giovedì 23 maggio 2019

«Quella dannata estate del 1992 in cui la mafia mostrò la sua forza lasciandoci inermi»

Sono passati 27 anni dalle stragi di Falcone e Borsellino. Ancora oggi la rabbia per quello che è accaduto non si è placata. E ancora chiediamo di avere giustizia.

«Quella dannata estate del 1992 in cui la mafia mostrò la sua forza lasciandoci inermi» Nel pomeriggio di sabato 23 maggio 1992 nelle redazioni a Palermo arriva l'eco della notizia di un'esplosione avvenuta nell'autostrada all'altezza dello svincolo per Capaci. Le informazioni sono frammentarie. Fino a quando non apprendiamo che si tratta di un attentato al dottor Giovanni Falcone. Si scatena il panico, la corsa verso il luogo in cui è esplosa la bomba. Lungo la strada si apprende che è rimasta coinvolta anche la moglie, Francesca Morvillo e con loro gli agenti della scorta. Arrivati sul posto la scena è devastante, il terreno ha ricoperto interamente l'asfalto per oltre un chilometro e il cratere fa paura, ma ancora di più terrorizza l'auto blindata di colore bianco, con il davanti troncato di netto, che penzola nel vuoto, ricoperta di terra.

Paura e rabbia. Ho visto in questo luogo oltre agli agenti, anche fotografi e giornalisti piangere. E questa atmosfera di morte e terrore ci ha fatto sentire inermi e deboli. Ecco la forza della mafia.


Sappiamo che il dottor Falcone e la moglie sono stati tirati fuori dall'auto e sono ancora vivi. Sono sopravvissuti l'autista Giuseppe Costanza e i poliziotti dell'ultima auto di scorta, Paolo Capuzza, Angelo Corbo e Gaspare Cervello. Nessuno sa nulla della prima auto in cui c'erano i tre agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. La blindata accartocciata dall'esplosione si troverà alcune ore dopo a centinaia di metri dal cratere, in mezzo ad un uliveto.Si corre verso l'ospedale dove è stato portato il magistrato e la moglie, il giudice simbolo della lotta alla mafia il cui volto era noto in tutto il mondo per essere comparso sulle prime pagine dei quotidiani e le copertine dei settimanali in tutti i continenti, dopo qualche ora dall'esplosione finisce di vivere. La notizia commuove tutti – compreso Paolo Borsellino che è in ospedale e il suo visto è sconvolto - quelli che sono davanti al pronto soccorso dell'ospedale, accorsi dopo aver saputo dell'attentato hanno gli occhi pieni di lacrime. E poi arriva pure la triste notizia che i diversi tentativi fatti in sala operatoria dai medici non sono riusciti a salvare la vita a Francesca Morvillo. È stata una giornata straziante, in cui siamo stati disorientati e straziati dal dolore.

Sono seguite giornate di immenso lavoro, con una produzione incessante di notizie. Palermo sembrava essere diventata “il centro del mondo” dei mass media. Erano centinaia gli inviati provenienti da tanti Paesi.

Il giorno dei funerali intorno ai corpi di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Antonio Montinari e Rocco Di Cillo c'era tutta l'Italia che contava. Ero riuscito a entrare in chiesa affollatissima, nonostante da quattro ore la gente si accalcasse davanti alla Basilica di San Domenico. In piazza, sotto la pioggia, fra ali di poliziotti e carabinieri messi lì a proteggere gli irritanti simboli di uno Stato lontano, si levavano urla di rabbia e disperazione.
Le foto e le cronache di allora raccontano questo dolore. Ricordo chiaramente che mentre il cardinale Salvatore Pappalardo terminava l'omelia, che era soprattutto un anatema, da fuori si sentiva giungere gli insulti, gli slogan, gli echi della rabbia della Palermo per bene. Poi è toccato a lei, alla fragile Rosaria. E quel che per me pareva un rito già consumato, è tornato a ravvivarsi, si è ribaltato un copione già scritto con il suo “mafiosi vi perdono ma inginocchiatevi”. Al termine, mentre gli applausi scrosciavano, lei è scoppiata a piangere, ha abbracciato il sacerdote che le stava accanto, ed è svenuta.


Proprio negli stessi attimi, mentre agli applausi si sovrapponeva il grido di “giustizia, giustizia”, vedevo che nel gruppo delle autorità cominciavano le defezioni, provocandomi una sensazione di tristezza e rabbia. Da siciliano mi sentivo abbandonato.

Ma quella dannata estate del 1992 non aveva finito di riservarci altri brutti momenti.

Il 19 luglio. Una domenica che ha scosso ancora Palermo. Un nuovo attentato, quasi preannunciato, nel quale viene ucciso il procuratore aggiunto Paolo Borsellino con i suoi agenti di scorta. Cronisti, fotografi e cineoperatori prendono d’assalto via d’Amelio dove il magistrato è saltato in aria insieme ai suoi angeli custodi.
La città è scossa. E il 21 luglio, nel giorno dei funerali, ne ho certezza. Ricordo la folla schiacciata all’ingresso della chiesa che preme e urla. Il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, lo vedo un po' più piccolo e un po' più stanco mentre entra nella navata da una porta secondaria, con cipiglio fiero e passo veloce. Sono le 16,03 quando arriva lo Stato. C'è un cielo bianco là fuori, che pesa sulla città in stato d'assedio. Fuori da questa chiesa così strana, da questo tempio dove il dolore ritorna sempre come un appuntamento tragico, senza pace.

Proprio mentre l'ex capo del pool antimafia Antonino Caponnetto entra in chiesa, ci sono gli agenti delle scorte, i colleghi delle vittime, che vengono espulsi, spintonati, cacciati dai carabinieri in servizio d'ordine. Le sento ancora quella urla, nella grande navata, mentre sono costretti a uscire: «Bastardi, bastardi... questa messa è per noi, questa è la nostra messa, bastardi». E Caponnetto china la testa. Non parla. E i poliziotti gli urlano: «Dottore, dottore, lei è come noi, venga con noi, dottore, non ci lasci soli». No, non li ha lasciati soli. Si era già pentito Caponnetto di quella frase pronunciata 24 ore prima quando aveva detto ai microfoni della Rai: «È finita, è tutto finito». Lo aveva detto all'uscita dalla camera ardente: «Mi sono pentito di quello che ho detto ieri, è stata una giornata di grande sconforto».

La messa è finita. E scoppia la contestazione diretta all’allora capo della polizia Parisi. Scoppia improvvisa. Ormai inaspettata. Sono le urla dei parenti che la fanno partire. D'un colpo, la chiesa diventa quasi una bolgia, rimbomba di urla. Scalfaro passa in mezzo a due ali di poliziotti. Calci ne partono tanti, anche qualche schiaffone che supera la barriera umana degli agenti in divisa. Il Presidente è sfiorato da una manata, Parisi colpito da una sberla così come altri lì attorno. Il cardinale alza la voce: «State calmi, che fate? State calmi».

Sotto il cielo diventato grigio, davanti a questa Cattedrale del dolore, la rabbia e la disperazione non si sono placate. E ancora oggi a distanza di 27 anni la rabbia ancora c'è per quello che è accaduto, per gli errori commessi, e si chiede ancora di avere giustizia.

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