venerdì 1 novembre 2019

Giurare al fascismo? All’università in 12 dissero di no.

1 novembre 1931
 

«Giuro di essere fedele al re, ai suoi reali successori, al regime fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere tutti i doveri accademici. […] Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concili coi doveri del mio ufficio». 

E’ il passaggio chiave dell’articolo 18 (toh, un 18 come quello del ministro Sacconi) del decreto-legge intitolato «Disposizioni sull’istruzione superiore» che prevede appunto: 
«I professori di ruolo e i professori incaricati sono tenuti a prestare giuramento secondo la formula seguente…». 
Dal 1 novembre 1931 bisogna firmare o si perde il posto.
Solo 12 (su 1250) professori universitari rifiutano. 
Ecco i loro nomi: Francesco ed Edoardo Ruffini, Fabio Luzzatto (erano tre giuristi), Giorgio Levi Della Vida (orientalista), Gaetano De Sanctis (noto storico), Ernesto Buonaiuti (teologo in odore di eresia, già nei guai per le critiche al Concordato), Vito Volterra (matematico), Bartolo Nigrisoli (chirurgo), l’antropologo Marco Carrara, un famoso storico dell’arte cioè Lionello Venturi, il chimico Giorgio Errera e Piero Martinetti (studioso di filosofia).

Chi più chi meno, tutti i 12 passarono i loro guai o lasciarono l’Italia. 
Le conseguenze non erano da poco: perdita della cattedra, pensione al minimo, persecuzioni e una vigilanza oppressiva.
Le loro storie restano nell’ombra anche dopo la caduta del fascismo. 
Solo dopo 70 anni escono, quasi in contemporanea, due libri: «Preferirei di no» di Giorgio Boatti e «Il giuramento rifiutato (I docenti universitari e il regime fascista)» del tedesco Helmut Goetz.
Una “sporca dozzina” di persone molto differenti per ceto sociale, carattere, idee politiche e interessi sociali: socialisti e liberali, repubblicani e monarchici, ebrei e cattolici. Non particolarmente sovversivi. 
Anzi i docenti più a sinistra seguirono il consiglio di Togliatti, il capo dell’allora Pci, che li invitò a giurare, così avrebbero potuto svolgere – si spiegò – un lavoro educativo utile al partito e all’antifascismo.
Anche gli oppositori liberali del fascismo, in testa Benedetto Croce, scelsero di firmare mentre papa Pio XI (pare su idea di padre Gemelli) consigliò i docenti cattolici di giurare «ma con riserva interiore». 
Del resto il Vaticano era molto grato a Mussolini (definito «uomo della provvidenza») per il Concordato. 
E anche la disputa – proprio nel 1931 – sull’abolizione dell’Azione Cattolica si era chiusa, in pochi mesi, con un “compromesso”: lo Stato fascista riconosceva l’Azione Cattolica a patto che non accogliesse antifascisti.
Qualcuno conta 13 ribelli anziché 12 ricordando che da Cambridge l’economista Piero Sraffa, proprio il 1 novembre 1931, comunicò al ministro dell’Educazione Nazionale le sue dimissioni da ordinario di Economia politica a Cagliari.
Anche un paio di antifascisti illustri scelsero la pensione anticipata piuttosto che giurare: bei gesti certo ma non dello stesso tenore. 
Fra i più esposti c’era il filosofo Martinetti che quando Lelio Basso (già condannato al confino di Ponza) si presentò all’esame gli aveva detto: «Io non ho alcun diritto di interrogarla sull’etica kantiana, resistendo a un regime di oppressione lei ha dimostrato di conoscerla molto bene. Qui il maestro è lei. Vada pure, trenta e lode».

Dopo la Liberazione, i 12 (11 anzi, perché uno di loro era morto prima che cadesse il fascismo) non ebbero riconoscimenti, anzi trovarono in cattedra ben saldi molti fascisti dichiarati e per nulla pentiti. Fra i loro colleghi antifascisti alcuni si erano riscattati, durante la Resistenza, da quel giuramento mentre altri erano rimasti nel dorato castello delle idee. 
In ogni caso nessuna discussione pubblica: l’università – come del resto l’Italia – non gradisce le discontinuità. E forse non ama neanche il vero coraggio.
Particolare la vicenda di Ernesto Bonaiuti. Solo per un anno (neppure… morì il 20 aprile 1946) visse in un’Italia liberata dai boia fascisti e dai Savoia. Il 25 gennaio 1925 fu scomunicato per aver preso le difese del Movimento modernista. Nel ’29, grazie al Concordato fra Stato e Chiesa, perse la cattedra ma conservò piccole collaborazioni con l’università; nel 1931 venne estromesso definitivamente da ogni ateneo.
Sotto-sotto una delle sue colpe – anche in ambito cattolico – era il “sanguemisto” visto che il padre era un mezzo giudeo, un quarto o forse 10 gocce di giudeo. 
Quei pochi mesi che Bonaiuti visse in una nuova Italia certo gli riaprirono il cuore eppure ebbe modo di constatare che quella libertà era zoppa perché – unico fra i docenti radiati e finalmente riammessi all’insegnamento – venne escluso dall’università statale sulla base di un’applicazione del Concordato che prevedeva il divieto, per un sacerdote scomunicato, di occupare una cattedra …. in una università dello Stato. 
E ben pochi si indignarono.

A quei 12 presto dimenticati bisogna forse contrapporre i «10» cioè gli intoccabili medici e scienziati (per così dire) che nel 1938 sottoscrissero il «Manifesto della razza». 
Perché non vennero rimossi dalle cattedre universitarie alla caduta del fascismo, ma reintegrati nei loro privilegi? 
Se lo è chiesto Franco Cuomo nel libro «I dieci» dove fornisce prove certe del ruolo non soltanto teorico ma operativo da loro ricoperto: incontri a Berlino con Himmler, Hess e gli altri carnefici del Reich ma anche visite ai campi di sterminio.
Come scrive Cuomo: «Nessuno dimentichi i dieci scienziati del ’38. Nessuno li perdoni. Si chiamavano Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco ed Edoardo Zavattari. 
Legittimarono la deportazione in Germania di ottomila persone, fra cui 700 bambini. Volevano dimostrare che esistono esseri inferiori. 
E ci riuscirono, in prima persona. Perché lo furono».

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