni di etnia quechua o da ex-minatori costretti dai processi di privatizzazione a reinventarsi poverissimi contadini nelle zone più remote di Bolivia. Non esistono vere e proprie «strutture di partito»: la selezione dei candidati per le elezioni a tutti i livelli viene determinata dalle organizzazioni sociali che controllano il partito.Lo «strumento politico» viene fondato nel 1995 con l’iniziale acronimo Asp (Assemblea per la sovranità dei popoli), trasformato poi in Ipsp, salvo poi adottare, si potrebbe dire per caso, la sigla Mas, ereditandola da un moribondo partito di estrema destra al fine di riuscire finalmente a concorrere alle elezioni e superare così gli ostacoli imposti dalla legge boliviana per ottenere personalità giuridica. Era infatti pressoché impossibile raccogliere le firme necessarie per la registrazione formale del partito, poiché molti dei potenziali iscritti erano privi di documenti d’identità. Riporto queste informazioni, al limite dell’aneddotico, per due ragioni: comprendere i livelli di esclusione sociale, civile e politica patiti dalle masse rurali boliviane nell’epoca premasista; chiarire perché definire «socialista» l’esperienza storica masista rappresenti un errore madornale che deriva dal pigro utilizzo di categorie assolutamente estranee e inappropriate per fare luce su realtà lontane e complesse.
Le organizzazioni di base del Mas-Ipsp animarono, sostennero e guidarono una serie di violente rivolte popolari negli anni fra il 2000 ed il 2005, quella che Jeffrey Webber ha definito «epoca rivoluzionaria» boliviana. Fra le rivolte più famose, vanno citate le cosiddette «guerre dell’acqua» (nella città di Cochabamba, contro la privatizzazione del servizio idrico) e «del gas» (principalmente nelle città di El Alto e La Paz, contro l’esportazione di gas in Cile, e poi negli Usa, a opera di una compagnia statunitense). Fu proprio la «guerra del gas», tanto sanguinosamente quanto inutilmente repressa dall’esercito, a costringere alla fuga il presidente neoliberale Sánchez de Losada nell’ottobre 2003 e a inaugurare un’amministrazione ad interim guidata dall’attuale leader dell’opposizione, il centrista Carlos Mesa, sino alle elezioni presidenziali del 2005, vinte da Evo Morales con la maggioranza assoluta dei voti. Morales sin dal 1997 sedeva in parlamento, salvo esserne espulso per aver appoggiato diverse rivolte popolari. All’epoca delle «guerre popolari» si era già imposto quale leader indiscusso delle organizzazioni popolari-contadine, anche grazie alla notevole coesione e peso politico acquisiti dal movimento cocalero durante gli anni Novanta, ossia gli anni della guerra sporca condotta da truppe boliviane e statunitensi nel Chapare.
«Sovranità», molto più che «socialismo», è la parola chiave per capire cosa abbia rappresentato l’era masista in Bolivia e quali fossero gli obiettivi che ne animano la lunga storia. «Sovranità» intesa come libertà di autodeterminazione dei popoli (al plurale, riconoscendo il carattere plurinazionale dello Stato boliviano), in contrapposizione alle élite bianche da sempre dominatrici politicamente ed economicamente. «Sovranità» nel senso di accountability: «comandare ubbidendo» era il motto del presidente Evo Morales e dell’intero proceso de cambio. «Ubbidire» al popolo organizzato, cioè ai sindacati contadini, movimenti sociali che godevano, e tutt’ora godono, di enorme legittimità nelle zone rurali quali principali strutture di organizzazione sociale: tant’è che, come recita il titolo di un bel volume curato da Fernando García Yapur, i sindacalisti contadini amano ripetere che «noi non siamo del Mas: il Mas è nostro». «Sovranità» intesa come controllo delle risorse naturali boliviane, rinnovabili e non: uno dei principali punti della cosiddetta Agenda d’Ottobre, redatta dai movimenti sociali nelle convulse giornate dell’ottobre 2003, era rappresentato, insieme alla convocazione di un’Assemblea Costituente, dalla nazionalizzazione del gas, le cui royalties finivano per oltre l’80 percento a compagnie private, ovviamente statunitensi.
Il proceso de cambio
«Riprenderci ciò che è nostro», e «governarci da soli», bypassando una volta per tutte quelle élite che tante volte avevano tradito il mandato delle organizzazioni sociali e gli interessi e la stessa dignità dei settori popolari. Fra le istituzioni rappresentative da bypassare, oltre ai partiti politici neoliberali – oramai ridotti a gusci vuoti – vi era anche la Centrale operaia boliviana (Cob), leggendario sindacato di ideologia marxista dominato dai minatori, che per decenni aveva agito da avanguardia dei lavoratori boliviani. La federazione dei minatori aveva consistentemente relegato in posizione di subalternità all’interno della Cob le masse contadine e indigene, pure affiliate e numericamente preponderanti, mentre il movimento operaio boliviano si vedeva colpito a morte dalle stesse riforme neoliberali inaugurate nel 1986 e che avevano proceduto a disarticolare, attraverso privatizzazioni, licenziamenti e esili interni, un’organizzazione marxista senza eguali nell’intero continente.Il proceso de cambio vide la Cob in posizione di «alleato critico», e comunque subalterno, lungo l’intera durata dei governi Morales. Il primo mandato presidenziale di Morales rappresentò uno spartiacque dell’intera storia boliviana. Nazionalizzazione, benché parziale, del gas; convocazione di un’Assemblea Costituente, che vide la partecipazione diretta delle organizzazioni di base nella redazione del testo e che introdusse notevoli garanzie e tutele sociali, economiche, politiche e culturali per i popoli indigeni; avvio di una riforma agraria che parve modificare drasticamente la distribuzione della terra in Bolivia, separata fra la zona occidentale, poco fertile, divisa in microfundios e basata su forme di gestione comunitaria, e la zona orientale, dominata da latifondisti e volta all’esportazione di monocolture; avvio di programmi infrastrutturali e di sviluppo; sussidi sociali universalistici, i cosiddetti bonos, estremamente popolari – benché di importo esiguo – e diretti principalmente a donne madri (Bono Juana Azurduy) e anziani (Renta Dignidad).
Queste e altre misure contribuirono a creare un formidabile consenso per il proceso de cambio non solo fra le classi popolari, bensì anche fra ampi settori delle classi medie urbane, all’interno di un contesto economico estremamente favorevole, in parte grazie al boom dei prezzi delle materie prime. Al tempo stesso, il nuovo governo dovette contrastare una feroce resistenza da parte delle élite boliviane, in particolare di quelle orientali, legate agli interessi dell’agro-industria della regione di Santa Cruz. Il primo quinquennio fu caratterizzato da violenze e massacri a opera di squadroni paramilitari legati alle oligarchie latifondiste e industriali. La sede dell’Assemblea Costituente fu spostata più volte per ragioni di sicurezza. Il testo finale della nuova Costituzione fu di fatto frutto di un compromesso fra il governo e l’ala moderata dell’opposizione, in modo da isolare le fazioni apertamente golpiste e filofasciste, che avevano promosso un movimento secessionista nei quattro dipartimenti orientali del Paese, i più ricchi in termini economici e di risorse naturali. Stiamo parlando delle stesse forze oggi guidate da Luís Fernando Camacho, colui che, la sera delle dimissioni di Morales, è entrato nel palazzo presidenziale, Bibbia in mano. Forze che, dieci anni fa, subirono una clamorosa disfatta, quando il duo Morales-García Linera venne confermato al potere dal 64 percento dei boliviani, ottenendo spettacolari risultati anche nello stesso Oriente e nelle città, certificando quindi l’incontrastata egemonia masista, ben al di là degli ormai tradizionali bastioni contadini e indigeni.
Rimaneva comunque chiara la spaccatura fra l’Occidente aymara e quechua e l’Oriente bianco-meticcio, in cui comunque la componente indigena era numericamente esigua e divisa in oltre trenta etnie. I movimenti sociali che rappresentavano i popoli indigeni d’Oriente da sempre si caratterizzarono, anche in virtù della loro debolezza, per una decisa moderazione nelle loro richieste, volte principalmente alla tutela del loro status di minoranze etniche e dei loro strumenti di (ri)produzione culturale, inclusa la proprietà collettiva e inalienabile delle loro terre. Chiedevano protezione dalle oligarchie agro-industriali e dallo Stato boliviano: un approccio completamente diverso rispetto ai popoli indigeni d’Occidente, i quali miravano invece alla conquista dello Stato boliviano, da sottrarre ai q’aras (bianchi) e da utilizzare quale strumento di sviluppo sociale ed economico delle masse contadine-indigene.
Fu senz’altro questo secondo approccio a imporsi e ad animare il proceso de cambio. Del resto, il Mas rimaneva, e rimane, lo strumento politico dei contadini aymara e quechua: lo strumento che servì per porre fine al secolare dominio delle élite bianche e urbane di La Paz, Cochabamba, Sucre e Santa Cruz. Se nelle aree rurali, particolarmente nell’Altipiano, il Mas era forza egemone grazie al formidabile radicamento dei sindacati contadini – tant’è che spesso Morales raccoglieva nientemeno che il… 100 percento dei voti validi in diverse municipalità dei dipartimenti di La Paz, Oruro, Potosì, nonché nel Chapare – nelle città il voto masista si basava su un blocco sociale che Pablo Stefanoni ed Hervé Do Alto definirono «plebeo». Commercianti ambulanti, tassisti, imprenditori a capo di microimprese protoindustriali, in stragrande maggioranza indigeni, magari proprietari di minuscoli appezzamenti di terra sull’Altopiano con i quali si garantivano comunque la sussistenza, benché impegnati in quell’economia informale che dava (e dà) lavoro a oltre il 60 percento degli occupati. Un blocco sociale estremamente eterogeneo e comunque ad altissima densità organizzativa, grazie a sindacati più simili a gilde, nonché grazie alle juntas vecinales (sorta di comitati di quartiere) capaci di godere di enorme legittimità e di forza mobilizzatrice: emblematica, in tal senso, la struttura organizzativa sociale di El Alto, città costruita negli altopiani circostanti La Paz e teatro delle epiche giornate dell’ottobre 2003. Nell’Oriente il Mas era altresì presente dal punto di vista organizzativo, pur se in misura molto meno strutturata rispetto alle zone altiplaniche, grazie a quei sindacati contadini (anche in questo caso rappresentanti di medi, piccoli e piccolissimi proprietari terrieri) sviluppatisi a seguito dei programmi di colonizzazione di terre vergini susseguitisi dagli anni Sessanta, nonché delle migrazioni successive alle privatizzazioni e ai licenziamenti dalle industrie estrattive durante l’epoca neoliberale. Nelle aree minerarie dei dipartimenti di Oruro e Potosì si trovano infine le organizzazioni, anch’esse vicine al Mas, che rappresentano i cosiddetti «cooperativisti»: soci e dipendenti di cooperative impegnate, spesso al di fuori della legalità, nell’industria estrattiva, in aperta competizione con le imprese di proprietà pubblica e a volte colluse con multinazionali straniere. Trattasi di un’attività economica responsabile di drammatici danni ambientali, nonché caratterizzata da enormi disuguaglianze di reddito fra «soci-padroni» e salariati in condizioni di lavoro spaventose. Un’attività economica fonte di reddito per almeno il 5 percento dei boliviani, e strutturalmente dipendente da esenzioni fiscali e da «permissivismi» di vario tipo, che i governi di Morales accettarono di garantire.
In estrema sintesi, si può ritenere che il blocco sociale a sostegno del proceso de cambio era prevalentemente composto da poveri e poverissimi lavoratori autonomi, sia nelle città che nelle campagne, all’interno di una società estremamente complessa e per certi versi ancora pre- o proto-industriale. Un blocco desideroso di ottenere riconoscimento politico e concrete possibilità di mobilità e inclusione sociale e di relativo benessere economico. Di qui, l’adozione, da parte del governo, di un modello di sviluppo tanto statista quanto desarrollista, in cui l’ispirazione indigenista presto venne ad assumere una funzione quasi esclusivamente retorica, o comunque ridotta a legittimare, in maniera peraltro più che comprensibile e anzi sacrosanta, un formidabile ricambio del ceto politico boliviano, nonché il trionfo di pratiche discorsive cultural-identitarie sino ad allora relegate a poco più che folklore, quando non ostracizzate.
Si pensi alla strategia di sviluppo, denominata «modello sociale, economico, comunitario e produttivo» dal Ministro dell’Economia Arce Catacora. Di fatto, un modello molto poco «comunitario», sostanzialmente estrattivista, che assegnava al settore primario-estrattivo, ad alto valore aggiunto e a bassissima intensità di manodopera, il compito di generare, attraverso l’export, quei surplus da reinvestire in attività infrastrutturali per permettere l’industrializzazione del paese e il sostegno alle attività labour-intensive, nonché alla domanda interna attraverso politiche redistributive. Un modello da rendere funzionale a una prossima «formalizzazione» dell’economia boliviana e quindi all’industrializzazione del paese per garantire posti di lavoro di qualità. Un modello rimasto sostanzialmente inattuato, stante la scarsa o nulla capacità governativa di reinvestire i proventi delle esportazioni nei settori secondari (fatta eccezione per il settore delle costruzioni) e il conseguente e perdurante dominio dell’economia informale (generatrice di enormi disuguaglianze sociali al proprio interno) nella struttura economica boliviana. L’aumento della domanda si limitò a favorire l’importazione di beni di consumo a basso costo, quando non di contrabbando, a detrimento delle incipienti forme di microimpresa e a tutto vantaggio di quella nuova borghesia commerciante, di origine indigena, che rapidamente si sviluppò nelle città, o di quel settore agricolo gravitante attorno l’agroindustria orientata all’esportazione. Si trattava, in sintesi, di un modello che rimase prettamente estrattivista; che garantì impressionanti crescite economiche (al ritmo di quattro punti l’anno) e drastici cali dei tassi di povertà ed esclusione sociale; che coesistette con una prudente gestione macroeconomica, come testimoniato dal sostenuto incremento delle riserve internazionali; e che, a partire almeno dal 2011 (si veda a mo’ di efficace sintesi l’evoluzione temporale dell’indicatore di Gini) stimolò concentrazioni della ricchezza in mani nuove e meno nuove (anche a causa della sostanziale frenata imposta ai processi di riforma agraria, che mai virò verso qualsivoglia progetto di collettivizzazione o comunitarizzazione) e comunque smise di agire da redistributore del reddito nazionale.
L’erosione del consenso
Chi rimase al di fuori del blocco sociale articolato dal proceso de cambio? Inizialmente, ossia nel primo quinquennio di governo, praticamente nessuno, fatta eccezione, ovviamente, per le tradizionali oligarchie, d’oriente e d’occidente. E persino con le prime i governi di Morales riuscirono gradualmente a trovare un modus vivendi che garantisse loro il prosieguo e il potenziamento delle proprie attività economiche, così necessarie anche per lo stesso proceso de cambio al fine di garantire l’accumulazione primaria di capitale, nonché di assicurare una certa pace sociale. Il matrimonio fra il popolo boliviano tutto ed hermano Evo cominciò però a scricchiolare, a partire, grosso modo, dal secondo mandato presidenziale. Le ragioni di questa progressiva erosione del sostegno al proceso de cambio vanno ricercate nel combinato disposto del modello di sviluppo masista e delle forme di articolazione del consenso utilizzate dai governi di Morales, in un contesto segnato, sempre e comunque, dallo strisciante razzismo e classismo che permeano i settori medi e borghesi delle città boliviane.Per quanto riguarda il modello di sviluppo, si deve menzionare il suo carattere statista e desarrollista, il quale nel medio termine alienò il supporto di diverse comunità indigene locali le cui forme di riproduzione sociale e culturale vennero stravolte dalla costruzione di infrastrutture e dall’ampliamento – sovente illegale e altrettanto sovente sanato da leggi ad hoc – della cosiddetta frontera agrícola. Un modello di sviluppo dagli immediati ritorni economici per quei contadini medi e medio-piccoli che beneficiarono dell’estensione delle terre coltivabili – nonché per le oligarchie possidenti di terre dedicate alle monocolture – e che tuttavia compromise buona parte della retorica ufficiale «indigenista-comunitaria». Al tempo stesso, la necessità di proteggere le attività urbane legate al commercio – attività cui si dedica la stragrande maggioranza dei sostenitori del proceso de cambio – distolse il governo dagli obiettivi di industrializzazione e di sostegno alle attività dell’economia formale, impedendo così il rafforzamento strutturale delle classi salariate. Questo aspetto, insieme al persistente permissivismo nei confronti delle cooperative minerarie e al mantenimento di debolissime tutele nei confronti del lavoro salariato (anche attraverso regimi eccezionali per favorire investimenti esteri: si veda a tal proposito gli interessanti articoli di Angus McNelly), contribuì a rendere aspri i rapporti fra il governo e la Cob, cui venne sempre riservato uno scarso potere politico all’interno della galassia di organizzazioni a sostegno del proceso de cambio. L’atteggiamento decisamente tiepido, quando non ostile, mantenuto dai dirigenti cobistas nei confronti di Evo Morales durante l’attuale crisi appare dunque molto meno inspiegabile.
L’analisi delle forme di articolazione del consenso utilizzate dal Mas-Ipsp è altrettanto, se non maggiormente, rilevante per comprendere la progressiva erosione del consenso nei confronti del progetto politico masista. Soprattutto a partire dal secondo mandato di Morales, si ebbe in Bolivia la consistente adozione di un metodo corporativo di aggregazione degli interessi e di distribuzione delle risorse politiche. I principali beneficiari rimasero i grandi sindacati contadini, tuttora il bastione del consenso masista, che godettero di un’accesso senza precedenti alle risorse pubbliche, politiche ed economiche. I sindacati contadini si trasformarono in intermediari fra le comunità rurali di base e lo Stato, garantendo alle prime livelli di inclusione sociale, nonché di disponibilità di servizi e infrastrutture, mai conosciuti prima, nonostante ripetuti (e in qualche modo fisiologici) fenomeni di corruzione che contribuirono non poco alla perdita di prestigio e di iniziativa politica delle organizzazioni rurali.
Nelle città, invece, il Mas-Ipsp inizialmente era un corpo estraneo. Per un tempo, le classi medie concessero la propria fiducia a Morales, pur se in misura condizionata nei confronti di un progetto politico che implicava un (sacrosanto) ricambio del ceto politico nazionale e, più in generale, dello stesso discorso pubblico. Un malcelato e perdurante razzismo però si fondeva con la perdita del monopolio dell’accesso a funzioni pubbliche, improvvisamente aperto a dirigenti sociali di base anziché (esclusivamente) a figure tecnocratiche, come ben sottolinea Fernando Molina in una recentissima analisi. Si insinuava presto, in altri termini, un discorso meritocratico. Ancora più complesso divenne il rapporto fra il Mas-Ipsp e le organizzazioni popolari urbane, ossia juntas vecinales e gilde: organizzazioni tendenzialmente autonome, che non formarono parte del nucleo fondativo del Mas, e i cui dirigenti vennero sostanzialmente cooptati dal Mas attraverso pratiche non dissimili da quelle adottate dai partiti neoliberali nell’epoca premasista. Il che implicò, da un lato, un graduale scollamento fra basi e vertici, con conseguente indebolimento, e dall’altro, ricorrenti spaccature e scissioni fra le stesse organizzazioni popolari lungo linee politiche (filo-governative e filo-opposizione) e distribuzione di prebende e concessioni a seconda dell’affiliazione politica. In altri termini, le organizzazioni popolari urbane smisero di essere una forma di incapsulamento e riproduzione del consenso, e in alcuni casi si trasformarono in strumenti di lotta per la distribuzione di privilegi corporativi all’interno dei settori sociali di cui avrebbero dovuto garantire rappresentanza. In alcuni casi, come quello di El Alto, sino al 2010 vero e proprio bastione del Mas, si ebbero situazioni di aperto conflitto fra organizzazioni di base, una parte delle quali si allineò con l’opposizione e ne garantì la vittoria alle elezioni municipali del 2015.
Si generò progressivamente un ampio insieme di attori e settori sociali delusi: comunità indigene, ecologisti, classi medie urbane, salariati, ma anche settori popolari urbani o persino fazioni contadine esclusi dai circuiti governativi, nonché coltivatori della foglia di coca colpiti da leggi restrittive che però non si applicavano al territorio del Chapare, solo per dirne alcuni. Sicuramente si trattava di fasce troppo eterogenee per essere facilmente coagulate da un’opposizione che rimase per molto tempo divisa e ancora troppo identificata con le violenze golpiste del primo quinquennio del proceso de cambio, e tuttavia sufficientemente estese per sfidare apertamente il masismo se ve ne fosse stata l’opportunità. Che venne puntualmente offerta da Morales nel febbraio 2016, con l’ormai famoso referendum costituzionale.
Dal 21-F ai giorni nostri
Il referendum convocato il 21 febbraio di tre anni fa da Evo Morales per modificare la «sua» (e di tutto il popolo) Costituzione si risolse, come ben noto, in una clamorosa – benché di misura – sconfitta. Questi plebisciti offrono notoriamente quella possibilità di coagulare il dissenso che altre occasioni elettorali non concedono. Morales tuttavia decise di insistere con il progetto di ricandidatura, per un coacervo di ragioni. Troppo forte il capitale politico costruito attorno alla sua oramai epica figura; troppo grande il potere politico accumulato, in qualità di guida e mediatore di ultima istanza dei diversi interessi avanzati dalle organizzazioni afferenti al Mas; troppo contestata e divisiva la figura del vicepresidente all’interno della Bolivia. E, in ogni caso, troppo ferrea la volontà di rimanere in sella, a discapito di altri potenziali figure a lungo considerate presidenziabili, quali l’ex ministro degli Esteri Choquehuanca o l’ex ministro dell’Economia Arce.Morales poté correre alle elezioni presidenziali dell’ottobre 2019 grazie a una sentenza della Corte Suprema boliviana – eletta su base popolare e tacciata di essere filogovernativa dall’opposizione. Nella sentenza, si dichiarava che candidarsi alla presidenza era un «diritto umano» inalienabile, e che quindi il risultato del referendum del 2016 doveva essere ribaltato. La ricandidatura di Evo Morales fu una scelta indiscutibilmente impopolare, che ha contribuito ad alienare consensi, mentre la sentenza della Corte Suprema, insieme alla stessa composizione del Tribunale elettorale (7 membri, tutti di nomina parlamentare o presidenziale), ha permesso all’opposizione di essere credibile, soprattutto agli occhi delle classi medie (e non solo) urbane, nel portare avanti un discorso di aperta delegittimazione nei confronti delle istituzioni statali. Si preparavano insomma tutti gli ingredienti per una feroce polarizzazione in vista delle elezioni dell’ottobre scorso, tant’è che di «brogli elettorali», nei media di opposizione, si parlava già da lunghi mesi. L’opposizione, inoltre, dimostrava una certa sagacia nel serrare le fila attorno alla candidatura presidenziale di Carlos Mesa, perfetto esponente centrista dell’élite bianca di La Paz, dunque sufficientemente lontano dalle oligarchie agroindustriali e razziste dominanti a Oriente e decisamente incapaci – per lo meno sino a oggi – di attirare consensi nell’Altopiano. Infine, i devastanti incendi divampati nella regione della Chiquitanía (l’Amazzonia boliviana), uniti alle lente risposte del governo – peraltro accusato di aver favorito gli incendi attraverso legislazioni e sanatorie, anche durante lo stesso anno 2019, per permettere l’ampliamento della frontera agrícola – contribuirono ulteriormente a indebolire l’immagine del proceso de cambio durante le fasi cruciali della campagna elettorale.
Si giunge così alle drammatiche giornate di quest’ultimo mese. Molte cose sono già state ampiamente narrate: la sospensione di 24 ore della pubblicazione anticipata dello spoglio, giunto all’83 percento, e che dava Morales avanti di 7 punti rispetto a Mesa – un risultato che avrebbe costretto il presidente uscente a un pericoloso ballottaggio, visto che pressoché tutti gli altri candidati minori avevano già espresso appoggio al candidato di opposizione; il ripristino della comunicazione dei risultati, che con il 95 percento delle schede scrutinate dava Morales avanti di 10,2 punti – il che avrebbe significato la vittoria al primo turno; e quindi il via alle proteste di piazza nelle principali città boliviane, con i manifestanti sobillati dalle opposizioni che gridavano al fraude electoral e reclamavano nuove elezioni e le dimissioni di Evo. Proteste immediatamente radicalizzatesi: roghi dei Tribunali elettorali dipartimentali, tristissime liste di proscrizione sui social media, cacce all’uomo e umiliazioni pubbliche di figure pubbliche vicine al Mas, e poi ancora incendi di abitazioni private ai danni di esponenti filogovernativi, mentre nelle piazze si imponevano le fazioni estremiste legate alle organizzazioni fasciste di Santa Cruz, con l’oramai tristemente noto Luís Camacho – Presidente del comitato civico di Santa Cruz, qualcosa a metà fra una loggia massonica e un’organizzazione confindustriale – a egemonizzare le proteste senza incontrare troppa resistenza da parte della cosiddetta opposizione moderata. A gettare, in modo decisivo, benzina sul fuoco, gli ammutinamenti della polizia – che, per vecchie questioni salariali e amministrative, abbracciava maggioritariamente le istanze dell’opposizione – mentre l’Esercito rimaneva inerme ed Evo Morales rinunciava a percorrere la strada della repressione – non volendo percorrere, va detto e ribadito, le gesta di un Sánchez de Losada qualsiasi.
Indebolito dalle estese proteste, nonché dall’arresto di membri del Tribunale elettorale, il presidente ha lanciato chiari segnali di pacificazione: ha accettato di assegnare all’Organizzazione degli Stati americani (tutto fuorché un’istituzione vicina al governo) il compito di verificare i risultati, assicurando di accettarne le direttive, e quindi, una volta giunto il parere dell’Osa, prometteva di indire nuove elezioni con «nuovi attori politici», lasciando dunque aperta la porta per una sua rinuncia a una nuova candidatura. Tutto inutile: giungevano inviti a dimettersi anche da figure non assimilabili all’opposizione, ed è stato ovviamente decisivo il «suggerimento» del Comandante delle Forze armate, il generale Kaliman, di piuttosto provata fede masista (tant’è che è stato immediatamente deposto dall’autoproclamata presidente Añez pochi giorni dopo). È possibile che Kaliman fosse consapevole di non poter più garantire l’obbedienza dei ranghi intermedi, così come è possibile che le pressioni sociali abbiano avuto effetto. Per capire il clima che si respira oggi in Bolivia, è emblematico un post su Facebook pubblicato – e subito rimosso, a seguito di diversi commenti di amici che ne segnalavano l’inopportunità – dall’ex portavoce del partito di Carlos Mesa – uno, insomma, che potrebbe quasi essere considerato un moderato:
«stiamo vivendo una Rivoluzione Digitale. Un cellulare vale più d’un fucile. Non c’è modo di scappare. Quando il leader civico Camacho ha incontrato il capo dell’Aeroporto di Santa Cruz, costui ha suggerito a Camacho di tornarsene a casa senza fare danni e di rinunciare a volare su La Paz. Gli uomini del cruceño non hanno esitato a “ricordare” al capo dell’Aeroporto che aveva due figli, che vivevano in Calle Achumani 37 e che “sicuramente sarebbero felici di rivedere il loro papà”. Pensiamo altresì al famoso Kaliman, masista di ferro […] cui qualcuno “ha ricordato” che il figlio studia presso la Georgetown University, che lunedì dovrà affrontare un esame di ragioneria, e che “sarebbero molto felici di aiutarlo”. Cosa ha fatto dunque Kaliman? Ebbene, ha ricordato anch’egli qualcosa ad Evo: “meglio se te ne vai”».A prescindere dalla veridicità o meno dei fatti narrati (comunque, per lo meno, plausibili), il dato incontrovertibile è che un esponente di primo piano dell’opposizione si sia sentito autorizzato a esprimersi pubblicamente in tal senso.
Conclusioni (e qualche lezione da trarre)
Come interpretare dunque quanto sta accadendo in Bolivia? Una rivolta sociale per garantire l’alternanza democratica? Un colpo di stato? La fine di un sistema di potere che aveva favorito la creazione di una «coalizione di scontenti»? Il trionfo delle vecchie oligarchie e di un classismo razzista duro a morire? Si potrebbe dire: «tutte queste cose assieme». Nessuna di queste letture può essere scartata se si vuole comprendere non solo cosa sia successo, ma soprattutto come si siano generate le condizioni affinché succedesse.Sicuramente decisiva per la creazione di una vasta coalizione antimasista è stata la progressiva, e sino a un certo punto fisiologica, trasformazione del Mas in un sistema di potere, dal sempre più limitato potenziale trasformativo. Sono Cambiate le basi discorsive legittimanti del proceso de cambio: dal recupero della sovranità e della democrazia, dall’incorporazione sociale e politica di masse da sempre escluse da un regime classista e razzista, si è passati a un discorso centrato esclusivamente sulla crescita economica e sulla produttività, a difesa di un modello di sviluppo estrattivista che oramai apertamente rinuncia ad attaccare le più profonde basi strutturali della disuguaglianza e finisce progressivamente per riprodurle, o per riprodurne di nuove. Evo Morales, soprattutto a partire dal 2010-2011, è stato ferocemente criticato da sinistra per aver trovato un modus vivendi con quelle oligarchie agroindustriali che tanto avevano operato, con strumenti tutt’altro che democratici, per rovesciarne il governo. Si trattava spesso di critiche che non consideravano l’enorme influenza economica, nonché il nient’affatto irrilevante radicamento sociale nell’Oriente boliviano di quelle forze che sarebbe un eufemismo definire reazionarie. Questo accordo tacito, però, non ha comportato (soltanto) un deciso cammino di moderazione intrapreso dal proceso de cambio rispetto al primo quinquennio e ai grandi obiettivi di giustizia sociale e riconoscimento culturale che ispirano la Costituzione boliviana. Il vero dramma è stata la difesa de facto, in nome della «produttività», degli interessi economici di oligarchie che non hanno messo mai da parte le loro aspirazioni politiche e la loro profonda insofferenza nei confronti di un nuovo ceto politico considerato straniero e inferiore.
I governi di Morales riproducevano il sostegno popolare attraverso un sistema corporativo di aggregazione degli interessi e di distribuzione dei benefici politici, il che implicava un’avanzata perdita di iniziativa politica e di autonomia da parte di quelle organizzazioni sociali che oramai erano diventate… «strumento del loro strumento politico». Come tutti i sistemi corporativi, ciò finiva per generare l’esclusione, o per lo meno un’insufficiente considerazione, di attori che si trovavano al di fuori dei circuiti di potere governativi. Non è possibile ignorare questi aspetti se si vuole comprendere come mai il campo antigovernativo sia tanto eterogeneo e composito, giungendo a includere anche attori e settori popolari i cui interessi di lungo termine risultano magari essere incompatibili con quelli di chi ha egemonizzato le proteste, ma che nel breve termine hanno dato luogo a un’alleanza tattica dalle conseguenze, temiamo, più che nefaste.
È inoltre innegabile il carattere di massa delle proteste contro il governo di Morales. L’opposizione raccoglie oramai eguali consensi rispetto al Mas: in Bolivia, per dirla con García Linera, siamo davvero in una situazione di «catastrofico pareggio». Senz’altro il campo antimasista è molto più frastagliato, da un punto di vista sociale e politico. I diversi attori che si sono uniti all’opposizione allegando critiche da sinistra al «regime di Morales» temo non tarderanno troppo nel capire di essere estremamente minoritarie all’interno del campo cui hanno scelto di aderire. Sarà molto più difficile che scelgano di tornare indietro, perché il livello di odio nei confronti del sistema di potere masista ha superato ogni limite di ragionevolezza. La speranza, per chi comunque ha ritenuto e continua a ritenere il proceso de cambio un’esperienza esaltante e dai contorni epici, è che le contraddizioni interne all’antimasismo emergano. Queste contraddizioni non sono soltanto (e nemmeno soprattutto) ideologiche: siamo pur sempre abituati, non solo in America Latina, ad alleanze fra forze liberali e componenti apertamente reazionarie che ogni volta trovano il modo di intendersi. Vi sono però contraddizioni regionali, tanto sono differenti le élite bianche occidentali e quelle orientali, non solo in termini di cultura politica ma anche in termini di interessi da difendere.
L’accusa di aver commesso brogli elettorali è particolarmente pesante, e si è prestata a una forte adesione alle proteste anche fra settori medi e popolari, per due ordini di ragioni: ha legittimato la violenza quale unica forma di recuperare l’alternanza e la democrazia, dando il là a una narrazione «rivoluzionaria» di ciò che è, a tutti gli effetti, un colpo di stato; ha colpito alla radice l’aspirazione e la convinzione del Mas di rappresentare la maggioranza del popolo e dei popoli boliviani. Una convinzione del resto più che fondata per quasi quindici anni: quindici anni da cui, per fortuna, non si potrà mai tornare del tutto indietro.
Troppo avanzate le conquiste sociali e quelle simboliche, tant’è che persino nelle proteste anti-Morales i manifestanti hanno dovuto (sicuramente in modo strumentale) recuperare la wiphala (ossia il vessillo aymara) e utilizzarla nelle proteste, per varie settimane colorate esclusivamente dal tricolore boliviano e dalle bandiere bianco-verdi di Santa Cruz. Troppo forte ancora ciò che si definisce il «voto duro del Mas», specie nelle zone rurali, in cui la densità organizzativa masista continua a essere elevatissima. Rimane comunque da riflettere su come sia stato possibile permettere la costruzione di un campo regressivo tanto vasto dopo quindici anni di conquiste sociali e di crescita economica senza precedenti nella storia boliviana. E forse buona parte delle ragioni vanno ricercate nell’impossibilità, o nel rifiuto, di colpire più in profondità le radici strutturali delle disuguaglianze, e di proporre un modello di sviluppo che andasse oltre, o che per lo meno indicasse la via per superare, quel modello estrattivista che aveva concretamente sostituito il precedente modello neoliberale. Il proceso de cambio è stato sconfitto dalla propria moderazione, dalla propria capacità e volontà di trovare una certa conciliazione con le vecchie oligarchie. Questa moderazione, e una certa sclerotizzazione nella distribuzione di incentivi politici, hanno convinto alcuni settori popolari, o comunque non certo oligarchici, a saltare il fossato, contribuendo a legittimare un golpe controrivoluzionario. E però, il vero problema di questo lungo processo di moderazione è l’aver assicurato la sopravvivenza di quelle oligarchie che, in fondo, non hanno fatto altro che attendere il primo momento utile per riprendersi il pieno controllo di quello Stato che avevano dovuto cedere, obtorto collo, ai «plebei».
*Enrico Padoan è ricercatore presso la Scuola Normale Superiore e si occupa di populismo e resistenza al neoliberismo in America Latina ed Europa.
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