giovedì 21 novembre 2019

Macerie da rimuovere.

Viviamo in un’epoca che molto spesso sembra ormai consegnata allo sfacelo, l’Italia ne è un esempio appariscente, dall’Ilva a Leonardo, l’unico grande gruppo rimasto, che produce solo armi e andrebbe chiuso e riconvertito. Invece dei farseschi appelli alla crescita e allo sviluppo, sarebbe il caso di parlare di “ricostruzione”, come dopo la seconda guerra mondiale. 

Un Green New Deal, tuttavia, può essere promosso come programma di governo per salvaguardare gli assetti di potere e le diseguaglianze sociali vigenti; oppure come lotta per imporre alla spesa pubblica il sostegno dell’iniziativa locale. 

La prima versione, senza volerlo, è un approccio “sovranista”, che promuove una gestione dell’economia “dall’alto”, entro i confini della governance dell’Ue: uno schema keynesiano in un mondo globalizzato. La seconda versione riconosce che la globalizzazione è irreversibile, ma che “la libera circolazione” dei capitali strangola ogni economia locale. Però facilita anche la circolazione di conoscenze, tecnologie e soprattutto di persone: non solo turisti. Anzi, sempre più, migranti e profughi ambientali.


La nostra epoca, sotto la minaccia ormai vistosa della crisi climatica e ambientale, ci appare sempre più come un cumulo di macerie in attesa di un riscatto che non si vede. 
L’Italia ne è un esempio appariscente: l’Ilva è irrecuperabile; il Mose è un disastro; il TAV una manifestazione di demenza; il TAP un investimento a perdere; Alitalia un fallimento perpetuo; FCA una produzione senza futuro; Leonardo, l’unico grande gruppo rimasto, produce solo armi e andrebbe chiuso (e riconvertito); le centrali termoelettriche, non solo quelle a carbone, sono da dismettere; il lavoro è sempre più deprezzato; il paese e i suoi monumenti si sfaldano sotto l’alluvione; la finanza, abbracciata alla speculazione immobiliare, è una minaccia globale che non risparmia nessuno; la guerra, ormai mondiale, anche se a pezzi (come dice papa Francesco) ci coinvolge tutti (abbiamo soldati in 24 paesi, e vendiamo armi a molti altri; senza dirlo). 
Più che di “sviluppo” si deve parlare di “ricostruzione”, come dopo la Seconda guerra mondiale.
Sviluppo (sostenibile) non è la stessa cosa che conversione (ecologica): il primo termine racchiude in sé l’esigenza inderogabile della crescita, magari inseguendo un decouplig (dissociazione tra aumento del PIL, cioè “accumulazione del capitale”, per dirla con Marx, e consumo di risorse e di ambiente) che non trova alcun riscontro empirico.
L’obiettivo è non mettere in discussione i cardini del nostro “stile di vita”, per dirla con Ursula Von der Leyen; quello che già Bush padre dichiarava “non negoziabile”.  
La conversione ecologica ne richiede invece un mutamento radicale.

Ma anche la costruzione, su nuove basi, di un’economia della convivenza. Sviluppo allude alla conferma, alla continuità; conversione alla rottura, al conflitto.
Sono in molti a opporsi a un cambio di rotta: chi per interesse, chi per ignoranza della gravità della crisi, chi per non vedere alternative possibili (per anni si è ripetuto che “non c’è alternativa”); chi per disperazione.
Sono queste le macerie da rimuovere.
Il conflitto, i tanti conflitti in corso, e quelli che si svilupperanno in futuro, i loro esiti, ma soprattutto il loro andamento, non sono prevedibili: sono soggetti ad alti e bassi.
Per questo la conversione ecologica non si può programmare.
Bisogna basarsi su ciò che di volta in volta si riesce a costruire, soprattutto in due campi: quello delle economie trasformative, produzione e consumo; e quello delle comunità, legami sociali: sono cose che marciano insieme, ma per entrambe il conflitto è un contesto ineliminabile.
Non si può più prefigurare il mondo di domani (il “sol dell’avvenire”): la nostra dimora, qui e ora, e per molto tempo a venire, è e sarà un ambito conflittuale, in cui farsi strada giorno per giorno, sia a grandi che a piccoli passi.
Comunità (aperta) vuol dire relazione, riconoscimento reciproco, scambio e accumulo di esperienze e conoscenze, libertà di movimento nello spazio e nel tempo; ma soprattutto riconciliazione con la Terra:
sia nella sua presenza immediata, come produttrice di cibo e di habitat sani per la nostra vita quotidiana: terra come suolo, biodiversità, ecosistemi.
Sia nella sua accezione planetaria, come dimora di tutto il vivente di cui la specie umana torna a essere solo un anello: la Terra, nostro – unico – pianeta. Papa Francesco è tra i pochi ad aver colto questo punto.
Economia trasformativa significa coniugare l’iniziativa locale con processi e svolte globali: i settori portanti della conversione ecologica sono noti: energia, agricoltura e allevamento, alimentazione, mobilità, edilizia, assetto del territorio, salute, cura del prossimo, educazione, ricerca. 
Non c’è trasformazione senza iniziativa locale: i nuovi assetti dovranno contare, nelle forme più diverse, su un controllo “dal basso” di tutti i processi che la tecnologia rende possibile riterritorializzare.
Ma non c’è riterritorializzazione possibile senza aggredire la gestione centralizzata che la finanza ha imposto ai processi economici di tutto il mondo.
Il Green New Deal può essere promosso come programma di governo per salvaguardare gli assetti di potere e le diseguaglianze sociali vigenti, prospettando una sua improbabile compatibilità con la salvaguardia del pianeta; oppure come lotta per imporre alla spesa pubblica il sostegno dell’iniziativa locale. 
La prima versione, senza volerlo, è un approccio “sovranista”, che promuove una gestione dell’economia “dall’alto”, entro i confini fissati dalla governance dell’Unione europea: uno schema keynesiano in un mondo ormai globalizzato. La seconda versione riconosce che la globalizzazione è irreversibile, ma che “la libera circolazione” dei capitali strangola ogni economia locale.
Però facilita anche la circolazione di conoscenze e tecnologie e soprattutto di persone: non solo turisti.
Anzi, sempre più, migranti e profughi ambientali.
L’iniziativa locale dovrà dunque imporre piani generali di finanziamento della conversione ecologica che consentano di accoglierli tutti e di inserirli nei processi produttivi accanto ai disoccupati nativi; ma anche di sostenerli come referenti e possibili attori della pacificazione e della conversione ecologica dei paesi da cui sono fuggiti.
“Aiutandoli a casa nostra” per “aiutarli a casa loro”.

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