Abbiamo iniziato a occuparci di economia circolare ben ventidue anni fa.
Era il 23 aprile 1999 e nella Sala Santi avevamo invitato i principali centri di ricerca tra cui il Fraunhofer-Institut für Systemtechnik und Innovationsforschung (ISI) di Karlsruhe e gli studiosi che si occupavano di ciò che allora definivamo “economia dei cicli chiusi”.
La chiusura dei cicli produttivi, di energia e dei rifiuti, fin da allora, la consideravamo strumento e strategia verso la coesione sociale e territoriale, la qualità della vita e del lavoro in Italia e in Europa.
Nel corso di quella conferenza internazionale, ci ponevamo le seguenti domande, a cui ancora oggi stiamo cercando di dare risposta attraverso tutta la nostra attività negoziale, sia a livello nazionale che decentrato:
è possibile coniugare la competitività e l’occupazione con la necessità di far fronte alle sfide ambientali?
Quale modello di sviluppo adottare da opporre a quello di mera crescita economica?
Quali sono le condizioni che permettono l’implementazione di questi modelli e di questi processi?
Quali sono le implicazioni?
Quali sistemi regolativi adottare a sfondo di questi processi?
Fin da allora, mettevamo in discussione i tradizionali modelli di crescita economica basati su processi di produzione lineari, dissipativi di risorse materiali e immateriali, ragionando sulla necessità di nuovi modelli di sviluppo basati sulla chiusura dei cicli dei materiali e delle risorse.
Nell’economia circolare, quindi, identificavamo i principi per ridefinire la crescita e, quindi, un nuovo modello di sviluppo che implicasse il graduale disaccoppiamento dell’attività economica dal consumo di risorse non-rinnovabili e dalla produzione di rifiuti favorendo una transizione verso fonti di energia rinnovabile e la valorizzazione e rigenerazione del capitale economico, naturale e sociale.
Passare da modelli produttivi basati sulla “produzione-consumo-
La sfida era notevole: strategie di politica industriale volte all’economia circolare implicano orientare gli attori socio-economici a ridefinire le regole dell’organizzazione del lavoro, del sistema tecnologico e della produzione, dei rapporti a monte e a valle l’impresa e tra le aziende delle diverse filiere industriali.
È passato molto tempo da allora, e la crisi economica e sociale prodotta dai cambiamenti climatico, richiede da parte dei governi - e di corpi intermedi come il sindacato - analisi lucide e una decisa assunzione di responsabilità di fronte a una situazione mondiale sempre più complessa.
Durante anni in cui la discussione di politica economica e monetaria si è polarizzata sulle alternative tra Stato (dirigismo) e Mercato (concorrenza), avvertiamo la necessità di passare da una logica industriale dell’efficienza, del dirigismo e della competitività sfrenata, a una logica post-industriale volta ai benefici per gli utilizzatori, all’innovazione economica e sociale e a un cambiamento strutturale e istituzionale che faccia perno sulla collaborazione interistituzionale e la partecipazione sociale.
In questa prospettiva, intendiamo l’innovazione come cambiamento strutturale e come processo di apprendimento interattivo o collettivo, all’interno delle imprese, nei cluster territoriali, nelle reti/filiere produttive e, in generale, a livello sociale/istituzionale per creare nuove produzioni in una cornice strategica di “alta via all’innovazione”.
L’economia circolare si inquadra quindi, per noi, in una più generale strategia di politica economica orientata ai cittadini, al territorio, alle persone. Al modello della politica Ue centrata sulla politica monetaria e dei bilanci pubblici, riteniamo indispensabile, su scala europea e nazionale, far leva su un terzo strumento di politica economica che è la politica “industriale”.
Nel tempo, le strategie e gli strumenti della politica industriale sono mutati al variare delle diverse fasi di sviluppo (fordismo, specializzazione flessibile, coproduzione, co-creazione) e degli approcci di tipo politico (dirigismo o competizione). La strategia di politica industriale che, per noi, può far da cornice allo sviluppo dell’economia circolare nei nostri territori fa contestualmente leva sulle reti di centri di competenza, sui milieu locali di innovazione, sulle smart specializations, sull’infrastrutturazione smart delle nostre filiere produttive.
Da Nord a Sud d’Italia, possiamo contare su svariati esempi, in cui le nostre strutture confederali tra modelli di produzione lineare di beni e servizi hanno sostenuto l’importanza di quella circolare: a La Spezia e a Livorno, ad esempio, le Camere del Lavoro locali hanno sostenuto la realizzazione di un biodigestore anaerobico volto a migliorare il recupero di risorse dai rifiuti, fino ad arrivare da ultimo alla distribuzione (gratis, o a tariffe molto agevolate a seconda dei casi) dell’energia prodotta dal recupero del biogas ai cittadini e alle imprese locali.
A Ravenna abbiamo proposto, alla discussione pubblica, la realizzazione di un impianto di captazione nell’area industriale del petrolchimico di Ravenna per “catturare” l’anidride carbonica prodotta dai siti industriali. Così come, a livello nazionale, nell’audizione parlamentare sul decreto cosiddetto “Crescita” (Decreto-legge n. 34 del 30 aprile 2019 - Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi) il 9 maggio 2019, abbiamo presentato una Piattaforma unitaria in cui esprimevamo l’esigenza di prevedere maggiori investimenti pubblici e una nuova politica industriale che sostenesse la domanda interna e non l’offerta, orientata al sostegno delle nuove filiere strategiche – soprattutto legate alla green economy, all’economia circolare e allo sviluppo sostenibile – per incrementare anche gli investimenti privati, le competenze e le professionalità, l’occupazione e i salari.
Qui, tuttavia, vorrei inquadrare queste iniziative in una cornice più generale: quella della negozialità della politica industriale e dell’innovazione a livello territoriale. Come noto, l’obiettivo generale delle politiche industriali è quello di orientare l’economia verso direzioni “condivise” dal punto di vista economico (favorendone l’efficienza), sociale (dando risposta a bisogni sociali incoraggiando eguaglianza equità e inclusione), ambientale (assicurando la sostenibilità), politico (proteggendo particolari interessi nazionali) di contesto (istruzione, conoscenze, infrastrutture, materie prime, indispensabili per lo sviluppo di nuovi settori.
Posto che tali obiettivi non possano essere raggiunti dai comportamenti privati degli operatori sui mercati e, soprattutto perché la loro complessità implica la possibilità che essi siano in conflitto tra loro, le politiche industriali presuppongono una condivisione multiattoriale tra Stato, Mercato e Società dello sviluppo socio-territoriale e richiedono la presenza di istituzioni che abbiano le competenze e gli strumenti per realizzarle.
Mai come oggi, gli orientamenti e l’implementazione delle politiche industriali sono caratterizzate da alti livelli di complessità e capziosità, in quanto coinvolgono diversi attori sociali e comunità con valori, interessi, significati e prospettive spesso divergenti. La loro caratterizzazione value-driven mette quindi in discussione l’applicazione dei tradizionali approcci problem solving che, ai vari livelli istituzionali, dal macro al micro, tendono alla centralità delle decisioni.
Quando, come Cgil, parliamo di politiche industriali volte ai cittadini, ai territori e alle persone, facendo perno sulla collaborazione interistituzionale e sulla partecipazione sociale, ci riferiamo a un modello di governance multilivello della politica industriale che promuova un’economia inclusiva e circolare a partire dai nostri territori. Il nostro modello di intervento è dunque implementabile a partire dalla negozialità territoriale dell’innovazione.
Soprattutto negli ultimi 35 anni, il modello di sviluppo mainstream conta su modalità di accumulazione estrattive e tarate sul breve periodo. Le sue principali leve - liberalizzazione dei mercati di beni e servizi e dei mercati finanziari, la liberalizzazione del mercato del lavoro, i processi di privatizzazione – hanno acuito la disconnessione dell’azione economica dalle esigenze della riproduzione sociale: innanzitutto dal lavoro, strumento identitario ma anche medium fondamentale della distribuzione del reddito e della cittadinanza sociale; dai tempi lunghi della riproduzione sociale, a beneficio di dinamiche di massimizzazione del rendimento del capitale nel breve periodo; una disconnessione, infine, dallo spazio (dai luoghi, dai territori) della riproduzione sociale, rincorrendo la continua ricomposizione delle catene del valore su scala globale al fine del dumping sociale (riduzione dei costi del lavoro e di elusione dei vincoli regolativi nazionali e regionali).
In Italia, ad esempio, in un contesto cioè tradizionalmente connotato dalla diffusione della piccola e media impresa, la regolazione dei processi è definita in ragione di esigenze di accumulazione “estrattiva” e finance-based, poste dalle imprese-guida a fornitori e sub-fornitori attraverso dinamiche di estrazione di valore sul piano della regolazione e dell’organizzazione del lavoro.
Sotto questo profilo, soprattutto a partire dagli anni Novanta, la riorganizzazione delle catene di valore globale ha prodotto posizioni di comodo nel trattamento del lavoro: i processi di disintegrazione verticale sono infatti avvenuti frammentando i processi di produzione in una miriade di soggettività giuridiche diverse attraverso forme di elusione istituzionale con la quale i datori di lavoro potessero estrarre valore aggiunto aggirando vincoli e sottraendosi alle proprie responsabilità.
Questa transizione neo-liberista, breve-periodista e di natura “estrattiva”, offre un contesto che sta potenzialmente dequalificando le persone a praticare scambi simmetrici win win in cui le parti che collaborano, possano - tutte - trarne vantaggio. Nella misura in cui la disuguaglianza materiale isola le persone, la frammentazione del lavoro rende più superficiali i contatti con l’altro, l’insicurezza sociale e la complessità della crisi climatica ed economica sta innescando l’angoscia per il cambiamento e, in generale, le differenze tra le persone sono ridotte e omologate al pensiero unico del profitto e della profittabilità.
A questo modello “estrattivo” di risorse, consci delle sfide economiche e sociali derivanti dalla crisi climatica e ambientale globale, a livello territoriale, dalla più piccola Camera del Lavoro del sud d’Italia alla Camera del Lavoro Metropolitana di Milano, la Cgil sta opponendo un modello di politica industriale inclusivo e circolare attraverso processi di negozialità “generativa e capacitante”: attraverso alleanze strategiche, specie con università e centri di ricerca, attraverso la contrattazione formale e informale, iniziative e progetti, stiamo avviando sul territorio procedure e pratiche in cui negoziamo e condividiamo, in primis, una visione di futuro.
Nei territori in cui il nostro Sindacato sta sostenendo strumenti e pratiche di economia circolare e di innovazione sociale, sono stati, innanzitutto, attivati processi e progetti che stanno “riconoscendo”, connettendo e gradualmente portando “a sintesi” innanzitutto i valori e gli interessi in gioco diversamente attribuiti dagli attori sociali alle risorse e alle vocazioni del proprio territorio.
In questa cornice, le nuove tecnologie digitali diventano “abilitanti” di nuove relazioni territoriali e di empowerment sociale, specie laddove il sindacato riesce a ripensarsi e a riconoscersi il nuovo ruolo che è chiamato a svolgere per far fronte alle sfide socioeconomiche.
In materia di politica industriale e di innovazione, in molti territori, il ruolo che giochiamo travalica il perimetro tradizionale sindacale di rappresentanza e rappresentatività: l’uso intelligente e generativo delle reti digitali, infatti, sta creando nuovi spazi di azione negoziale confederale, in cui stanno prendendo forma relazioni sociali multiattoriali di condivisione delle risorse, delle conoscenze e dei problemi da affrontare per creare (e propagare) significati, progetti e percorsi condivisi.
Nel modello di relazioni industriali di rappresentazione diffusa degli interessi a livello territoriale, l’utilizzo sindacale delle nuove tecnologie digitali, in molti casi, allarga la rete di relazioni della confederalità territoriale aprendola anche a nuovi attori, a nuove figure di rappresentati a livello urbano e a una nuova rappresentanza di bisogni, configurando modalità comunicative partecipate, con lo scopo di condividere, e poi, di assumere di volta in volta, decisioni e strategie, creando nuovi spazi di interlocuzione, di condivisione e di progettualità con gli altri stakeholders locali.
Laddove si stanno restringendo gli spazi di governance locale delle politiche del lavoro e dello sviluppo, queste iniziative sembrano sostituire con efficacia i tradizionali strumenti dei contratti d’area e i patti territoriali di una stagione concertativa ormai al tramonto.
Ormai da decenni può dirsi conclusa la fase propulsiva del fordismo, capace di combinare alta occupazione e crescita del Prodotto Interno Lordo dei nostri Paesi grazie all’aumento della produzione e degli investimenti mirati solo su l’offerta e perseguita ad alti costi ambientali. Così come è cresciuta la percezione sociale degli effetti di questa crescita sfrenata, che ha portato al superamento dei limiti invalicabili delle risorse del nostro pianeta e alla perdita di diversità biologica, della stabilità climatica di cui non si possono più negare gli effetti retroattivi sui sistemi economici e sociali a tutte le latitudini del globo.
Un modello di politica industriale volto ai cittadini, ai territori e alle persone richiede, dunque, da parte di un corpo intermedio come il Sindacato, di perseguire l’innovazione socio-territoriale uscendo dai tradizionali spazi di rappresentanza e rappresentatività sindacale che facevano perno strettamente sulla fabbrica infra muros e sui settori produttivi.
Si tratta, da parte nostra, di aprirsi a tutta la filiera dei diritti di cittadinanza e del lavoro negoziando circuiti virtuosi di economia circolare, innovazione sociale e occupazione affinché le capacità immaginative e progettuali dei nostri territori, verso un futuro inclusivo e solidale, possano esprimere il loro potenziale.
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