venerdì 10 maggio 2019

Libro. E se abolissimo il Nobel per l’Economia?

Un libro di Emiliano Brancaccio e Giacomo Bracci punta il dito contro l'onorificenza dell’Accademia svedese smontandone il “discorso del potere”: il premio è stato quasi sempre assegnato ad economisti mainstream che hanno sposato quel dogma dell'austerity che ci ha portato a disastri sociali ed enormi diseguaglianze. Gli autori ragionano poi sui rapporti tra scienza, ideologia ed economia arrivando a mettere in discussione la valenza stessa del Nobel.



micromega Sergio Marotta* Il premio Nobel per l’Economia viene da sempre considerato, soprattutto dai non addetti ai lavori, come un segnale per capire non solo dove va l’economia, ma quale sarà il futuro delle politiche pubbliche e, di conseguenza, se dovremo aspettarci un miglioramento nella qualità della nostra vita. Non a caso, molti di coloro che sono stati insigniti del Nobel girano il mondo per convegni e seminari che hanno un largo seguito nell’opinione pubblica dei diversi continenti. Alcuni sono diventati saggisti di grande successo: basti pensare a Joseph Stiglitz, Paul Krugman, Richard H. Thaler, Daniel Kahneman o Amartya Sen. Non pochi, tra di essi, sono entrati non solo nella storia del pensiero economico, ma anche di quello politico.

D’altra parte, proprio il timore che i vincitori del Nobel per l’Economia diventassero dei “guru” dotati di eccessiva influenza sulla pubblica opinione fu alla base della critica espressa al premio da uno dei suoi più noti vincitori, Friedrich von Hayek, che arrivò addirittura a proporne l’abolizione.

Il premio Nobel per l’Economia, i suoi intrecci con lo sviluppo delle diverse teorie economiche e le sue implicazioni politiche attirano da tempo l’attenzione di Emiliano Brancaccio, professore di politica economica presso l’Università del Sannio, che già da molti anni pubblica in materia, commentando puntualmente i conferimenti dell’onorificenza da parte dell’Accademia svedese delle scienze. L’ultimo libro di Brancaccio, scritto con Giacomo Bracci, è un po’ la summa di questo suo lavoro ultradecennale sul Nobel. Oltre a contenere saggi sugli economisti che hanno vinto il premio dal 2001 al 2018, il volume è anche l’occasione per ricostruire la storia del Nobel per l’economia sin da quando fu fondato nel 1969 su iniziativa della Banca di Svezia e per confrontare i criteri di scelta dei vincitori da parte dell’Accademia svedese delle scienze, soprattutto dal punto di vista del loro posizionamento rispetto alle diverse teorie economiche.

Ne è venuto fuori un libro di grande interesse, oltre che di piacevole lettura, dal titolo accattivante: “Il discorso del potere. Il premio Nobel per l’Economia tra scienza, ideologia e politica” (Il Saggiatore, Milano, 2019). Si tratta di un lavoro dichiaratamente “di parte”, nel senso scientifico del termine, che lascia trasparire con chiarezza la tesi di fondo: «Con rarissime eccezioni, il premio Nobel per l’Economia ha rafforzato la posizione dominante di quel programma di ricerca comunemente definito “neoclassico”. Talvolta denominato anche “paradigma della scarsità”. Tale paradigma definisce l’economia come la scienza che studia i criteri razionali per massimizzare il benessere di ciascun individuo attraverso un impiego ottimale delle risorse scarse di cui dispone».[1]

Secondo gli autori del libro, il premio Nobel per l’Economia è nato sull’esempio dei premi Nobel per la Fisica, la Medicina e la Chimica, che una volta venivano indicate come scienze “dure”. La nuova onorificenza ha finito così per conferire dignità di scienza esatta anche al pensiero economico. Il problema è che in questi anni l’Accademia svedese delle scienze ha premiato quasi soltanto il pensiero economico mainstream, arrivando al paradosso di studiosi insigniti del premio anche per teorie palesemente smentite dalle evidenze empiriche. Teorie che però il più delle volte hanno avallato le politiche economiche dominanti, di stampo prettamente liberista. In questo senso, il premio Nobel per l’economia si è trasformato in un vero e proprio “discorso del potere”, funzionale al mantenimento del potere economico e politico dei grandi istituti bancari e delle grandi imprese private.

È convinzione degli autori del libro, infatti, che, anche quando è sembrato che il premio Nobel venisse assegnato a studiosi critici del mainstream, in realtà veniva loro attribuito per ricerche in cui gli studiosi insigniti avevano dato comunque un impulso al paradigma neoclassico dominante, contribuendo a raffinarlo piuttosto che a metterne in discussione l’impostazione di fondo per cambiare il modo di studiare e di fare economia. Un esempio è quello di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia del 2001. Stiglitz è oggi universalmente considerato un oppositore della globalizzazione e del liberismo sfrenato che hanno dato luogo alla crisi finanziaria del 2007/2008. Ma gli studi per i quali è stato premiato riguardano essenzialmente il problema delle asimmetrie informative che si innesta saldamente nell’evoluzione del paradigma neoclassico fondato sull’ipotesi di agenti economici egoisti e razionali.

Un altro caso di particolare interesse è quello di Elinor Ostrom, insignita del premio nel 2009: economista sicuramente atipica, peraltro unica donna mai insignita del Nobel per l’economia, ma i cui fondamentali contributi sulla gestione dei cosiddetti “beni comuni” non sembrano costituire una critica sufficientemente solida del pensiero mainstream. A questo riguardo, nella lezione tenuta in occasione del conferimento del Nobel, Ostrom sostiene che l’insegnamento più importante per le politiche pubbliche che può essere tratto dal suo lavoro di ricerca «is that humans have a more complex motivational structure and more capability to solve social dilemmas than posited in earlier rational-choice theory»[2].

Brancaccio e Bracci, tuttavia, osservano che l’analisi della Ostrom è stata dai più interpretata come un mero raffinamento dell’approccio teorico dominante, in virtù della tesi che anche individui perfettamente razionali potrebbero scoprire che è nel loro interesse egoistico una gestione “comune” delle risorse. Contro le sue stesse intenzioni, cioè, Ostrom viene alla fine inglobata dal pensiero dominante. Brancaccio e Bracci, d’altro canto, rilevano che pure le interpretazioni “radicali” del pensiero della Ostrom presentano alcuni limiti. Basti notare che per superare la critica che considera i suoi studi sulla gestione delle risorse comuni – dai banchi di pesca, ai bacini idrici, dalle foreste ai terreni coltivati in comune – come nostalgicamente appiattiti su un passato che non può tornare, la studiosa ha voluto applicare le sue teorie ai beni comuni prodotti dall’uomo, come la conoscenza scientifica e tecnica. In questi ambiti, tuttavia, i risultati sono stati assai più controversi e non sembrano indicare che in questi settori più moderni i “beni comuni” possano svilupparsi spontaneamente, come qualcuno spera.[3]

Il libro si chiude con due interessanti capitoli sulla possibilità che una valutazione della ricerca sempre più influenzata dai criteri bibliometrici consentirà il conferimento del Nobel anche a studiosi che si rifanno a paradigmi alternativi rispetto a quello neoclassico dominante. Purtroppo anche in questo caso la conclusione di Brancaccio e Bracci su quella che definiscono la “Nobelmetria” è assai pessimistica: «I mutamenti delle classifiche basate su indici citazionali, infatti, mettono in evidenza lo storico declino del pensiero eterodosso nella ricerca accademica mondiale. Gli ultimi anni, è vero, segnalano delle interessanti controtendenze, ma queste non appaiono sufficienti per scommettere sulla possibilità che Stoccolma venga presto espugnata da un “eretico”. Stando ai sistemi adottati da Clarivate, è ragionevole prevedere che i futuri Nobel per l’Economia saranno ancora estratti dall’alveo del paradigma neoclassico dominante»[4].

Nonostante il pessimismo di fondo che caratterizza il libro, la speranza è quella che finalmente gli studi economici approfondiscano la validità del paradigma alternativo al quale Brancaccio ispira la sua attività di ricerca e, cioè, l’«approccio del surplus» o «paradigma della riproduzione», «che prende le mosse dai contributi dei cosiddetti economisti classici Adam Smith e David Ricardo, si sviluppa attraverso le interpretazioni non convenzionali del pensiero di John Maynard Keynes, riconosce in Piero Sraffa, Joan Robinson e Hyman Minsky alcuni tra i suoi continuatori novecenteschi, attinge dai contributi eretici di John von Neumann e altri e trova una sua collocazione epistemologica nelle moderne interpretazioni della “critica dell’economia politica” di Karl Marx»[5]. Tale approccio è l’unico che rivoluziona dalle sue basi il paradigma neoclassico perché sostiene che «prezzi, salari e profitti siano determinati dalle condizioni di riproduzione del sistema economico, data la distribuzione del reddito corrispondente ai rapporti di forza tra le classi sociali: in altre parole, data la fase storica della lotta di classe»[6].

Se un profondo rinnovamento negli studi di economia porterà alla definitiva archiviazione del paradigma neoclassico, sarà grazie a economisti non altrettanto noti ma riconosciuti nel panorama degli studi spesso presi in considerazione anche dalle giurie del Nobel ma raramente premiati. Essi dovranno riuscire finalmente a dimostrare che i presupposti del paradigma neoclassico sono errati: come si può pensare che il centro dell’azione economica sia un homo oeconomicus che reagisce sempre come una macchina razionale e calcolatrice per perseguire il proprio utile senza alcuna attenzione alle conseguenze che le sue azioni possono produrre sui propri simili e sull’ambiente? Come si può pensare che la condizione migliore per l’economia sia quella di avere mercati che si autoregolano in regime di concorrenza perfetta quando, nella realtà, ciò non accade mai? Se non si cambierà strada e si continuerà a restare nell’ambito del paradigma neoclassico, si arriverà ben presto a un tale eccesso di diseguaglianza che sarà impossibile impedire lo scontro sociale. E sempre che il limite esterno all’economia, cioè, la questione del mutamento climatico non ci metta di fronte a problemi di sopravvivenza del genere umano di dimensione ben più grave rispetto a quelli di modificare oggi il nostro modo di produrre sfruttando le risorse del pianeta fino al loro totale esaurimento.

Il problema, dicono Brancaccio e Bracci, è che il pensiero degli economisti insigniti del premio Nobel sembra riflettere le strutture esistenti del potere, alle quali conferisce un linguaggio, un “discorso”. Per fortuna, una nota di ottimismo e di speranza che il Nobel possa in qualche modo dirci qualcosa di positivo sul futuro del nostro sistema economico ce la fornisce Ernesto Screpanti nella sua bella prefazione al volume: il premio Nobel per l’Economia «non determina i cambiamenti, ma li segnala con un certo anticipo». Così, il premio ad Amartya Sen nel 1998, quello a Joseph Stiglitz nel 2001, quello a Paul Krugman nel 2008 e a Elinor Ostrom nel 2009 ci fanno pensare che qualcosa cambierà nei prossimi anni. Il Nobel per l’economia non cambia certo il mondo, ma forse gli ultimi conferimenti del premio suggeriscono che è ancora possibile lavorare per un futuro migliore.

* Professore di Sociologia del diritto, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli.

NOTE

[1] E. Brancaccio e G. Bracci, Il discorso del potere. Il premio Nobel per l’economia tra scienza, ideologia e politica, Il Saggiatore, Milano 2019, pp. 22-23.

[2] E. Ostrom (2010), "Beyond Markets and States: Polycentric Governance of Complex Economic Systems." American Economic Review, 100 (3), 641-72: 664.

[3] Cfr. C. Hess and E. Ostrom (eds.), Understanding Knowledge as a Commons, Mit Press, 2007.

[4] E. Brancaccio e G. Bracci, cit., p. 196.

[5] Ivi, p. 26.

[6] Ivi, p. 27.

(9 maggio 2019)

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