Vi dovrebbero essere limiti superiori alla quantità di reddito e di ricchezza che ognuno può detenere? Ingrid Robeyns, una delle più note allieve di Amartya Sen, risponde che vi è qualcosa di sbagliato se, nella società locale cui apparteniamo e nel mondo intero, alcune persone posseggono o controllano quantità estreme di denaro e di patrimoni.[1]
Ella chiama la sua posizione limitarismo: non è moralmente
ammissibile avere più risorse di quanto sia necessario per realizzare
pienamente le proprie potenzialità. Non è che avere molti soldi sia in
sé spregevole, o che le persone ricche siano in quanto tali non
virtuose. Piuttosto, essere troppo ricchi comporta conseguenze negative
per altri valori a cui teniamo. In particolare, i super-ricchi
esercitano influenze deleterie sull’eguaglianza politica e sulla
possibilità di soddisfare i bisogni più urgenti.
Il primo argomento è stato sviscerato molte volte, documentando che le persone ricche sono in grado di tradurre il loro potere finanziario in potere politico attraverso una varietà di meccanismi: con l’acquisto di voti (finanziando partiti politici e singoli candidati), con lo stabilire l’agenda del processo decisionale collettivo (mediante le lobby), con l’influenzare le opinioni (controllando i media) e con il soggiogare le scelte pubbliche alle proprie esigenze (minacciando di spostare altrove gli investimenti).[2] Malgrado siano stati escogitati numerosi interventi legislativi e regolamentativi per frenare l’impatto dei super-ricchi sulla vita democratica, va riconosciuto che grande parte di questa influenza politica sfugge al funzionamento delle istituzioni formali e, quindi, può essere bloccata soltanto togliendo il carburante al motore, ovvero la super-ricchezza a coloro che, disponendone, la usano.
Il secondo argomento – quello di poter soddisfare i bisogni più
urgenti – poggia su alcune constatazioni empiriche: nel nostro mondo
albergano enormi sacche di povertà e di vulnerabilità, immense disparità
nei luoghi e tra i luoghi, urgenti problemi di azione collettiva (tra i
quali spicca il cambiamento climatico). Per affrontare questi nodi
occorre procurarsi risorse finanziarie adeguate. Un antico e glorioso
argomento a favore dell’imposta progressiva sul reddito, si basa sulla
cosiddetta utilità marginale decrescente del denaro: se l’erario impone a
Tizio e a Caio di versare un’imposta fissa di 1000 euro, ma Tizio,
avendo tanti quattrini, attribuisce poca utilità a ogni singolo euro in
meno, mentre Caio, disponendo di pochi soldi, conferisce elevato valore
alla perdita di ciascun euro, allora l’imposta riduce molto più il
benessere soggettivo di Caio. Ne segue che se desideriamo rendere più
equo l’onere fiscale, occorre tassare più Tizio che non Caio. La stessa
logica può essere invocata dal limitarismo. Se, oltre una certa soglia
quantitativa, aggiungere denaro a quello già posseduto non contribuisce
alla realizzazione di una persona, la società può valutare moralmente
rilevante bloccare quel flusso e deviarlo per finanziare i bisogni
collettivi più urgenti.
Il succo dell’argomentazione rimanda al principio del salvataggio,
enunciato da Thomas Scanlon: se ti viene presentata una situazione in
cui puoi impedire che accada qualcosa di molto brutto, o alleviare la
terribile situazione di qualcuno, facendo solo un leggero (o anche
moderato) sacrificio, sarebbe sbagliato non farlo.[3]
Questo punto può essere rafforzato prendendo in considerazione un
problema, come il cambiamento climatico, che riguarda la sopravvivenza
della specie umana. Il principio da applicare, in un caso simile, è che
chiunque può aiutare dovrebbe farlo; ne segue che chi detiene così tanta
ricchezza da non poter con essa migliorare la propria condizione
esistenziale, deve contribuire nella massima misura al salvataggio del
pianeta.
A differenza della posizione per la quale è di primaria importanza morale che tutti abbiano abbastanza, Robeyns propugna dunque la tesi che nessuno deve ottenere troppo.
Va osservato che questa tesi vale, se vale, indipendentemente
dall’origine della super-ricchezza da eliminare: che essa provenga da
straordinari talenti, da durissimo impegno, da mera fortuna, da passiva
eredità o da traffici criminali, non cambiano le sue conseguenze
sull’eguaglianza politica e sulla possibilità di rispondere a bisogni
urgenti. Considerando quelle conseguenze, il limitarismo non si candida
soltanto come dottrina morale, per la quale abbiamo il dovere di non
essere troppo ricchi. Esso è anche una regola di giustizia distributiva,
ed è quindi una visione politica, per la quale l’autorità pubblica
costringe a rispettare la norma. Lo Stato dovrebbe tassare ogni surplus
di denaro che oltrepassi la linea della piena realizzazione delle
potenzialità umane, e dovrebbe riformare le istituzioni sociali ed
economiche affinché non consentano alle persone di diventare
super-ricche.
Vale la pena di ricordare che molti tra i più autorevoli
economisti, iniziando da Keynes, hanno rimarcato che gli enormi guadagni
di alcuni businessmen non sono affatto incentivi necessari per
il dinamismo economico. Ad esempio, chi aspira alla funzione di
amministratore delegato di una corporation, avrà ancora forti motivazioni – in termini di potere, reputazione e retribuzione – per farlo: nessuna opportunità gli verrà preclusa. Sarà una parte della ricompensa
derivante dallo svolgimento di quella opportunità che sarà eliminata o
che, se percepita, verrà tassata. La riduzione dei vantaggi monetari,
ossia la scomparsa del super-ricco, servirà per pagare qualcosa di più
importante: l’ampliamento delle opportunità per gruppi sociali
disagiati, la tendenza verso l’eguaglianza politica dei cittadini e il
finanziamento di problemi collettivi sui quali si gioca la sopravvivenza
della specie.
Robeyns annota che il limitarismo è agnostico riguardo alla distribuzione al di sotto della linea di ricchezza – non si pronuncia su quale grado di eguaglianza debbano avere i redditi e i patrimoni tra i non ricchi –, mentre è radicale rispetto a ciò che la giustizia distributiva richiede nella parte alta della distribuzione. Per dirla con George Monbiot, «proprio come riconosciamo una linea di povertà, al di sotto della quale nessuno dovrebbe cadere, dovremmo riconoscere una linea di ricchezza, al di sopra della quale nessuno dovrebbe innalzarsi».[4]
Passando ai commenti, occorre osservare che Robeyns muove dal rifiuto di un’assunzione della scienza economica mainstream: «nessuno, se non il soggetto individuale, può valutare le proprie preferenze e il proprio livello di benessere».[5]
Questo postulato immagina un soggetto pienamente autonomo nel compiere
le scelte, inclusa la scelta dei gusti e dei valori; ma un simile
soggetto, staccato dal contesto storico-sociale, ovviamente non esiste.
Ad esso Robeyns contrappone, sulle orme di Sen, l’idea della “fioritura
umana” (o eudaimonia), il termine con cui gli antichi greci
chiamavano la condizione esistenziale di piena realizzazione delle
proprie potenzialità.
Nella sua riflessione, il punto cruciale non è dove si può tracciare con precisione la
linea della ricchezza, ma se il concetto ha senso. Ella prova ad
indicare i criteri generali della soglia massima, sostenendo che le
persone hanno dei funzionamenti universalmente basilari (salute fisica,
salute mentale, sicurezza personale, alloggio, qualità dell’ambiente,
istruzione, formazione e conoscenza, attività ricreative, tempo libero,
hobby e mobilità); e che, in base al contesto storico, al luogo e al
momento, è possibile stabilire quale livello dei vari funzionamenti sia
ragionevole rivendicare, da parte delle persone, per “fiorire”.
Calcolando quanti soldi occorrono per acquistare i beni e servizi
corrispondenti al livello fissato, otteniamo la linea della “vita
piena”, al di sopra della quale sta la ricchezza moralmente non
giustificata. Questa linea non è dunque posta da un singolo (magari
molto ricco e influente!), bensì dalla pubblica deliberazione.
Pertanto il criterio intersoggettivo di che cosa, qui ed ora,
realizza le potenzialità umane di tutti e di ciascuno dovrebbe «essere
stabilito dai processi democratici e dalle procedure di scelta sociale».[6] Una volta fissato, esso giustificherebbe tanto il limitarismo distributivo (per il quale non è moralmente giustificato avere “troppa” ricchezza), quanto il limitarismo politico (per cui limitare l’ammontare di ricchezza detenuta da un individuo contribuisce a realizzare uno stato di cose più giusto).[7]
Tuttavia, i super-ricchi esistono e controllano gran parte delle leve
del potere: ne segue, proprio per le ragioni ricordate dalla stessa
Robeyns, che i processi democratici e le procedure di scelta sociale
tendono ad essere svuotati. Inoltre, ogni decisione collettiva, fosse
pure quasi unanimistica, rischia di togliere la libertà a coloro che non
l’approvano: alcuni possono scegliere di rinunciare a qualcuno dei
funzionamenti di base, non curandosi della propria salute, o credendo a
superstizioni invece di istruirsi, o contestando lo svolgimento dei
processi deliberativi, e tra loro possono esservi sia dei super-ricchi,
sia dei cittadini comuni.
Infine, il distacco di Robeyns dal mainstream degli economisti poggia su una qualche distinzione tra le preferenze soggettive, che riguardano i desideri, e la “fioritura umana”, che concerne i bisogni
(o qualche concetto apparentato). I bisogni sono giudicati più
rilevanti dei desideri, poiché questi ultimi rispondono a uno stato
emotivo e cercano un piacere addizionale, mentre l’esaudimento dei
bisogni rappresenta un modo per esprimere i propri funzionamenti
fondamentali. È, questa, una concezione essenzialistica dei Sapiens,
per la quale il godimento estemporaneo va sottomesso alla ricerca della
vita buona; ed è grazie ad un simile essenzialismo che l’approccio di
Robeyns riesce a separare tra le azioni appropriate e quelle non
necessarie, e che può sostenere che chi, avendo tanti soldi, ha già
effettuato le azioni appropriate per la propria “fioritura”, deve
rinunciare ai soldi con cui effettuerebbe le azioni non necessarie.
In conclusione, valgono per Robeyns queste parole: «gran parte
della filosofia pubblica anglosassone è sostanzialmente tautologica. Decide aprioristicamente i valori, ma raccontandoli come res gestae
della razionalità o di un’utilità niente affatto neutrale. Immagina un
individuo che non esiste (anche se magari auspicabile) e battezza
“razionali” le sue scelte – le scelte che il filosofo gli attribuisce ed
impone».[8]
Nel caso del limitarismo, siamo alle prese con una proposta tanto
fascinosa quanto insidiosa. Per un verso, restiamo affascinati
dall’idea, radicale e blasfema, di abolire la ricchezza e di ridurre il
potere dei super-ricchi. Per l’altro verso, riconosciamo che il “giusto
limite” per intervenire deriva da un approccio che un libertario non può
accettare: esso darebbe forma a una società forse più eguale, ma in cui
le scelte sarebbero orientate da criteri che dovrebbero valere per
tutti. Cara Robeyns, no grazie!
NOTE
[1] Ingrid Robeyns, “Having Too Much”. In Wealth: NOMOS LVIII,
edited by Jack Knight and Melissa Schwartzberg, New York University
Press, New York, 2017, pp.1-44; Ingrid Robeyns, “What, if Anything, is
Wrong with Extreme Wealth?”, Journal of Human Development and Capabilities, 20(3), 2019, pp.251-266.
[2] Vedi Thomas Christiano, “Money in Politics.” In The Oxford Handbook of Political Philosophy, edited by David Estlund, Oxford University Press, Oxford, 2012, pp.241-257.
[3] Thomas Scanlon, What we Owe to Each Other, Harvard University Press, Cambridge (MA), 1998, p.224.
[4] George Monbiot, “Embarrassment of Riches”, https://www.monbiot.com/2019/09/20/embarrassment-of-riches/
[5] Robeyns, “What, if Anything, is Wrong with Extreme Wealth?”, op.cit., p.264.
[6] Ingrid Robeyns, Wellbeing, Freedom and Social Justice. The Capability Approach Re-Examined, Open Book Publishers, Cambridge, 2017, p.173.
[7] Dick Timmer, “Defending the Democratic Argument for Limitarianism: A Reply to Volacu and Dumitru”, Philosophia, 47, 2019, pp.1331-1339.
[8] Paolo Flores d’Arcais, L’individuo libertario, Einaudi, Torino, 1999, pp.18-19.
(10 ottobre 2019)
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