Lo si capisce perché, al di là delle sfumature, dicono tutti e tre la
stessa cosa: il progetto di riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità
(MES) mette in pericolo la stabilità finanziaria dell’Italia, piuttosto
che tutelarla. Tante sfumature, dicevamo. Il Governatore Visco,
solitamente ingessato nel linguaggio istituzionale tipico di
Bankitalia, parla fuori dai denti di un “enorme rischio” connesso alla
riforma, evocando le “terribili conseguenze” dei primi accordi tra i
Paesi europei in tema di ristrutturazione del debito pubblico.
Secondo Giampaolo Galli
(Confindustria e PD, scusate la ripetizione)
“una ristrutturazione
preventiva sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei
risparmiatori … un evento di gran lunga peggiore di ciò che l’Italia ha
vissuto negli ultimi anni a causa dei fallimenti di alcune banche … una
calamità immensa, generebbe distruzione di risparmio, fallimenti di
banche e imprese, disoccupazione di massa e impoverimento della
popolazione senza precedenti nel dopoguerra.”
La descrizione
dell’apocalisse, che ha destato tanto allarme perché uscita dalla bocca
di un economista liberista e uomo delle istituzioni come Galli.
In
confronto, le urla dei variopinti leghisti assomigliano ai capricci di
un bambino.
E come un bambino, la più grande forza populista e
“antisistema” del Paese scarica tutta la sua rabbia in un hashtag, #stopMES, tirando la volata al cinguettio
infuriato del capitano contro “l’alto tradimento” delle autorità
italiane che sottoscriveranno il patto di riforma del MES nelle sedi
europee.
Insomma, un fuoco di fila trasversale agli schieramenti politici contro l’ultima evoluzione della governance europea che si va profilando già da molti mesi, e che abbiamo già avuto modo di analizzare
ben prima che si alzasse questo polverone, non appena furono chiariti i
principali aspetti della riforma. Già, perché i pilastri di questo
nuovo capitolo del meccanismo disciplinante istituito dall’Unione
Europea per imporre l’austerità fiscale attraverso il ricatto del debito
pubblico sono stati definiti dal consesso europeo a cui partecipavano i
membri del governo giallo-verde, nel primo semestre dell’anno.
La Lega
di governo era in prima fila a stendere il tappeto rosso al
perfezionamento del MES, e non sembrava così preoccupata – come twitta
oggi, dai banchi dell’opposizione – dei rischi per la stabilità
finanziaria dell’Italia. In altre parole, Salvini e soci hanno lavorato
concretamente alla preparazione di questa riforma del MES che tanti
danni potrebbe provocare al Paese. Visco e Galli, per parte loro, hanno
accompagnato le loro dure parole al riconoscimento della necessità di
una riforma complessiva del MES, ponendo le basi perché l’attuale
pacchetto concordato a livello europeo arrivi comunque a destinazione,
magari con qualche minimo correttivo.
Fonti di Bankitalia hanno infatti precisato alla Reuters,
subito dopo le allarmanti parole del Governatore, che “Visco non ha
espresso un giudizio sfavorevole sulla riforma del Mes, ha invece messo
in guardia sui rischi inerenti all’assunzione di eventuali ulteriori
iniziative future relative all’operatività del Mes in assenza di una
riforma complessiva della governance economica dell’area dell’euro”.
E Galli, nella medesima audizione in cui evocava l’apocalisse, ci tiene subito a precisare
che “Il MES è una istituzione preziosa perché ha dato un contributo
decisivo per risolvere le crisi di paesi che avevano perso l’accesso al
mercato … non solo ci protegge in caso di crisi, ma anche riduce la
probabilità che la crisi si verifichi … rappresenta una notevole
manifestazione di solidarietà dei paesi più solidi dell’Eurozona, a
cominciare dalla Germania che è il suo principale contribuente, nei
confronti dei paesi più fragili, tra cui il nostro.”
Leghisti e
liberisti si dimenano, così, tra amore e odio per questa dibattuta
riforma del MES.
Proviamo dunque a smarcarci dalle schermaglie
politiche, e andiamo a ricercare il comune denominatore delle principali
forze politiche italiane che il dibattito sul MES rivela. Proviamo a
capire cosa unisce, nella sostanza, Borghi e Visco, Bagnai e Galli,
fuori dalle false contrapposizioni su cui entrambi gli schieramenti
costruiscono il loro consenso.
Il MES è un fondo finanziato da
una serie di Paesi europei che nasce per fornire sostegno ai Paesi che
incorrono in una crisi del debito pubblico.
È oggi pienamente
operativo ed è già intervenuto nei salvataggi di Grecia, Cipro, Irlanda,
Spagna e Portogallo.
La caratteristica principale del MES è la sua
capacità di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza per i
paesi in crisi: quando un Paese perde l’accesso ai mercati, perché non
riesce più a piazzare i propri titoli del debito pubblico o perché
riesce a farlo solo a tassi di interesse proibitivi, può chiedere
l’intervento di questo fondo europeo.
Il MES è dunque l’ultima
possibilità che un Paese ha per finanziare il proprio debito pubblico
prima di dichiarare default.
L’essenza del MES sta nella condizionalità dei
suoi interventi: se vuoi l’aiuto del fondo, devi promettere –
sottoscrivendo un apposito ‘Memorandum of Understanding’ – che ti
comporterai bene, cioè a dire che applicherai entro scadenze tassative
una serie di politiche di austerità concordate con le istituzioni
europee.
Ad ogni taglio alla spesa pubblica, ad ogni nuova tassa,
insomma ad ogni misura di austerità introdotta corrisponderà una tranche
del prestito. In questo senso, si può parlare del MES come di un
meccanismo capace di disciplinare le economie europee facendo leva sul
ricatto del debito pubblico. Ed è importante sottolineare che tutto
questo è già perfettamente operativo. Ciò di cui si discute è un
ulteriore perfezionamento del meccanismo, ossia un affinamento della
tecnica disciplinante che all’interno dell’Eurozona impone l’austerità
come prezzo da pagare per non essere abbandonati alla speculazione
finanziaria.
La riforma cambia alcune
importanti procedure di questo meccanismo, potenziandolo, ma non ne
altera la natura. Nel caso passi così come anche i leghisti l’hanno
concordata in sede europea, prevede rilevanti novità. In primis,
in caso di richiesta di aiuto al MES, un Paese sarà sottoposto ad
un’analisi di sostenibilità del debito pubblico condotta sia dalla
Commissione che dal fondo, con l’importante precisazione che la prima si
comporta come un’istituzione pubblica sovranazionale, chiamata a
tutelare (almeno sulla carta) gli interessi di stabilità e crescita dei
Paesi membri, mentre il MES agisce per statuto come un qualsiasi
creditore privato (“from the perspective of a lender”),
cioè a dire con il solo interesse al rimborso delle somme prestate, a
prescindere dagli impatti dell’operazione sulla stabilità finanziaria e
sulla crescita del debitore. Se l’analisi conclude che il debito
pubblico del Paese è sostenibile nel lungo periodo, il prestito viene
concesso senza troppi vincoli; al contrario, in caso di giudizio
negativo sulla sostenibilità, il prestito potrà accompagnarsi a
condizioni molto stringenti e addirittura a ipotesi di ristrutturazione
del debito.
Uno dei punti critici della proposta di riforma è proprio legata alla menzione dell’ipotesi di ristrutturazione, denominata “private sector involvement”:
se il MES giudica il debito pubblico del Paese in crisi insostenibile,
potrebbe decidere di concedere il prestito solo dopo che il Paese abbia
tagliato una parte di quel debito, a discapito dei detentori dei titoli
in circolazione. È bene precisare che questa ristrutturazione del debito
non equivale, tecnicamente, ad un default. Nella ristrutturazione si ottiene il consenso dei creditori, mentre nel caso di default
il debitore dichiara unilateralmente che non pagherà i propri debiti,
infliggendo una perdita al creditore – volente o nolente. E sul consenso
dei creditori interviene un’altra misura che potrebbe accompagnare la
riforma del MES. Oggi quel consenso deve essere ottenuto attraverso due
distinte votazioni: devono accettare il taglio sia una maggioranza
qualificata dei detentori del debito pubblico di quel Paese, sia una
maggioranza qualificata dei detentori degli specifici titoli che si
andrebbero a ristrutturare. Il debito pubblico viene emesso sotto forma
di titoli che sono suddivisi in diverse serie, ciascuna con le proprie
caratteristiche in termini di scadenza e rendimento. Il taglio del
debito è, nei fatti, il taglio di alcune delle serie in circolazione.
Nell’attuale configurazione delle clausole che disciplinano le ipotesi
di ristrutturazione, le CACs (Clausole di Azione Collettiva), vi è
quindi la possibilità che si formino tra i creditori minoranze di
blocco, e che dunque la ristrutturazione del debito pubblico diventi
difficile da realizzarsi. Quando votano i detentori del debito pubblico
nel suo complesso, infatti, è probabile che prevalga il punto di vista
dei grandi investitori, che detengono la maggioranza del debito pubblico
in circolazione, e spesso questi operatori preferiscono accettare la
ristrutturazione, perché traggono profitto dall’ordinato rifinanziamento
del debito pubblico nel lungo periodo, e non da singole operazioni
speculative. I grandi investitori sanno che quel che perdono nella
singola “battaglia” della ristrutturazione sarà sempre meno di quello
che perderebbero da un avvitamento della crisi, e dalla “guerra” che un default
scatenerebbe. Al contrario, quando si passa alla votazione della
singola serie di titoli da sforbiciare, potrebbe emergere un gruppo di
investitori minori interessati a portare a casa i profitti sui pochi
titoli sottoscritti, e dunque contrari alla ristrutturazione. Per
questo, le proposte in discussione prevedono la modifica delle CACs, che
diventerebbero “single-limb”, cioè ad una gamba sola: sarebbe
richiesta, ai fini della ristrutturazione, la sola votazione dei
detentori del debito pubblico in generale, dove prevalgono i grandi, e
non anche il consenso dei detentori delle singole serie di titoli da
ristrutturare.
In buona sostanza, le ristrutturazioni del debito diventerebbero più facili da realizzare,
e questo è un problema per le finanze pubbliche. Quando i creditori
sottoscrivono i titoli del debito pubblico, chiedono in cambio un tasso
di interesse che rispecchi i rischi di svalutazione di quell’attività
finanziaria: se, per via di una maggiore probabilità di
ristrutturazioni, i titoli di Stato italiani diventano più rischiosi,
questo si rifletterà in un maggiore costo del debito pubblico. Cresce lo
spread, l’Italia perde la stabilità finanziaria e, come per
magia, si trova costretta a chiedere aiuto proprio al MES. Dunque il
combinato disposto della riforma del MES – che contempla ipotesi di
ristrutturazioni in esito all’analisi di sostenibilità – e delle
modifiche proposte per le CACs – che rendono più facili quelle
ristrutturazioni – può creare un vortice di instabilità finanziaria che
costringe il Paese a sottoscrivere un Memorandum of Understanding per
ottenere i finanziamenti del MES: sarebbe il commissariamento formale
dell’Italia, il destino greco che aleggia su tutta la periferia europea
dall’inizio della crisi.
Nulla di buono, quindi, da questa riforma del MES per l’Italia.
È il settore finanziario del Paese, nel suo complesso, che soffrirebbe
gli effetti negativi della riforma: molte banche di piccole e medie
dimensioni, che oggi detengono ingenti quantità di titoli di Stato,
rischiano di vedere una parte consistente del loro patrimonio svalutato
in poche settimane. Questo segmento della finanza nazionale è il blocco
sociale che spinge per addolcire la riforma, introducendo correttivi
utili a difendere gli interessi italiani: si tratta di un blocco sociale
preciso, fatto di banche e istituzioni finanziarie che operano su scala
nazionale e che sarebbero indebolite rispetto alle grandi banche
internazionali, le cui fortune sono già slegate dai destini del debito
pubblico italiano. Lega, PD, Bankitalia si trovano così a difendere un
interesse nazionale per difendere un interesse di classe specifico,
quello del piccolo e medio capitale finanziario italiano. In questo
caso, tale interesse si sovrappone all’interesse dei lavoratori almeno
sotto due importanti profili. Tra BTP e quote di fondi di risparmio
gestito che investono in titoli di Stato, le famiglie italiane hanno
circa il 40% della loro ricchezza finanziaria costituita da titoli del
debito pubblico italiano, e dunque sarebbero danneggiate sensibilmente
da un peggioramento del loro corso. In altre parole, nell’istante in cui
si ratifica un trattato che afferma che si può – e in certi casi si
deve – ristrutturare il debito, il prezzo dei titoli di Stato che
incorpora quel rischio si riduce, provocando una erosione di ricchezza
delle famiglie. In secondo luogo, la pressione politica che
l’instabilità finanziaria necessariamente produce si scaricherebbe
principalmente, tramite l’applicazione rigida dell’austerità, sulla
classe dei lavoratori.
Per queste ragioni sembra auspicabile, da
un punto di vista di classe, alzare le barricate sulla strada che
condurrà, nei prossimi mesi, a varare il pacchetto di riforme della governance
europea. Ma le nostre barricate non possono essere le stesse della
Lega. Il motivo è semplice, ma sviscerarlo può aiutarci a capire perché,
tutto sommato, le principali forze politiche parlamentari rappresentano
una falsa opposizione al nuovo meccanismo di ricatto del debito, al di
là delle loro dichiarazioni roboanti e al di là dei singoli palliativi
che troveranno per limitare i danni della riforma all’economia italiana.
Soprattutto, può aiutarci a spiegare l’ambivalente posizione dei
leghisti, che ieri, al governo, hanno predisposto insieme alle autorità
europee il disegno di riforma del MES e oggi, non più al governo,
fingono una radicale opposizione a quella stessa misura.
Il perfezionamento dell’architettura
istituzionale europea che è implicito nella riforma del MES porterà ad
accelerare i processi di trasformazione economica e sociale che il
progetto politico dell’Unione europea impone. Quel progetto è un vero e
proprio programma di lotta di classe dall’alto verso il basso, e mira
principalmente a disarmare i lavoratori – distruggendo lo stato sociale e
schiacciandoli sotto il ricatto della disoccupazione e della precarietà
– e favorire lo sfruttamento e l’accumulazione di profitto nelle mani
di pochi. Ma la classe dei lavoratori non è l’unica vittima di questa
metamorfosi della società europea. Destinato all’estinzione sembra anche
un segmento della classe capitalista che è composto dai capitali
piccoli e medi, che operano a livello nazionale e non hanno assecondato
il lungo e violento processo di globalizzazione dei mercati: quel pezzo
di borghesia, in Italia molto rilevante dal punto di vista sociale,
soffre il declino della domanda interna, il crollo dei consumi ed i
processi di centralizzazione dei capitali a favore dei grandi gruppi
europei e internazionali. E si tratta di un segmento trasversale
all’industria e alla finanza. Se nel ventennio passato abbiamo visto
morire – tra fallimenti, acquisizioni e delocalizzazioni – buona parte
del tessuto industriale del Paese, da qualche anno iniziamo ad assistere
ai primi scricchiolii di quei settori della finanza italiana che
vivevano più dell’economia dei territori che delle operazioni
internazionali. Esattamente quel pezzo di finanza che sarebbe tramortito
dal colpo che la riforma del MES infliggerà ai titoli di Stato
italiani. È un blocco sociale che ha ancora il potere di costringere il
Governatore della Banca d’Italia ad alzare la voce contro l’Europa, e la
Lega ad alzare barricate, ma è destinato a soccombere alla storia
dell’integrazione europea.
Non è il nostro blocco sociale, perché
quel pezzo di finanza ha beneficiato dello sfruttamento del lavoro
insieme al resto della classe capitalista italiana fintantoché ha
potuto, e oggi si appella ad un presunto interesse nazionale solo perché
è vittima di un capitalismo transnazionale che lo divora, investito da
un gigantesco progetto di centralizzazione dei capitali che miete
vittime in tutta la periferia europea. Inoltre, è un blocco sociale
destinato a perire nel corso della realizzazione del disegno politico
portato avanti dall’Unione Europea. Per questa ragione, i Galli e i
Visco, i Salvini e i Borghi non possono offrirgli che una parvenza di
difesa, palliativi, perché le forze politiche che si muovo dietro a
questi personaggi hanno scelto chiaramente da che parte stare. Non c’è
bisogno di specificare, qui, che il PD e Bankitalia sono i più rigorosi
interpreti dell’applicazione del progetto politico europeo in Italia. La
Lega ha una storia diversa. Nasce come espressione di quella classe di
piccole e medie imprese del nord-est che oggi è schiacciata dalla
concorrenza internazionale, dalla globalizzazione dei mercati e dal
crollo della domanda interna. Ma nel corso degli anni più recenti
diventa altro, ed oggi – dopo la prova del governo gialloverde – ha
scelto chiaramente la più ampia compatibilità con il disegno europeista.
Dalla Lega, dunque, non può sorgere alcuna reale opposizione
all’evoluzione della governance europea. Possono attaccare il
singolo ingranaggio, ma sono parte integrante del meccanismo europeo
nato per sfruttare i lavoratori e disintegrare la piccola e media
impresa.
Il problema, difatti, non è la riforma del MES in sé. Il nostro problema è il progetto di integrazione europea
tutto, ed il singolo tassello della riforma del MES non rappresenta
altro che un passaggio, tra tanti, di un percorso politico che sta
schiacciando i lavoratori. Opporsi alla riforma del MES senza
chiarire che anche senza quella riforma il nostro Paese è sottoposto al
ricatto del debito significa proporre una forma nuova di compatibilità
con l’Europa. Pezzi di sinistra radicale hanno per anni raccontato la
favola della riformabilità dell’Europa, la possibilità di trasformare la
brutta Europa dell’austerità nella bella Europa dei popoli. Ci tocca
adesso sentire la favola dell’Europa senza riforme: la destra di oggi ci
racconta che l’Europa di adesso – senza riforma del MES – sarebbe tutto
sommato accettabile. Nulla di più assurdo, e basterebbe guardare alla
Grecia, messa con le spalle al muro quando ancora non esisteva neppure
la versione odierna del MES. Nella retorica di Salvini – ecco il reale
contenuto politico della Lega oggi – sembra possibile immaginare
un’Europa che non ricatti i lavoratori usando l’arma del debito
pubblico, un’Europa rispettosa dell’interesse nazionale italiano, magari
a discapito di qualche privilegio oggi accordato ai tedeschi.
L’ennesima utopia letale per i lavoratori, oltre che per il blocco
sociale storico della Lega, che Salvini sta sacrificando sull’altare
della piena compatibilità con l’Unione Europea.
Chi prova a difendere l’Italia dalla
riforma del MES senza mettere in discussione il progetto di integrazione
europea nel suo complesso ha già deciso da che parte stare, condannando
la piccola borghesia alla proletarizzazione ed i lavoratori alla
povertà e alla precarietà. C’è dunque solo un’opposizione valida alla
minacciosa riforma del MES: è la critica radicale che mira a rompere
l’intero meccanismo disciplinante incarnato dall’Unione Europea.
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