mercoledì 27 novembre 2019

Il Meccanismo Europeo di Stabilità e i volti della lotta di classe.

jepcoloss

Lo si capisce perché, al di là delle sfumature, dicono tutti e tre la stessa cosa: il progetto di riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) mette in pericolo la stabilità finanziaria dell’Italia, piuttosto che tutelarla. Tante sfumature, dicevamo. Il Governatore Visco, solitamente ingessato nel linguaggio istituzionale tipico di Bankitalia, parla fuori dai denti di un “enorme rischio” connesso alla riforma, evocando le “terribili conseguenze” dei primi accordi tra i Paesi europei in tema di ristrutturazione del debito pubblico. 

Secondo Giampaolo Galli (Confindustria e PD, scusate la ripetizione) 
“una ristrutturazione preventiva sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori … un evento di gran lunga peggiore di ciò che l’Italia ha vissuto negli ultimi anni a causa dei fallimenti di alcune banche … una calamità immensa, generebbe distruzione di risparmio, fallimenti di banche e imprese, disoccupazione di massa e impoverimento della popolazione senza precedenti nel dopoguerra.” 
La descrizione dell’apocalisse, che ha destato tanto allarme perché uscita dalla bocca di un economista liberista e uomo delle istituzioni come Galli. 
In confronto, le urla dei variopinti leghisti assomigliano ai capricci di un bambino.
E come un bambino, la più grande forza populista e “antisistema” del Paese scarica tutta la sua rabbia in un hashtag, #stopMES, tirando la volata al cinguettio infuriato del capitano contro “l’alto tradimento” delle autorità italiane che sottoscriveranno il patto di riforma del MES nelle sedi europee.

Insomma, un fuoco di fila trasversale agli schieramenti politici contro l’ultima evoluzione della governance europea che si va profilando già da molti mesi, e che abbiamo già avuto modo di analizzare ben prima che si alzasse questo polverone, non appena furono chiariti i principali aspetti della riforma. Già, perché i pilastri di questo nuovo capitolo del meccanismo disciplinante istituito dall’Unione Europea per imporre l’austerità fiscale attraverso il ricatto del debito pubblico sono stati definiti dal consesso europeo a cui partecipavano i membri del governo giallo-verde, nel primo semestre dell’anno. 
La Lega di governo era in prima fila a stendere il tappeto rosso al perfezionamento del MES, e non sembrava così preoccupata – come twitta oggi, dai banchi dell’opposizione – dei rischi per la stabilità finanziaria dell’Italia. In altre parole, Salvini e soci hanno lavorato concretamente alla preparazione di questa riforma del MES che tanti danni potrebbe provocare al Paese. Visco e Galli, per parte loro, hanno accompagnato le loro dure parole al riconoscimento della necessità di una riforma complessiva del MES, ponendo le basi perché l’attuale pacchetto concordato a livello europeo arrivi comunque a destinazione, magari con qualche minimo correttivo. 

Fonti di Bankitalia hanno infatti precisato alla Reuters, subito dopo le allarmanti parole del Governatore, che “Visco non ha espresso un giudizio sfavorevole sulla riforma del Mes, ha invece messo in guardia sui rischi inerenti all’assunzione di eventuali ulteriori iniziative future relative all’operatività del Mes in assenza di una riforma complessiva della governance economica dell’area dell’euro”. 

E Galli, nella medesima audizione in cui evocava l’apocalisse, ci tiene subito a precisare che “Il MES è una istituzione preziosa perché ha dato un contributo decisivo per risolvere le crisi di paesi che avevano perso l’accesso al mercato … non solo ci protegge in caso di crisi, ma anche riduce la probabilità che la crisi si verifichi … rappresenta una notevole manifestazione di solidarietà dei paesi più solidi dell’Eurozona, a cominciare dalla Germania che è il suo principale contribuente, nei confronti dei paesi più fragili, tra cui il nostro.” 
Leghisti e liberisti si dimenano, così, tra amore e odio per questa dibattuta riforma del MES.
Proviamo dunque a smarcarci dalle schermaglie politiche, e andiamo a ricercare il comune denominatore delle principali forze politiche italiane che il dibattito sul MES rivela. Proviamo a capire cosa unisce, nella sostanza, Borghi e Visco, Bagnai e Galli, fuori dalle false contrapposizioni su cui entrambi gli schieramenti costruiscono il loro consenso.

Il MES è un fondo finanziato da una serie di Paesi europei che nasce per fornire sostegno ai Paesi che incorrono in una crisi del debito pubblico
 È oggi pienamente operativo ed è già intervenuto nei salvataggi di Grecia, Cipro, Irlanda, Spagna e Portogallo. 
La caratteristica principale del MES è la sua capacità di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza per i paesi in crisi: quando un Paese perde l’accesso ai mercati, perché non riesce più a piazzare i propri titoli del debito pubblico o perché riesce a farlo solo a tassi di interesse proibitivi, può chiedere l’intervento di questo fondo europeo. 
Il MES è dunque l’ultima possibilità che un Paese ha per finanziare il proprio debito pubblico prima di dichiarare default.

L’essenza del MES sta nella condizionalità dei suoi interventi: se vuoi l’aiuto del fondo, devi promettere – sottoscrivendo un apposito ‘Memorandum of Understanding’ – che ti comporterai bene, cioè a dire che applicherai entro scadenze tassative una serie di politiche di austerità concordate con le istituzioni europee. 
Ad ogni taglio alla spesa pubblica, ad ogni nuova tassa, insomma ad ogni misura di austerità introdotta corrisponderà una tranche del prestito. In questo senso, si può parlare del MES come di un meccanismo capace di disciplinare le economie europee facendo leva sul ricatto del debito pubblico. Ed è importante sottolineare che tutto questo è già perfettamente operativo. Ciò di cui si discute è un ulteriore perfezionamento del meccanismo, ossia un affinamento della tecnica disciplinante che all’interno dell’Eurozona impone l’austerità come prezzo da pagare per non essere abbandonati alla speculazione finanziaria.
La riforma cambia alcune importanti procedure di questo meccanismo, potenziandolo, ma non ne altera la natura. Nel caso passi così come anche i leghisti l’hanno concordata in sede europea, prevede rilevanti novità. In primis, in caso di richiesta di aiuto al MES, un Paese sarà sottoposto ad un’analisi di sostenibilità del debito pubblico condotta sia dalla Commissione che dal fondo, con l’importante precisazione che la prima si comporta come un’istituzione pubblica sovranazionale, chiamata a tutelare (almeno sulla carta) gli interessi di stabilità e crescita dei Paesi membri, mentre il MES agisce per statuto come un qualsiasi creditore privato (“from the perspective of a lender”), cioè a dire con il solo interesse al rimborso delle somme prestate, a prescindere dagli impatti dell’operazione sulla stabilità finanziaria e sulla crescita del debitore. Se l’analisi conclude che il debito pubblico del Paese è sostenibile nel lungo periodo, il prestito viene concesso senza troppi vincoli; al contrario, in caso di giudizio negativo sulla sostenibilità, il prestito potrà accompagnarsi a condizioni molto stringenti e addirittura a ipotesi di ristrutturazione del debito.
Uno dei punti critici della proposta di riforma è proprio legata alla menzione dell’ipotesi di ristrutturazione, denominata “private sector involvement”: se il MES giudica il debito pubblico del Paese in crisi insostenibile, potrebbe decidere di concedere il prestito solo dopo che il Paese abbia tagliato una parte di quel debito, a discapito dei detentori dei titoli in circolazione. È bene precisare che questa ristrutturazione del debito non equivale, tecnicamente, ad un default. Nella ristrutturazione si ottiene il consenso dei creditori, mentre nel caso di default il debitore dichiara unilateralmente che non pagherà i propri debiti, infliggendo una perdita al creditore – volente o nolente. E sul consenso dei creditori interviene un’altra misura che potrebbe accompagnare la riforma del MES. Oggi quel consenso deve essere ottenuto attraverso due distinte votazioni: devono accettare il taglio sia una maggioranza qualificata dei detentori del debito pubblico di quel Paese, sia una maggioranza qualificata dei detentori degli specifici titoli che si andrebbero a ristrutturare. Il debito pubblico viene emesso sotto forma di titoli che sono suddivisi in diverse serie, ciascuna con le proprie caratteristiche in termini di scadenza e rendimento. Il taglio del debito è, nei fatti, il taglio di alcune delle serie in circolazione. Nell’attuale configurazione delle clausole che disciplinano le ipotesi di ristrutturazione, le CACs (Clausole di Azione Collettiva), vi è quindi la possibilità che si formino tra i creditori minoranze di blocco, e che dunque la ristrutturazione del debito pubblico diventi difficile da realizzarsi. Quando votano i detentori del debito pubblico nel suo complesso, infatti, è probabile che prevalga il punto di vista dei grandi investitori, che detengono la maggioranza del debito pubblico in circolazione, e spesso questi operatori preferiscono accettare la ristrutturazione, perché traggono profitto dall’ordinato rifinanziamento del debito pubblico nel lungo periodo, e non da singole operazioni speculative. I grandi investitori sanno che quel che perdono nella singola “battaglia” della ristrutturazione sarà sempre meno di quello che perderebbero da un avvitamento della crisi, e dalla “guerra” che un default scatenerebbe. Al contrario, quando si passa alla votazione della singola serie di titoli da sforbiciare, potrebbe emergere un gruppo di investitori minori interessati a portare a casa i profitti sui pochi titoli sottoscritti, e dunque contrari alla ristrutturazione. Per questo, le proposte in discussione prevedono la modifica delle CACs, che diventerebbero “single-limb”, cioè ad una gamba sola: sarebbe richiesta, ai fini della ristrutturazione, la sola votazione dei detentori del debito pubblico in generale, dove prevalgono i grandi, e non anche il consenso dei detentori delle singole serie di titoli da ristrutturare.
In buona sostanza, le ristrutturazioni del debito diventerebbero più facili da realizzare, e questo è un problema per le finanze pubbliche. Quando i creditori sottoscrivono i titoli del debito pubblico, chiedono in cambio un tasso di interesse che rispecchi i rischi di svalutazione di quell’attività finanziaria: se, per via di una maggiore probabilità di ristrutturazioni, i titoli di Stato italiani diventano più rischiosi, questo si rifletterà in un maggiore costo del debito pubblico. Cresce lo spread, l’Italia perde la stabilità finanziaria e, come per magia, si trova costretta a chiedere aiuto proprio al MES. Dunque il combinato disposto della riforma del MES – che contempla ipotesi di ristrutturazioni in esito all’analisi di sostenibilità – e delle modifiche proposte per le CACs – che rendono più facili quelle ristrutturazioni – può creare un vortice di instabilità finanziaria che costringe il Paese a sottoscrivere un Memorandum of Understanding per ottenere i finanziamenti del MES: sarebbe il commissariamento formale dell’Italia, il destino greco che aleggia su tutta la periferia europea dall’inizio della crisi.
Nulla di buono, quindi, da questa riforma del MES per l’Italia. È il settore finanziario del Paese, nel suo complesso, che soffrirebbe gli effetti negativi della riforma: molte banche di piccole e medie dimensioni, che oggi detengono ingenti quantità di titoli di Stato, rischiano di vedere una parte consistente del loro patrimonio svalutato in poche settimane. Questo segmento della finanza nazionale è il blocco sociale che spinge per addolcire la riforma, introducendo correttivi utili a difendere gli interessi italiani: si tratta di un blocco sociale preciso, fatto di banche e istituzioni finanziarie che operano su scala nazionale e che sarebbero indebolite rispetto alle grandi banche internazionali, le cui fortune sono già slegate dai destini del debito pubblico italiano. Lega, PD, Bankitalia si trovano così a difendere un interesse nazionale per difendere un interesse di classe specifico, quello del piccolo e medio capitale finanziario italiano. In questo caso, tale interesse si sovrappone all’interesse dei lavoratori almeno sotto due importanti profili. Tra BTP e quote di fondi di risparmio gestito che investono in titoli di Stato, le famiglie italiane hanno circa il 40% della loro ricchezza finanziaria costituita da titoli del debito pubblico italiano, e dunque sarebbero danneggiate sensibilmente da un peggioramento del loro corso. In altre parole, nell’istante in cui si ratifica un trattato che afferma che si può – e in certi casi si deve – ristrutturare il debito, il prezzo dei titoli di Stato che incorpora quel rischio si riduce, provocando una erosione di ricchezza delle famiglie. In secondo luogo, la pressione politica che l’instabilità finanziaria necessariamente produce si scaricherebbe principalmente, tramite l’applicazione rigida dell’austerità, sulla classe dei lavoratori.
Per queste ragioni sembra auspicabile, da un punto di vista di classe, alzare le barricate sulla strada che condurrà, nei prossimi mesi, a varare il pacchetto di riforme della governance europea. Ma le nostre barricate non possono essere le stesse della Lega. Il motivo è semplice, ma sviscerarlo può aiutarci a capire perché, tutto sommato, le principali forze politiche parlamentari rappresentano una falsa opposizione al nuovo meccanismo di ricatto del debito, al di là delle loro dichiarazioni roboanti e al di là dei singoli palliativi che troveranno per limitare i danni della riforma all’economia italiana. Soprattutto, può aiutarci a spiegare l’ambivalente posizione dei leghisti, che ieri, al governo, hanno predisposto insieme alle autorità europee il disegno di riforma del MES e oggi, non più al governo, fingono una radicale opposizione a quella stessa misura.
Il perfezionamento dell’architettura istituzionale europea che è implicito nella riforma del MES porterà ad accelerare i processi di trasformazione economica e sociale che il progetto politico dell’Unione europea impone. Quel progetto è un vero e proprio programma di lotta di classe dall’alto verso il basso, e mira principalmente a disarmare i lavoratori – distruggendo lo stato sociale e schiacciandoli sotto il ricatto della disoccupazione e della precarietà – e favorire lo sfruttamento e l’accumulazione di profitto nelle mani di pochi. Ma la classe dei lavoratori non è l’unica vittima di questa metamorfosi della società europea. Destinato all’estinzione sembra anche un segmento della classe capitalista che è composto dai capitali piccoli e medi, che operano a livello nazionale e non hanno assecondato il lungo e violento processo di globalizzazione dei mercati: quel pezzo di borghesia, in Italia molto rilevante dal punto di vista sociale, soffre il declino della domanda interna, il crollo dei consumi ed i processi di centralizzazione dei capitali a favore dei grandi gruppi europei e internazionali. E si tratta di un segmento trasversale all’industria e alla finanza. Se nel ventennio passato abbiamo visto morire – tra fallimenti, acquisizioni e delocalizzazioni – buona parte del tessuto industriale del Paese, da qualche anno iniziamo ad assistere ai primi scricchiolii di quei settori della finanza italiana che vivevano più dell’economia dei territori che delle operazioni internazionali. Esattamente quel pezzo di finanza che sarebbe tramortito dal colpo che la riforma del MES infliggerà ai titoli di Stato italiani. È un blocco sociale che ha ancora il potere di costringere il Governatore della Banca d’Italia ad alzare la voce contro l’Europa, e la Lega ad alzare barricate, ma è destinato a soccombere alla storia dell’integrazione europea.
Non è il nostro blocco sociale, perché quel pezzo di finanza ha beneficiato dello sfruttamento del lavoro insieme al resto della classe capitalista italiana fintantoché ha potuto, e oggi si appella ad un presunto interesse nazionale solo perché è vittima di un capitalismo transnazionale che lo divora, investito da un gigantesco progetto di centralizzazione dei capitali che miete vittime in tutta la periferia europea. Inoltre, è un blocco sociale destinato a perire nel corso della realizzazione del disegno politico portato avanti dall’Unione Europea. Per questa ragione, i Galli e i Visco, i Salvini e i Borghi non possono offrirgli che una parvenza di difesa, palliativi, perché le forze politiche che si muovo dietro a questi personaggi hanno scelto chiaramente da che parte stare. Non c’è bisogno di specificare, qui, che il PD e Bankitalia sono i più rigorosi interpreti dell’applicazione del progetto politico europeo in Italia. La Lega ha una storia diversa. Nasce come espressione di quella classe di piccole e medie imprese del nord-est che oggi è schiacciata dalla concorrenza internazionale, dalla globalizzazione dei mercati e dal crollo della domanda interna. Ma nel corso degli anni più recenti diventa altro, ed oggi – dopo la prova del governo gialloverde – ha scelto chiaramente la più ampia compatibilità con il disegno europeista. Dalla Lega, dunque, non può sorgere alcuna reale opposizione all’evoluzione della governance europea. Possono attaccare il singolo ingranaggio, ma sono parte integrante del meccanismo europeo nato per sfruttare i lavoratori e disintegrare la piccola e media impresa.
Il problema, difatti, non è la riforma del MES in sé. Il nostro problema è il progetto di integrazione europea tutto, ed il singolo tassello della riforma del MES non rappresenta altro che un passaggio, tra tanti, di un percorso politico che sta schiacciando i lavoratori. Opporsi alla riforma del MES senza chiarire che anche senza quella riforma il nostro Paese è sottoposto al ricatto del debito significa proporre una forma nuova di compatibilità con l’Europa. Pezzi di sinistra radicale hanno per anni raccontato la favola della riformabilità dell’Europa, la possibilità di trasformare la brutta Europa dell’austerità nella bella Europa dei popoli. Ci tocca adesso sentire la favola dell’Europa senza riforme: la destra di oggi ci racconta che l’Europa di adesso – senza riforma del MES – sarebbe tutto sommato accettabile. Nulla di più assurdo, e basterebbe guardare alla Grecia, messa con le spalle al muro quando ancora non esisteva neppure la versione odierna del MES. Nella retorica di Salvini – ecco il reale contenuto politico della Lega oggi – sembra possibile immaginare un’Europa che non ricatti i lavoratori usando l’arma del debito pubblico, un’Europa rispettosa dell’interesse nazionale italiano, magari a discapito di qualche privilegio oggi accordato ai tedeschi. L’ennesima utopia letale per i lavoratori, oltre che per il blocco sociale storico della Lega, che Salvini sta sacrificando sull’altare della piena compatibilità con l’Unione Europea.
Chi prova a difendere l’Italia dalla riforma del MES senza mettere in discussione il progetto di integrazione europea nel suo complesso ha già deciso da che parte stare, condannando la piccola borghesia alla proletarizzazione ed i lavoratori alla povertà e alla precarietà. C’è dunque solo un’opposizione valida alla minacciosa riforma del MES: è la critica radicale che mira a rompere l’intero meccanismo disciplinante incarnato dall’Unione Europea.

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