giovedì 10 ottobre 2019

Aboliamo i super-ricchi? Suggestioni e insidie del “limitarismo”.

Vi dovrebbero essere limiti superiori alla quantità di reddito e di ricchezza che ognuno può detenere? Ingrid Robeyns, una delle più note allieve di Amartya Sen, risponde che vi è qualcosa di sbagliato se, nella società locale cui apparteniamo e nel mondo intero, alcune persone posseggono o controllano quantità estreme di denaro e di patrimoni.[1]



micromega Nicolò Bellanca
Ella chiama la sua posizione limitarismo: non è moralmente ammissibile avere più risorse di quanto sia necessario per realizzare pienamente le proprie potenzialità. Non è che avere molti soldi sia in sé spregevole, o che le persone ricche siano in quanto tali non virtuose. Piuttosto, essere troppo ricchi comporta conseguenze negative per altri valori a cui teniamo. In particolare, i super-ricchi esercitano influenze deleterie sull’eguaglianza politica e sulla possibilità di soddisfare i bisogni più urgenti.

Il primo argomento è stato sviscerato molte volte, documentando che le persone ricche sono in grado di tradurre il loro potere finanziario in potere politico attraverso una varietà di meccanismi: con l’acquisto di voti (finanziando partiti politici e singoli candidati), con lo stabilire l’agenda del processo decisionale collettivo (mediante le lobby), con l’influenzare le opinioni (controllando i media) e con il soggiogare le scelte pubbliche alle proprie esigenze (minacciando di spostare altrove gli investimenti).[2] Malgrado siano stati escogitati numerosi interventi legislativi e regolamentativi per frenare l’impatto dei super-ricchi sulla vita democratica, va riconosciuto che grande parte di questa influenza politica sfugge al funzionamento delle istituzioni formali e, quindi, può essere bloccata soltanto togliendo il carburante al motore, ovvero la super-ricchezza a coloro che, disponendone, la usano.

Il secondo argomento – quello di poter soddisfare i bisogni più urgenti – poggia su alcune constatazioni empiriche: nel nostro mondo albergano enormi sacche di povertà e di vulnerabilità, immense disparità nei luoghi e tra i luoghi, urgenti problemi di azione collettiva (tra i quali spicca il cambiamento climatico). Per affrontare questi nodi occorre procurarsi risorse finanziarie adeguate. Un antico e glorioso argomento a favore dell’imposta progressiva sul reddito, si basa sulla cosiddetta utilità marginale decrescente del denaro: se l’erario impone a Tizio e a Caio di versare un’imposta fissa di 1000 euro, ma Tizio, avendo tanti quattrini, attribuisce poca utilità a ogni singolo euro in meno, mentre Caio, disponendo di pochi soldi, conferisce elevato valore alla perdita di ciascun euro, allora l’imposta riduce molto più il benessere soggettivo di Caio. Ne segue che se desideriamo rendere più equo l’onere fiscale, occorre tassare più Tizio che non Caio. La stessa logica può essere invocata dal limitarismo. Se, oltre una certa soglia quantitativa, aggiungere denaro a quello già posseduto non contribuisce alla realizzazione di una persona, la società può valutare moralmente rilevante bloccare quel flusso e deviarlo per finanziare i bisogni collettivi più urgenti.

Il succo dell’argomentazione rimanda al principio del salvataggio, enunciato da Thomas Scanlon: se ti viene presentata una situazione in cui puoi impedire che accada qualcosa di molto brutto, o alleviare la terribile situazione di qualcuno, facendo solo un leggero (o anche moderato) sacrificio, sarebbe sbagliato non farlo.[3] Questo punto può essere rafforzato prendendo in considerazione un problema, come il cambiamento climatico, che riguarda la sopravvivenza della specie umana. Il principio da applicare, in un caso simile, è che chiunque può aiutare dovrebbe farlo; ne segue che chi detiene così tanta ricchezza da non poter con essa migliorare la propria condizione esistenziale, deve contribuire nella massima misura al salvataggio del pianeta.

A differenza della posizione per la quale è di primaria importanza morale che tutti abbiano abbastanza, Robeyns propugna dunque la tesi che nessuno deve ottenere troppo. Va osservato che questa tesi vale, se vale, indipendentemente dall’origine della super-ricchezza da eliminare: che essa provenga da straordinari talenti, da durissimo impegno, da mera fortuna, da passiva eredità o da traffici criminali, non cambiano le sue conseguenze sull’eguaglianza politica e sulla possibilità di rispondere a bisogni urgenti. Considerando quelle conseguenze, il limitarismo non si candida soltanto come dottrina morale, per la quale abbiamo il dovere di non essere troppo ricchi. Esso è anche una regola di giustizia distributiva, ed è quindi una visione politica, per la quale l’autorità pubblica costringe a rispettare la norma. Lo Stato dovrebbe tassare ogni surplus di denaro che oltrepassi la linea della piena realizzazione delle potenzialità umane, e dovrebbe riformare le istituzioni sociali ed economiche affinché non consentano alle persone di diventare super-ricche.

Vale la pena di ricordare che molti tra i più autorevoli economisti, iniziando da Keynes, hanno rimarcato che gli enormi guadagni di alcuni businessmen non sono affatto incentivi necessari per il dinamismo economico. Ad esempio, chi aspira alla funzione di amministratore delegato di una corporation, avrà ancora forti motivazioni – in termini di potere, reputazione e retribuzione – per farlo: nessuna opportunità gli verrà preclusa. Sarà una parte della ricompensa derivante dallo svolgimento di quella opportunità che sarà eliminata o che, se percepita, verrà tassata. La riduzione dei vantaggi monetari, ossia la scomparsa del super-ricco, servirà per pagare qualcosa di più importante: l’ampliamento delle opportunità per gruppi sociali disagiati, la tendenza verso l’eguaglianza politica dei cittadini e il finanziamento di problemi collettivi sui quali si gioca la sopravvivenza della specie.

Robeyns annota che il limitarismo è agnostico riguardo alla distribuzione al di sotto della linea di ricchezza – non si pronuncia su quale grado di eguaglianza debbano avere i redditi e i patrimoni tra i non ricchi –, mentre è radicale rispetto a ciò che la giustizia distributiva richiede nella parte alta della distribuzione. Per dirla con George Monbiot, «proprio come riconosciamo una linea di povertà, al di sotto della quale nessuno dovrebbe cadere, dovremmo riconoscere una linea di ricchezza, al di sopra della quale nessuno dovrebbe innalzarsi».[4]

Passando ai commenti, occorre osservare che Robeyns muove dal rifiuto di un’assunzione della scienza economica mainstream: «nessuno, se non il soggetto individuale, può valutare le proprie preferenze e il proprio livello di benessere».[5] Questo postulato immagina un soggetto pienamente autonomo nel compiere le scelte, inclusa la scelta dei gusti e dei valori; ma un simile soggetto, staccato dal contesto storico-sociale, ovviamente non esiste. Ad esso Robeyns contrappone, sulle orme di Sen, l’idea della “fioritura umana” (o eudaimonia), il termine con cui gli antichi greci chiamavano la condizione esistenziale di piena realizzazione delle proprie potenzialità.

Nella sua riflessione, il punto cruciale non è dove si può tracciare con precisione la linea della ricchezza, ma se il concetto ha senso. Ella prova ad indicare i criteri generali della soglia massima, sostenendo che le persone hanno dei funzionamenti universalmente basilari (salute fisica, salute mentale, sicurezza personale, alloggio, qualità dell’ambiente, istruzione, formazione e conoscenza, attività ricreative, tempo libero, hobby e mobilità); e che, in base al contesto storico, al luogo e al momento, è possibile stabilire quale livello dei vari funzionamenti sia ragionevole rivendicare, da parte delle persone, per “fiorire”. Calcolando quanti soldi occorrono per acquistare i beni e servizi corrispondenti al livello fissato, otteniamo la linea della “vita piena”, al di sopra della quale sta la ricchezza moralmente non giustificata. Questa linea non è dunque posta da un singolo (magari molto ricco e influente!), bensì dalla pubblica deliberazione.

Pertanto il criterio intersoggettivo di che cosa, qui ed ora, realizza le potenzialità umane di tutti e di ciascuno dovrebbe «essere stabilito dai processi democratici e dalle procedure di scelta sociale».[6] Una volta fissato, esso giustificherebbe tanto il limitarismo distributivo (per il quale non è moralmente giustificato avere “troppa” ricchezza), quanto il limitarismo politico (per cui limitare l’ammontare di ricchezza detenuta da un individuo contribuisce a realizzare uno stato di cose più giusto).[7] Tuttavia, i super-ricchi esistono e controllano gran parte delle leve del potere: ne segue, proprio per le ragioni ricordate dalla stessa Robeyns, che i processi democratici e le procedure di scelta sociale tendono ad essere svuotati. Inoltre, ogni decisione collettiva, fosse pure quasi unanimistica, rischia di togliere la libertà a coloro che non l’approvano: alcuni possono scegliere di rinunciare a qualcuno dei funzionamenti di base, non curandosi della propria salute, o credendo a superstizioni invece di istruirsi, o contestando lo svolgimento dei processi deliberativi, e tra loro possono esservi sia dei super-ricchi, sia dei cittadini comuni.

Infine, il distacco di Robeyns dal mainstream degli economisti poggia su una qualche distinzione tra le preferenze soggettive, che riguardano i desideri, e la “fioritura umana”, che concerne i bisogni (o qualche concetto apparentato). I bisogni sono giudicati più rilevanti dei desideri, poiché questi ultimi rispondono a uno stato emotivo e cercano un piacere addizionale, mentre l’esaudimento dei bisogni rappresenta un modo per esprimere i propri funzionamenti fondamentali. È, questa, una concezione essenzialistica dei Sapiens, per la quale il godimento estemporaneo va sottomesso alla ricerca della vita buona; ed è grazie ad un simile essenzialismo che l’approccio di Robeyns riesce a separare tra le azioni appropriate e quelle non necessarie, e che può sostenere che chi, avendo tanti soldi, ha già effettuato le azioni appropriate per la propria “fioritura”, deve rinunciare ai soldi con cui effettuerebbe le azioni non necessarie.

In conclusione, valgono per Robeyns queste parole: «gran parte della filosofia pubblica anglosassone è sostanzialmente tautologica. Decide aprioristicamente i valori, ma raccontandoli come res gestae della razionalità o di un’utilità niente affatto neutrale. Immagina un individuo che non esiste (anche se magari auspicabile) e battezza “razionali” le sue scelte – le scelte che il filosofo gli attribuisce ed impone».[8] Nel caso del limitarismo, siamo alle prese con una proposta tanto fascinosa quanto insidiosa. Per un verso, restiamo affascinati dall’idea, radicale e blasfema, di abolire la ricchezza e di ridurre il potere dei super-ricchi. Per l’altro verso, riconosciamo che il “giusto limite” per intervenire deriva da un approccio che un libertario non può accettare: esso darebbe forma a una società forse più eguale, ma in cui le scelte sarebbero orientate da criteri che dovrebbero valere per tutti. Cara Robeyns, no grazie!

NOTE

[1] Ingrid Robeyns, “Having Too Much”. In Wealth: NOMOS LVIII, edited by Jack Knight and Melissa Schwartzberg, New York University Press, New York, 2017, pp.1-44; Ingrid Robeyns, “What, if Anything, is Wrong with Extreme Wealth?”, Journal of Human Development and Capabilities, 20(3), 2019, pp.251-266.

[2] Vedi Thomas Christiano, “Money in Politics.” In The Oxford Handbook of Political Philosophy, edited by David Estlund, Oxford University Press, Oxford, 2012, pp.241-257.

[3] Thomas Scanlon, What we Owe to Each Other, Harvard University Press, Cambridge (MA), 1998, p.224.

[4] George Monbiot, “Embarrassment of Riches”, https://www.monbiot.com/2019/09/20/embarrassment-of-riches/

[5] Robeyns, “What, if Anything, is Wrong with Extreme Wealth?”, op.cit., p.264.

[6] Ingrid Robeyns, Wellbeing, Freedom and Social Justice. The Capability Approach Re-Examined, Open Book Publishers, Cambridge, 2017, p.173.

[7] Dick Timmer, “Defending the Democratic Argument for Limitarianism: A Reply to Volacu and Dumitru”, Philosophia, 47, 2019, pp.1331-1339.

[8] Paolo Flores d’Arcais, L’individuo libertario, Einaudi, Torino, 1999, pp.18-19.

(10 ottobre 2019)

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