Sulla giornata di sciopero generale dei lavoratori pubblici del 10
maggio, abbiamo intervistato Daniela Mencarelli e Cristiano Fiorentini
dell’esecutivo dell’Usb Pubblico Impiego.
Venerdi 10 maggio l’Usb ha chiamato allo sciopero generale i lavoratori pubblici. In questo clima di letargia del conflitto sociale è una bella sfida. O no?
È una sfida obbligata che affrontiamo con convinzione ben consapevoli delle difficoltà che ci pone il quadro generale. Quello di venerdì è uno sciopero che sta dentro un percorso che vuole parlare ai lavoratori pubblici di riconquista della dignità della funzione che svolgono, di un contratto che riconosca questa dignità, di un ruolo attivo nella lotta alle disuguaglianze, che li scuota proprio da quella letargia che nel pubblico impiego ha prodotto negli anni un evidente arretramento sul piano dei diritti e sul piano economico. Un percorso che non si esaurisce sicuramente con la giornata del 10, ma che intende aprire una vertenza vera con il Governo che smascheri anche i bluff del sindacato collaborazionista.
Leggendo la piattaforma dello sciopero, emerge un combinato disposto di misure governative che, letto tutto insieme e non nello specifico, appare piuttosto inquietante. Andiamo per ordine: aumento delle disuguaglianze, autonomia differenziata, nuove leggi punitive contro i lavoratori pubblici invece del rafforzamento dei servizi e del welfare. Che cosa sta venendo fuori?
È tutto collegato e condivido che appaia inquietante. In tutta l’Unione Europea ed in particolare in Italia, assistiamo ormai al dilagare delle disuguaglianze frutto del combinato disposto tra la radicalizzazione delle politiche liberiste e il drastico ridimensionamento dei servizi pubblici. Questa è la ricetta utilizzata per affrontare la crisi e preservare, se non aumentare, il profitto. In questo quadro i lavoratori pubblici, da Brunetta in poi, sono stati oggetto di attacchi furiosi perché andava demolita la loro funzione di argine alle disuguaglianze. Questo processo è proseguito, al di là di qualche sfumatura, in grande continuità con tutti i Governi che si sono succeduti. L’esecutivo attuale, nonostante si sia autodefinito “del cambiamento”, con il Ministro Bongiorno sta ricalcando in maniera pedissequa le orme di Brunetta riproponendo lo schema trito e ritrito dei fannulloni, da qui le impronte digitali e l’ennesimo disegno di legge sulla valutazione. Sono più di dieci anni che si fanno riforme del pubblico impiego che insistono su questi temi e nessuno si è mai proposto di andare a vedere quali risultati abbiano prodotto in termini di efficienza dei servizi. Ovviamente, i servizi sono andati peggiorando perché queste riforme sono andate a braccetto con i tagli, il blocco del turn over, le esternalizzazioni, etc. L’autonomia differenziata è la ciliegina sulla torta di questo processo di distruzione dello Stato sociale, perché acuirà, con effetti devastanti sul piano delle tutele e dei diritti, le differenze tra cittadini e lavoratori soprattutto in settori che forniscono servizi pubblici essenziali e garantiti dalla Costituzione come la Sanità o la Scuola.
Parliamo di retribuzioni e di contratti. I salari “contrattualizzati” in Italia sono al palo. Quelli “deregolamentati” sono talmente bassi che hanno visto esplodere il fenomeno dei working poors, cioè dei lavoratori e lavoratrici che guadagnano talmente poco da rimanere imprigionati nella gabbia della povertà. I contratti, pubblici o privati, producono aumenti salariali irrilevanti. Si ripone in Italia una “Questione salariale” per tutte le lavoratrici e i lavoratori?
Nel pubblico impiego sicuramente sì! Se solo si pensa che dopo 9 anni di blocco contrattuale si è andati al rinnovo lo scorso anno con aumenti del 3,4% quando l’inflazione in quegli anni era cresciuta del 12%, è facile capire quanto potere d’acquisto sia stato perso dai lavoratori pubblici. E questo è stato uno dei motivi principali che ci hanno portato a scegliere di non firmare il contratto, scelta che stiamo pagando salato grazie ad una norma contrattuale che penalizza il dissenso impedendoci di partecipare alle trattative di secondo livello, quelle di posto di lavoro per intenderci.
Ad oggi questo Governo ha stanziato risorse per aumenti a regime dell’1,95% ulteriore schiaffo in faccia ai lavoratori. Nella piattaforma dello sciopero abbiamo detto chiaramente che non vogliamo il contratto e basta, come fanno CGILCISLUIL che vogliono solo recuperare il proprio ruolo nella concertazione. Noi vogliamo un contratto che riconosca la nostra funzione al servizio dei cittadini, restituendole dignità, sia sul piano salariale che su quello normativo.
Infine le relazioni sindacali. Questo sciopero del 10 maggio arriva dopo che era stato vietato dalla Commissione di Garanzia quello convocato in aprile. Cgil Cisl Uil Ugl hanno scelto la strada della complicità neocorporativa con Confindustria e si guardano bene dal chiamare lavoratrici e lavoratori alla lotta. Che modello di relazioni sindacali/industriali si va delineando nel paese?
Un modello funzionale ad un sistema sociale basato sulla disuguaglianza che deve togliere spazio e voce a chi rappresenta gli esclusi, che non può permettere che vi sia l’organizzazione del conflitto, che vengano messi in discussione i pilastri del sistema. Il monopolio sindacale di CGILCISLUIL che ha reclutato anche l’UGL, ha proprio questa funzione e il lancio del sindacato unico fatto da Landini va a rafforzare questa condizione. Dovrebbero riflettere coloro i quali, soprattutto nella CGIL, ritengono invece di svolgere ancora una funzione per i lavoratori. Oggi fare sindacato conflittuale è sempre più difficile, il divieto al nostro sciopero è emblematico, così come lo è il decreto Salvini che criminalizza gli strumenti di lotta che hanno fatto la storia sindacale in questo Paese.
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