il manifesto Mauro Ravarino
Non è stupito degli ultimi fenomeni atmosferici in sé, d’altronde
siamo a novembre, ma per l’incapacità o la non volontà di prevenzione.
Luciano Masciocco è docente di geologia ambientale all’Università di
Torino e si confronta abitualmente con la valutazione del rischio
idrogeologico.
L’imprescindibilità da «prevenzione e manutenzione del territorio e delle infrastrutture» è stata ribadita, ieri, anche dal Consiglio Nazionale dei Geologi che con il presidente Francesco Peduto ha stimato che «circa il 90% delle problematiche legate alle infrastrutture italiane sono determinate non da fattori strutturali, bensì da criticità idrogeologiche».
Prof. Masciocco, come fotografa quello che è successo in questi giorni di maltempo in Piemonte e nel Nord Ovest del Paese?
In un certo senso è quello che succede regolarmente nel mese di novembre, certo la pioggia di questo mese è stata particolarmente lunga e l’ultimo evento è seguito ad altri di qualche settimana fa e si è quindi scaricato su un terreno quasi saturo, causando frane e alluvioni.
Al di là dei mutamenti climatici è cambiata la nostra occupazione del suolo: cento anni fa eravamo la metà e se guardiamo le carte topografiche o le foto aeree di 50 o 60 anni fa noteremo come eravamo distribuiti sul territorio un tempo e potremo confrontarlo con l’oggi. Siamo andati a occupare tante zone pericolose. È un problema fondamentale: non bisogna costruire vicino ai corsi d’acqua o vicino agli impluvi, o dove si concentrano i flussi d’acqua. Il tratto del viadotto savonese precipitato si trovava sicuramente allo sbocco di un impluvio.
Ritiene che responsabile sia il consumo del suolo?
La responsabilità è dell’ingordigia dell’uomo che vuole costruire e speculare su terreni pericolosi. Il problema del Piemonte è che nei piani regolatori si dice che non si dovrebbe costruire in zone vulnerabili, ma la legge è venuta dopo le costruzioni e per ovviare ai limiti si sono realizzati nuovi argini che permettono altre edificazioni. Queste case vengono commercializzate e nell’atto di compravendita non viene riportata la loro classe di pericolosità, come invece richiediamo insistentemente come Società Italiana di Geologia Ambientale (Sigea).
Siamo davvero in grado di prevenire? Ed è sufficiente l’investimento pubblico per farlo?
La prima prevenzione, ripeto, è non edificare nelle zone pericolose, che anche il prossimo anno saranno colpite da alluvioni e da frane. Non possiamo impedire di piovere o alle montagne di franare. A cose fatte interviene la Protezione civile, noi dobbiamo lavorare sul quel che c’è.
Urge, dunque, una pianificazione territoriale.
Certo. Il problema sono gli interessi economici, ci sono tanti edifici in aree esondabili, accettati nel bene o nel male, che hanno un valore commerciale. Affermare che siano in zone pericolose ne abbatterebbe il valore economico, per questo c’è una forte resistenza. L’unica possibilità per salvare il salvabile è mettere un’assicurazione obbligatoria. Vuoi costruire lì o permettere di farlo? Se c’è un’assicurazione che deve fissare un premio per una casa accanto a un torrente voglio vedere che premio metterà.
Cosa manca nell’intervento sul territorio, abbiamo bisogno di tante piccole opere?
Manca un intervento capillare, servirebbero piccole strutture per trattenere in ogni territorio comunale l’acqua in eccesso durante le piogge. Se si facesse in tutti gli 8 mila comuni italiani si mitigherebbe la pericolosità dei corsi d’acqua. Intendo piccole dighe in collina e in montagna e casse di espansione in pianura. Con gli argini, invece, salviamo la cittadina in corrispondenza, ma aumentiamo la velocità dell’acqua creando come «una pallottola» diretta verso valle. Gli argini, d’altronde, si rompono. Bisognerebbe, invece, trovare zone per allargare la sezione dei fiumi, che possano così espandersi in aree golenali.
I cambiamenti climatici sono un ulteriore fattore di rischio?
In questi ultimi venti anni non è aumentata la piovosità annua ma la concentrazione delle piogge, ovvero l’intensità: i corsi d’acqua non sono più in grado di reggere questa forte intensità. E per questo dobbiamo adattarci e adeguarci ai cambiamenti climatici in corso, dobbiamo costruire in modo adeguato e lasciare che i fiumi possano esplicare l’azione di alluvionamento. D’altronde la Pianura Padana, essendo alluvionale, si è formata con alluvioni.
L’imprescindibilità da «prevenzione e manutenzione del territorio e delle infrastrutture» è stata ribadita, ieri, anche dal Consiglio Nazionale dei Geologi che con il presidente Francesco Peduto ha stimato che «circa il 90% delle problematiche legate alle infrastrutture italiane sono determinate non da fattori strutturali, bensì da criticità idrogeologiche».
Prof. Masciocco, come fotografa quello che è successo in questi giorni di maltempo in Piemonte e nel Nord Ovest del Paese?
In un certo senso è quello che succede regolarmente nel mese di novembre, certo la pioggia di questo mese è stata particolarmente lunga e l’ultimo evento è seguito ad altri di qualche settimana fa e si è quindi scaricato su un terreno quasi saturo, causando frane e alluvioni.
Al di là dei mutamenti climatici è cambiata la nostra occupazione del suolo: cento anni fa eravamo la metà e se guardiamo le carte topografiche o le foto aeree di 50 o 60 anni fa noteremo come eravamo distribuiti sul territorio un tempo e potremo confrontarlo con l’oggi. Siamo andati a occupare tante zone pericolose. È un problema fondamentale: non bisogna costruire vicino ai corsi d’acqua o vicino agli impluvi, o dove si concentrano i flussi d’acqua. Il tratto del viadotto savonese precipitato si trovava sicuramente allo sbocco di un impluvio.
Ritiene che responsabile sia il consumo del suolo?
La responsabilità è dell’ingordigia dell’uomo che vuole costruire e speculare su terreni pericolosi. Il problema del Piemonte è che nei piani regolatori si dice che non si dovrebbe costruire in zone vulnerabili, ma la legge è venuta dopo le costruzioni e per ovviare ai limiti si sono realizzati nuovi argini che permettono altre edificazioni. Queste case vengono commercializzate e nell’atto di compravendita non viene riportata la loro classe di pericolosità, come invece richiediamo insistentemente come Società Italiana di Geologia Ambientale (Sigea).
Siamo davvero in grado di prevenire? Ed è sufficiente l’investimento pubblico per farlo?
La prima prevenzione, ripeto, è non edificare nelle zone pericolose, che anche il prossimo anno saranno colpite da alluvioni e da frane. Non possiamo impedire di piovere o alle montagne di franare. A cose fatte interviene la Protezione civile, noi dobbiamo lavorare sul quel che c’è.
Urge, dunque, una pianificazione territoriale.
Certo. Il problema sono gli interessi economici, ci sono tanti edifici in aree esondabili, accettati nel bene o nel male, che hanno un valore commerciale. Affermare che siano in zone pericolose ne abbatterebbe il valore economico, per questo c’è una forte resistenza. L’unica possibilità per salvare il salvabile è mettere un’assicurazione obbligatoria. Vuoi costruire lì o permettere di farlo? Se c’è un’assicurazione che deve fissare un premio per una casa accanto a un torrente voglio vedere che premio metterà.
Cosa manca nell’intervento sul territorio, abbiamo bisogno di tante piccole opere?
Manca un intervento capillare, servirebbero piccole strutture per trattenere in ogni territorio comunale l’acqua in eccesso durante le piogge. Se si facesse in tutti gli 8 mila comuni italiani si mitigherebbe la pericolosità dei corsi d’acqua. Intendo piccole dighe in collina e in montagna e casse di espansione in pianura. Con gli argini, invece, salviamo la cittadina in corrispondenza, ma aumentiamo la velocità dell’acqua creando come «una pallottola» diretta verso valle. Gli argini, d’altronde, si rompono. Bisognerebbe, invece, trovare zone per allargare la sezione dei fiumi, che possano così espandersi in aree golenali.
I cambiamenti climatici sono un ulteriore fattore di rischio?
In questi ultimi venti anni non è aumentata la piovosità annua ma la concentrazione delle piogge, ovvero l’intensità: i corsi d’acqua non sono più in grado di reggere questa forte intensità. E per questo dobbiamo adattarci e adeguarci ai cambiamenti climatici in corso, dobbiamo costruire in modo adeguato e lasciare che i fiumi possano esplicare l’azione di alluvionamento. D’altronde la Pianura Padana, essendo alluvionale, si è formata con alluvioni.
Nessun commento:
Posta un commento