Dopo trent’anni di egemonica narrazione neoliberista, alla fine della storia scopriamo lavori precari e ad intermittenza, working poor e, più in generale, nuovi poveri che faticano ad arrivare a fine mese. E pensare che in passato, a parità di mansioni e di titolo di studio, si guadagnava maggiormente: ma qual è la causa di questa drammatica svalutazione salariale? Un convincente libro di Marta e Simone Fana (Laterza) ci accompagna all’uscita di questo lungo tunnel.
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micromega Domenico Tambasco
“Nessuno mi aveva detto che si puo’ lavorare come muli, e forse di più, e tuttavia affondare nei debiti e nella miseria”[1]: si tratta della quasi incredula conclusione di una giovane giornalista americana, Barbara Ehrenreich, autrice agli inizi del nuovo millennio dell’inchiesta giornalistica “Una paga da fame. Come non si arriva a fine mese nel paese più ricco del mondo”.
Siamo nella patria del neoliberismo e del mercato perfetto, nel paese che ha decretato la “fine della storia” dopo il crollo del muro di Berlino.
Eppure, per dirla con Slavoj Zizek[2], ci sono dei problemi anche in Paradiso.
Sono passati circa vent’anni da allora e, quasi si trattasse di una “globalizzazione editoriale”, vede la luce nel nostro panorama editoriale un libro dal titolo quasi identico, “Basta salari da fame”, scritto da Marta e Simone Fana[3]. È il curioso e tangibile effetto dell’“internazionale del lavoro povero” generato dall’ideologia del TINA, per cui non ci sarebbe alcuna alternativa ai dettami delle Troike di varia estrazione e provenienza.
Laddove impera l’ideologia ed il pensiero unico neoliberista (ovvero in quasi tutto il globo terrestre) gli effetti sono i medesimi: esplosione delle disuguaglianze, crisi della rappresentanza politica e sindacale, egemonia dei populismi, distruzione delle tutele lavorative attraverso la precarizzazione e diffusione del lavoro povero per mezzo della “svalutazione salariale”.
Quello di Simone e Marta è un lavoro fondamentale: dà una spiegazione storica al deprimente punto di arrivo odierno del lavoro, destruttura i teoremi neoliberisti che si dimostrano per quello che sono, ovvero vetusti arnesi ideologici unicamente finalizzati alla conquista del potere politico, presenta una prima concreta proposta politica per l’inversione del “piano inclinato” su cui sta rotolando, verso il precipizio, il lavoro.
E tutto questo, meritoriamente, lo fanno opponendo dati (cioè fatti) alla pioggia di menzogne quotidianamente propinate dal pensiero unico dominante. Ve ne propongo alcuni che, nella loro crudezza, cercano di scuotere coscienze ormai narcotizzate.
Uno è noto: la continua ed imperterrita caduta della quota dei salari rapportata al Pil nel ventennio 1995/2016, ovverosia nel periodo della “liquefazione del lavoro” caratterizzato dalle molteplici “riforme” che hanno precarizzato il mondo del lavoro. Si guadagna meno di vent’anni fa[4].
Altri dati colpiscono, nella loro grigia freddezza: sono plastiche raffigurazioni esposte in un autentico museo degli orrori neoliberisti.
Abbiamo i laureati -entrati nel mercato del lavoro italiano subito dopo la liberalizzazione dei contratti a termine introdotta dal decreto legislativo n. 368/2001- che ricevono salari inferiori rispetto ai colleghi con lo stesso livello di istruzione ma entrati nel mercato del lavoro prima del 2001, poiché l’utilizzo dei contratti a termine esercita un impatto negativo sulla produttività del lavoro e sui salari medi pagati dalle imprese, ma non sui profitti. Le imprese preferiscono diminuire la produttività ed i salari, pur di accrescere i profitti[5].
Abbiamo l’esplosione dei lavoratori precari nell’ultimo ventennio (soprattutto a tempo determinato e a part-time involontario), che ha condotto l’Italia -al di là dei luoghi comuni- ad essere il paese al vertice delle classifiche sul doppio lavoro e sulle ore lavorate nei giorni festivi: ovvero lavorare tanto perché si guadagna poco[6].
Abbiamo i clamorosi dati relativi al settore pubblico -ad espressione che la precarizzazione è trasversale, coinvolgendo tanto il privato quanto il pubblico- da cui emerge come da un lato le retribuzioni dei non dirigenti diminuiscano da 33.140 euro annui a 31.606 euro, mentre dall’altro quelle dei dirigenti aumentino da 70.220 ad 80.719, con un accrescimento della forbice da 2,11 a 2,5[7]. Gli effetti della meritocrazia, diranno i soloni delle leggi di mercato, nonostante i disastrosi risultati anche recenti -vedi la vergogna del Mose-, siano sotto gli occhi di tutti.
Questo popolo di precari poveri, di cui pullula il mercato del lavoro, costituisce l’anima del tessuto produttivo italiano, ridotto alla “terziarizzazione povera”: un sistema produttivo, quello nazionale, in cui la parte del leone è recitata dal settore dei servizi ad alto contenuto di manodopera dove il lavoro è mediamente pagato meno di 9 euro lordi l’ora, fino ad arrivare ai 4,40 euro lordi del settore dei “servizi fiduciari”[8].
E’ l’Italia delle esternalizzazioni, in cui la produzione di beni e servizi viene disgregata in migliaia di appalti e subappalti ed il rischio di impresa dei “capitani coraggiosi” e degli “animal spirits” raffigurati nel mito neoliberista viene scaricato definitivamente sull’ultimo anello della catena, i lavoratori, che diventano veri e propri “ammortizzatori societari”. Retribuzioni -da fame- non pagate, TFR non liquidati, contributi non versati sono gli esiti, spesso inevitabili, di molti appalti affidati al massimo ribasso cui fa seguito la vana rincorsa dei lavoratori verso committenti liquidi e sfuggenti.
È la farsa della gig economy in cui la tecnologia viene brandita come un vessillo per giustificare condizioni lavorative e salariali da prima rivoluzione industriale: si tratta, in realtà, di mere innovazioni tecnologiche di processo, in cui “la capacità di sfruttare una nuova tecnica, quella digitale, per svolgere un’attività per nulla nuova né innovativa dal punto di vista del prodotto scambiato sul mercato produce non una novità tecnologica in sé bensì una nuova organizzazione del lavoro in cui la maggior parte dei costi fissi sono a capo del lavoratore e non rappresentano più costi di produzione per l’impresa”[9]. I lavoratori si trasformano da dipendenti in fornitori di servizi, a costi infimi. Ovvero, il matrimonio tra taylorismo 4.0 ed esternalizzazione.
La soluzione, dunque, sta nel prendere coscienza, in primo luogo, che lo sconsolante status quo non è frutto né di leggi di natura universali né di leggi economiche imperiture, infallibili ed immodificabili.
Le “verità” delle società neoliberali altro non sono che decisioni politiche, scelte dettate dalla classe -sociale e dirigente-dominante[10].
Scelte di parte, che rispondono ad interessi di parte e che utilizzano strumenti di parte, come la precarizzazione e la svalutazione salariale sul fronte del lavoro, per blindare ed accrescere i profitti.
Scelte sempre modificabili e revocabili, allorché differente sarà l’assetto degli interessi e, soprattutto, la natura e la composizione della classe che conquisterà i “nomodotti”, i condotti in cui si cala la materia normativa: il potere politico.
La questione salariale - ovvero la costituzionale rivendicazione di una retribuzione sufficiente a garantire a sé ed alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa - è dunque una questione primariamente politica, ed è la prima tessera di un cammino che deve condurre alla ricostruzione della struttura repubblicana “fondata sul lavoro”.
I fratelli Fana sono pragmatici, ed avanzano in modo concreto una prima proposta: il salario minimo legale, dunque valido erga omnes, in misura non inferiore a 10 euro netti l’ora e comunque a 1.000,00 euro al mese.
Gli studi, del resto, dimostrano come l’introduzione del salario minimo legale (diffuso in ben 24 paesi dell’Ocse) non diminuisca l’occupazione -al contrario delle apodittiche tesi liberiste- ma, al contrario, la aumenti e al contempo riduca le diseguaglianze reddituali.
Si tratterebbe, peraltro, di una misura non alternativa alla contrattazione collettiva bensì complementare: infatti, laddove la misura del salario minimo legale sia almeno pari ad un livello di retribuzione decorosa (ovverosia di poco superiore al 60% della retribuzione mediana), la contrattazione collettiva ne beneficia, potendo contrattare i livelli retributivi da una posizione di partenza (“pavimento”) adeguata[11].
È una questione di volontà, di scelte e, in definitiva, di lotta politica.
Perché “quando una persona lavora in cambio di una paga
inferiore a quella necessaria per vivere, quando una donna, per esempio,
mangia poco e male in modo che noi possiamo mangiare meglio e a meno,
quella donna ha compiuto un grande sacrificio per noi, ci ha fatto dono
di una parte delle sue capacità, della sua salute e della sua vita. I
poveri che lavorano, come vengono benevolmente definiti, sono in realtà i
grandi benefattori della nostra società……Un giorno i poveri che
lavorano si stuferanno di ricevere così poco in cambio e pretenderanno
di essere di essere pagati per ciò che valgono. Quel giorno, la rabbia
esploderà e assisteremo a scioperi e distruzioni. Ma non sarà la fine
del mondo e, dopo, staremo meglio tutti quanti”[12].
NOTE
[1] Barbara Ehrenreich, Una paga da fame, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 152.
[2] Slavoj Zizek, Problemi in Paradiso, Firenze, Ponte alle Grazie, 2015.
[3] Marta e Simone Fana, Basta salari da fame, Bari, Laterza, 2019.
[4] Marta e Simone Fana, Basta salari da fame, cit., p. 38-39.
[5] Marta e Simone Fana, Basta salari da fame, cit., p. 45.
[6] Marta e Simone Fana, Basta salari da fame, cit., p. 46.
[7] Marta e Simone Fana, Basta salari da fame, cit., p. 65-66.
[8] Marta e Simone Fana, Basta salari da fame, cit., pp. 74 e ss.
[9] Marta e Simone Fana, Basta salari da fame, cit., p. 99
[10] Marta e Simone Fana, Basta salari da fame, cit., pp. 145-146
[11] Marta e Simone Fana, Basta salari da fame, cit., pp. 115 e ss.
[12] Barbara Ehrenreich, Una paga da fame, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 153
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