1 novembre 1931
«Giuro
di essere fedele al re, ai suoi reali successori, al regime fascista,
di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di
esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere tutti i doveri
accademici. […] Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o
partiti, la cui attività non si concili coi doveri del mio ufficio».
E’ il passaggio chiave dell’articolo 18 (toh, un 18 come quello del ministro Sacconi) del decreto-legge intitolato «Disposizioni sull’istruzione superiore» che prevede appunto:
«I professori di ruolo e i professori incaricati sono tenuti a prestare giuramento secondo la formula seguente…».
Dal 1 novembre 1931 bisogna firmare o si perde il posto.
Solo 12 (su 1250) professori universitari rifiutano.
Ecco i loro nomi: Francesco ed Edoardo Ruffini, Fabio Luzzatto (erano tre giuristi), Giorgio Levi Della Vida (orientalista), Gaetano De Sanctis (noto storico), Ernesto Buonaiuti (teologo in odore di eresia, già nei guai per le critiche al Concordato), Vito Volterra (matematico), Bartolo Nigrisoli (chirurgo), l’antropologo Marco Carrara, un famoso storico dell’arte cioè Lionello Venturi, il chimico Giorgio Errera e Piero Martinetti (studioso di filosofia).
Chi
più chi meno, tutti i 12 passarono i loro guai o lasciarono l’Italia.
Le conseguenze non erano da poco: perdita della cattedra, pensione al
minimo, persecuzioni e una vigilanza oppressiva.
Le
loro storie restano nell’ombra anche dopo la caduta del fascismo.
Solo
dopo 70 anni escono, quasi in contemporanea, due libri: «Preferirei di no» di Giorgio Boatti e «Il giuramento rifiutato (I docenti universitari e il regime fascista)» del tedesco Helmut Goetz.
Una
“sporca dozzina” di persone molto differenti per ceto sociale,
carattere, idee politiche e interessi sociali: socialisti e liberali,
repubblicani e monarchici, ebrei e cattolici. Non particolarmente
sovversivi.
Anzi i docenti più a sinistra seguirono il consiglio di
Togliatti, il capo dell’allora Pci, che li invitò a giurare, così
avrebbero potuto svolgere – si spiegò – un lavoro educativo utile al
partito e all’antifascismo.
Anche
gli oppositori liberali del fascismo, in testa Benedetto Croce,
scelsero di firmare mentre papa Pio XI (pare su idea di padre Gemelli)
consigliò i docenti cattolici di giurare «ma con riserva interiore».
Del
resto il Vaticano era molto grato a Mussolini (definito «uomo della
provvidenza») per il Concordato.
E anche la disputa – proprio nel 1931 –
sull’abolizione dell’Azione Cattolica si era chiusa, in pochi mesi, con
un “compromesso”: lo Stato fascista riconosceva l’Azione Cattolica a
patto che non accogliesse antifascisti.
Qualcuno
conta 13 ribelli anziché 12 ricordando che da Cambridge l’economista
Piero Sraffa, proprio il 1 novembre 1931, comunicò al ministro
dell’Educazione Nazionale le sue dimissioni da ordinario di Economia
politica a Cagliari.
Anche
un paio di antifascisti illustri scelsero la pensione anticipata
piuttosto che giurare: bei gesti certo ma non dello stesso tenore.
Fra i
più esposti c’era il filosofo Martinetti che quando Lelio Basso (già
condannato al confino di Ponza) si presentò all’esame gli aveva detto:
«Io non ho alcun diritto di interrogarla sull’etica kantiana, resistendo
a un regime di oppressione lei ha dimostrato di conoscerla molto bene.
Qui il maestro è lei. Vada pure, trenta e lode».
Dopo
la Liberazione, i 12 (11 anzi, perché uno di loro era morto prima che
cadesse il fascismo) non ebbero riconoscimenti, anzi trovarono in
cattedra ben saldi molti fascisti dichiarati e per nulla pentiti. Fra i
loro
colleghi antifascisti alcuni si erano riscattati, durante la
Resistenza, da quel giuramento mentre altri erano rimasti nel dorato
castello delle idee.
In ogni caso nessuna discussione pubblica:
l’università – come del resto l’Italia – non gradisce le discontinuità. E
forse non ama neanche il vero coraggio.
Particolare
la vicenda di Ernesto Bonaiuti. Solo per un anno (neppure… morì il 20
aprile 1946) visse in un’Italia liberata dai boia fascisti e dai Savoia.
Il 25 gennaio 1925 fu scomunicato per aver preso le difese del
Movimento modernista. Nel ’29, grazie al Concordato fra Stato e Chiesa,
perse la cattedra ma conservò piccole collaborazioni con l’università;
nel 1931 venne estromesso definitivamente da ogni ateneo.
Sotto-sotto
una delle sue colpe – anche in ambito cattolico – era il “sanguemisto”
visto che il padre era un mezzo giudeo, un quarto o forse 10 gocce di
giudeo.
Quei pochi mesi che Bonaiuti visse in una nuova Italia certo gli
riaprirono il cuore eppure ebbe modo di constatare che quella libertà
era zoppa perché – unico fra i docenti radiati e finalmente riammessi
all’insegnamento – venne escluso dall’università statale sulla base di
un’applicazione del Concordato che prevedeva il divieto, per un
sacerdote scomunicato, di occupare una cattedra …. in una università
dello Stato.
E ben pochi si indignarono.
A
quei 12 presto dimenticati bisogna forse contrapporre i «10» cioè gli
intoccabili medici e scienziati (per così dire) che nel 1938
sottoscrissero il «Manifesto della razza».
Perché non vennero rimossi dalle cattedre universitarie alla caduta del
fascismo, ma reintegrati nei loro privilegi?
Se lo è chiesto Franco
Cuomo nel libro «I dieci» dove fornisce
prove certe del ruolo non soltanto teorico ma operativo da loro
ricoperto: incontri a Berlino con Himmler, Hess e gli altri carnefici
del Reich ma anche visite ai campi di sterminio.
Come scrive Cuomo: «Nessuno
dimentichi i dieci scienziati del ’38. Nessuno li perdoni. Si
chiamavano Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzi,
Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato
Visco ed Edoardo Zavattari.
Legittimarono la deportazione in Germania di
ottomila persone, fra cui 700 bambini. Volevano dimostrare che esistono
esseri inferiori.
E ci riuscirono, in prima persona. Perché lo furono».
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