Le piattaforme al servizio delle aziende, meno note di quelle della gig economy ma in continua crescita, rappresentano la nuova frontiera della frammentazione del processo produttivo e della flessibilità selvaggia del lavoro.
«Il mercato del lavoro […] ha conosciuto una radicale ristrutturazione. In presenza di una forte instabilità del mercato, di un’accresciuta concorrenza e di margini di profitto decrescenti, i datori di lavoro hanno sfruttato il diminuito potere sindacale e le sacche di lavoratori in eccedenza (disoccupati o sotto-occupati) per promuovere regimi di lavoro e contratti di lavoro molto più flessibili».
Così scriveva trent’anni fa David Harvey in The Condition of Postmodernity, libro che è oggi un classico della filosofia politica – edito recentemente in Italia con il titolo La crisi della modernità.
Harvey individuava nella nozione di flessibilità il perno della
ristrutturazione economica neoliberista che in quegli anni si affermava
compiutamente, attraverso un processo di progressiva deregolamentazione e
integrazione del mercato globale.
Che la flessibilità rappresenti un
elemento cruciale per aziende ed enti pubblici, oggi come allora, è
chiaro anche e soprattutto dalla proliferazione di discorsi che invitano
i lavoratori ad accettare un grado di adattabilità sempre maggiore
rispetto alla disponibilità oraria, ai trasferimenti, alla variazione
delle mansioni – nonché, implicitamente, anche al salario percepito.
La
flessibilità è in effetti, per il capitalismo contemporaneo, qualcosa di
più di un semplice obiettivo a cui tendere, costituendo un vero e
proprio paradigma che pervade la produzione di beni e servizi a tutti i
livelli.
L’esternalizzazione attraverso la pratica del subappalto – outsourcing, in inglese – rappresenta, in questo contesto, uno dei principali processi funzionali a massimizzare la flessibilità di uno specifico apparato produttivo.
L’outsourcing è oggi una pratica estremamente diffusa nella produzione di beni e servizi in ambito sia privato che pubblico, costituendo la cifra distintiva di un modello produttivo non più basato sul controllo diretto dei diversi processi interni a un’azienda, ma piuttosto sull’integrazione di un’ampia rete di fornitori dislocati su scala locale e globale.
L’outsourcing è anche, d’altra parte, uno strumento capace di ridurre drasticamente il costo del lavoro – attraverso lo spostamento delle attività produttive in aree caratterizzate da bassi salari e scarsità, se non totale assenza, di diritti sindacali – e di disarticolare il potere di contrattazione dei lavoratori, nella misura in cui alla frammentazione della forza lavoro corrisponde quella della sua capacità di azione collettiva.
In tempi recenti, la diffusione capillare della tecnologia digitale come bene di consumo di massa ha creato quelle che sono state definite, in un report del 2015 della Banca Mondiale, come nuove e inedite opportunità per avviare rapporti di collaborazione alternativi alle modalità di impiego tradizionali.
Il report si riferisce al fenomeno dell’online outsourcing, cioè alla creazione di piattaforme online funzionali a veicolare massicci processi di esternalizzazione a vantaggio delle aziende coinvolte – le quali sono oggi in grado, attraverso l’uso di queste piattaforme, di attingere costantemente da un vasto bacino di forza lavoro flessibile e a basso costo.
Si tratta di un fenomeno ancora lontano dalla ribalta mediatica dedicata ad altre piattaforme che rientrano nel quadro della cosiddetta gig economy – quali, ad esempio, Airbnb, Uber e le piattaforme di delivery – tuttavia non privo di una certa consistenza numerica: il report citato stima che, nel corso del 2015, i lavoratori iscritti a piattaforme di online outsourcing fossero circa 48 milioni, numero verosimilmente aumentato in modo considerevole a oggi e destinato, con ogni probabilità, a crescere in maniera esponenziale nei prossimi anni.
Le tipologie di servizi alle aziende che possono essere esternalizzati attraverso le piattaforme di online outsourcing sono molteplici: dallo sviluppo di software al supporto tecnico, dalla traduzione di testi alla verifica di contenuti web, fino alle operazioni più semplici di riconoscimento immagini e trascrizione di file audio, generalmente funzionali all’implementazione di algoritmi con cui interagiamo quotidianamente – dall’assistente vocale dello smartphone ai motori di ricerca online – attraverso processi di machine learning.
Alcune tra le principali piattaforme attraverso cui possono essere svolte queste operazioni sono – per citare quattro dei maggiori esempi – Freelancer, Upwork, Figure Eight e Amazon Mechanical Turk.
La logica unitaria che le accomuna è quella di frammentare il processo produttivo in singole task (compiti), in modo che un’azienda si trovi nelle condizioni di pagare solamente per il lavoro utile a far fronte a specifiche esigenze, eliminando la necessità di investimenti strutturali e garantendo la massima flessibilità possibile.
Come sottolineato chiaramente da Jeff Bezos nella presentazione di Amazon Mechanical Turk alla conferenza del Mit nel 2006, le operazioni eseguite all’interno della piattaforma potrebbero anche essere svolte da un call-center, struttura che, tuttavia, «per risultare conveniente [deve svolgere] una notevole quantità di lavoro» e richiede «grosse spese generali per la sua organizzazione e realizzazione».
In altre parole, è possibile ridurre drasticamente i costi della fornitura di determinati servizi alle aziende attraverso l’uso delle piattaforme di online outsourcing, che incentivano lo smantellamento di strutture permanenti – e la conseguente smobilitazione dei lavoratori – collegate a una specifica azienda.
L’erogazione di questi servizi diventa, all’interno delle piattaforme, completamente on-demand, incrementando la capacità dell’apparato produttivo di fluttuare in sincronia con l’andamento variabile del mercato.
I lavoratori che operano all’interno di queste piattaforme vengono sempre inquadrati come collaboratori autonomi, in modo da eliminare gli oneri contrattuali e previdenziali a carico delle aziende.
Non solo le piattaforme di online outsourcing configurano una nuova forma di precariato estremo, totalmente votato a soddisfare i bisogni transitori delle aziende – che possono mutare o scomparire con la stessa velocità con la quale sono apparsi – ma generano anche una stretta notevole sui salari percepiti dai lavoratori.
È stato stimato che, nel corso del 2016, il salario medio di un lavoratore di Amazon Mechanical Turk negli Stati uniti fosse di 4.65 dollari l’ora, a fronte di un minimo federale previsto di 7.25 dollari.
Su Crowdflower – nome precedente dell’attuale Figure Eight – lo stipendio medio orario, stavolta a livello globale, era di soli 94 centesimi di dollari.
Anche su una piattaforma come Freelancer, dove il prezzo delle task non è necessariamente determinato a priori dall’azienda committente, si assiste comunemente alla partecipazione degli utenti ad aste al ribasso per accaparrarsi l’incarico, in una spirale di costante svalutazione dei salari a esclusivo vantaggio delle aziende coinvolte.
Flessibilità, scalabilità, efficienza e riduzione dei costi sono dunque le parole d’ordine dell’online outsourcing, fenomeno che offre indubbiamente ottime opportunità di guadagno alle aziende ma non altrettante agli utenti, costretti a competere in un mercato del lavoro a basso costo, estremamente precario e, come se non bastasse, fortemente gerarchizzato.
All’interno di una piattaforma come Amazon Mechanical Turk i lavoratori sono soggetti alla costante valutazione delle proprie prestazioni da parte delle aziende mentre, viceversa, non esiste nessun meccanismo di valutazione delle aziende da parte dei lavoratori.
Se un utente scende sotto una determinata soglia di affidabilità a causa delle recensioni negative ricevute – spesso in maniera ingiustificata – potrebbe non essere in grado di accedere a determinate task, generalmente quelle meglio pagate, che richiedono una soglia di affidabilità piuttosto elevata (una abbastanza comune è del 90%).
Come se non bastasse, all’interno di Amazon Mechanical Turk un’azienda può decidere unilateralmente di non pagare il lavoro svolto, qualora lo ritenga inadeguato, senza che abbia luogo alcun controllo esterno sul suo operato.
Ciò significa, di fatto, che le aziende si trovano nella posizione di truffare deliberatamente i lavoratori, appropriandosi del lavoro effettuato senza corrispondere la retribuzione prevista.
L’online outsourcing rappresenta, in ultima analisi, un fenomeno che si inserisce con perfetta coerenza nella traiettoria di crescente esternalizzazione dei processi aziendali, cifra distintiva del modello produttivo capitalista contemporaneo.
È la costante e vorace ricerca di flessibilità, produttività e abbattimento dei costi ad aver condotto alla creazione di nuove strutture produttive che non possono essere considerate una semplice conseguenza della diffusione della tecnologia digitale, ma rappresentano piuttosto il risultato scientemente perseguito di un processo di ristrutturazione economica iniziato ben prima dell’avvento di Internet, e che ha trovato in esso un terreno straordinariamente fertile da colonizzare.
È inevitabilmente il lavoro umano a fare le spese di questo processo, non soltanto perché precario e sottopagato, ma anche in quanto svuotato della dignità che dovrebbe essergli propria.
L’idea proposta, ancora da Bezos alla conferenza del Mit, che Amazon Mechanical Turk sia in grado di trasformare le persone in un servizio (people-as-a-service) è, probabilmente, l’esempio più pregnante dello svuotamento di valore umano e sociale che le piattaforme di online outsourcing producono sul lavoro umano.
I lavoratori non sono qui considerati «risorse umane» e nemmeno semplici individui che forniscono un servizio, ma diventano essi stessi il servizio – o meglio, vengono ridotti a esso.
Il tentativo è quello di annullare la soggettività umana riducendo il lavoratore alle sue prestazioni, in quello sforzo descritto da Dipesh Charkrabarty in Provincializzare l’Europa come tendente a «sostituire quanto più lavoro possibile con lavoro morto, oggettivato», che si concretizza attraverso la gerarchizzazione e individualizzazione del lavoro nello spazio virtuale.
Le piattaforme di online outsourcing sembrano dunque costituire un dispositivo capace di coronare il sogno capitalista di ottenere la massima flessibilità e produttività a fronte della minima spesa e responsabilità sociale.
Questa realtà emergente pone una sfida inedita alle capacità di organizzazione collettiva dei lavoratori, che necessitano oggi di soluzioni innovative per affrontare le nuove forme di precariato digitale.
*Lorenzo De Lellis è laureato all’università di Bologna con una tesi sull’esternalizzazione dei servizi di information technology tramite piattaforme online. Si interessa di capitalismo digitale, promuovendo attivamente l’analisi critica delle nuove strutture in cui si declina.
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