Il
9 aprile scorso Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, hanno reso pubblico un
appello congiunto a favore dell’Europa. Esso non ha, tuttavia,
suscitato il dibattito che avrebbe meritato.
Peccato,
perchè dal tenore dell’appello è possibile ricavare lo stato
confusionale in cui versano le “Parti sociali”, con particolare
riferimento alle Organizzazioni sindacali. (E’ difficile non notare
l’abbagliato sviamento dei Sindacati di fronte alle istituzioni ed alle
controparti sociali che hanno determinato la loro attuale condizione di
irrilevanza).
Il
documento può essere articolato in due linee di svolgimento: 1) una
serie di asserzioni sull’Europa poste a giustificazione dell’appello –
evidentemente descrittive, secondo i sottoscrittori, di una verità
immanente; 2) una serie di proponimenti – auspicativi di una riforma
tesa al completamento della costruzione europea, così da renderla
“ideale” (proponimenti purtroppo, va detto subito, irrealizzabili).
Alla
prima linea argomentativa può essere accostata l’affermazione secondo
cui “[…] l’Unione europea ha garantito una pace duratura in tutto il
nostro continente e ha unito i cittadini europei attorno ai valori
fondamentali dei diritti umani, della democrazia, della libertà, della
solidarietà e dell’uguaglianza.”
Qui,
secondo me, va precisato che i valori quali “i diritti umani, la
democrazia, la solidarietà e l’uguaglianza”, erano già previsti e
formulati nelle costituzioni post-fasciste del dopoguerra. Certo, poi,
le Comunita’ europee costituite dagli stati che quelle costituzioni
avevano adottato, hanno fatto propri quei principi, ma – a dirla proprio
tutta – con l’avvento della stagione neoliberista e la primazia del
mercato, si è assistito piuttosto a una relativa disapplicazione,
nell’ambito della Ue, di quei valori. (Si è anche parlato, ad esempio,
di incompatibilità della nostra Costituzione repubblicana con i rigidi
trattati che informano l’Unione).
Prosegue
l’appello: “[…] l’UE è stata decisiva nel rendere lo stile di vita
europeo quello che è oggi. Ha favorito un progresso economico e sociale
senza precedenti con un processo di integrazione che favorisce la
coesione tra Paesi e la crescita sostenibile. Continua a garantire,
nonostante i tanti problemi di ordine sociale, benefici tangibili e
significativi, nella comparazione internazionale, per i cittadini, i
lavoratori e le imprese in tutta Europa.”
Eppure,
sotto gli aspetti inglobati in queste affermazioni, i risultati sono
stati – e sono tuttora – piuttosto modesti. Inoltre, specialmente per
alcuni paesi, fra cui il nostro, i risultati si possono classificare
come molto deludenti. Spiega Ashoka Mody: “vi è stata un’illusione di
prosperità, sostenuta nel caso dell’Europa dalla bolla bancaria. È un
vero peccato che quei dieci anni [i primi anni dell’euro, n.d.a] siano
stati completamente travisati in due modi. Il primo è che, quando i
tassi di interesse sui debiti pubblici sono scesi, questo fu celebrato
come un’integrazione finanziaria, mentre era in effetti un problema,
perché i paesi che beneficiavano di questi tassi così bassi stavano
permettendo il formarsi di una bolla di debito. In secondo luogo,
l’altra cosa che è avvenuta, specialmente tra il 2004 e il 2007, è che
il commercio mondiale era in una fase di boom. In primo luogo, perché
l’America stava spendendo troppo, e quindi stava importando largamente
merci dal resto del mondo, e in secondo luogo, perché la Cina stava
entrando nel mercato del commercio globale in grande stile e, diventando
un esportatore di grande rilievo, diventava anche un rilevante
importatore. Pertanto negli anni tra il 2004 e il 2007 si è avuta una
crescita del commercio globale più alta che in qualsiasi periodo nella
memoria recente. E quando il commercio globale aumenta, il commercio
europeo cresce rapidamente. Quindi la combinazione della convergenza dei
tassi di interesse, che diede l’impressione dell’integrazione
finanziaria, e la crescita del commercio globale, che diede alla gente
un’impressione di prosperità, ha portato alcuni a concludere che sì, la
cosa aveva funzionato.”
Infine,
non viene in mente ai firmatari dell’appello che – probabilmente – è
proprio la UE con le sue politiche austere a mettere a rischio la
coesione fra paesi europei e la crescita sostenibile? Segue poi nello
stesso periodo, ancora con riferimento alla UE, una stilla di dubbio che
recita: “Continua a garantire, nonostante i tanti problemi di ordine
sociale”, ma essa è immediatamente fugata dalla certezza che la UE
“continua a garantire, benefici tangibili e significativi, nella
comparazione internazionale, per i cittadini, i lavoratori e le imprese
in tutta Europa”. Un atto di fede, in assenza di qualsivoglia costrutto
analitico dei meccanismi attraverso cui i tanti benefici citati si
dispiegherebbero e senza alcun rilievo critico che tenti di spiegare la
fase di riflusso che sta investendo la UE. Si può congetturare che, come
sempre, per la religione europeista i proclami dell’apertura e della
concorrenza dovrebbero ottimamente sistemare tutto.
E
poi: […] gli interessi economici nazionali, oggi, possono essere
perseguiti, in una dimensione continentale, solo attraverso politiche
europee. Di fronte ai giganti economici, i paesi europei presi
singolarmente, avranno sempre minore peso politico ed economico. Perché
stiamo affrontando enormi sfide, una globalizzazione senza regole, il
risorgere di nazionalismi, tensioni internazionali, ridefinizione delle
relazioni UE-Regno Unito, migrazioni, disoccupazione, prospettive per il
futuro dei nostri giovani, cambiamenti climatici, trasformazione
digitale, crescita costante delle diseguaglianze economiche e sociali.
[…] la risposta non è battere in ritirata ma rilanciare l’ispirazione
originaria dei Padri e delle Madri fondatrici, l’ideale degli Stati
Uniti d’Europa.
Ci
troviamo, qui, innanzi ad una sorta di allontanamento apotropaico delle
responsabilità oggettive alle quali vanno ricondotti tutti i gravi
problemi riportati nel periodo. La globalizzazione senza regole, la
disoccupazione, le disuguaglianze, la migrazione, ecc., sono soprattutto
la conseguenza delle politiche liberiste che – proprio i partiti
sponsorizzati con l’appello al voto – patrocinano. L’utopico Manifesto
di Ventotene aveva un senso all’epoca in cui fu redatto, ma
l’acceleratore spinto sulle politiche neoliberiste, le quali hanno fatto
da fondamento alla nascita della UE nel 1992, rende di una inanità
assoluta un simile richiamo. Quanto all’affermazione riguardante la
dimensione continentale necessaria per fronteggiare la sfida globale,
possono svolgersi diversi ordini di considerazioni: 1) non è
invariabilmente vero che un singolo stato debba trovarsi “perduto”
davanti alla globalizzazione. Il relativo benessere di un paese dipende
anzitutto dalle politiche economiche (fiscali, monetarie, industriali,
di investimento e dei conti con l’estero) che decide di intraprendere;
2) probabilmente, l’assunto menzionato nell’appello si riferisce ad una
corposa rilevanza continentale in sede di negoziazione di trattati
internazionali (nel documento manca una analisi specifica). Tuttavia, la
storia recente insegna che la pressione ricorrente è quella rivolta
alla sottoscrizione di trattati di libero scambio – dettati da interessi
specifici – i cui benefici attesi per le popolazioni degli stati
aderenti, danno però adito a parecchie aporie; 3) sono proprio la UE e
l’eurozona – con le loro politiche di deflazione competitiva e con le
loro costrizioni monetarie e fiscali – il maggior rischio per il
successo internazionale dei paesi membri (oltre che per la stabilità e
la prosperità globali).
Il
documento va avanti con un impulso al voto: “Per queste ragioni
esortiamo i cittadini di tutta Europa ad andare a votare alle elezioni
europee dal 23 al 26 maggio 2019 per sostenere la propria idea di futuro
e difendere la democrazia, i valori europei, la crescita economica
sostenibile e la giustizia sociale.”
Si
tratta, procedendo per esclusione, di un appello al voto a favore del
Partito Democratico (ossia a favore della formazione politica che tanta
parte ha avuto nella sterilizzazione dell’opera del sindacato). Infatti,
prosegue il testo, la difesa della democrazia, i valori europei, la
crescita economica sostenibile e la giustizia sociale, è riferita contro
“quelli che intendono mettere in discussione il progetto europeo per
tornare all’isolamento degli stati nazionali, richiamando in vita gli
inquietanti fantasmi del novecento”.
E’
perlomeno bizzarro che le forze sindacali abbiano apposto la loro
sottoscrizione ad un invito al voto come questo. (Per contrastare le
destre, mi dono anima e corpo a coloro che, “da sinistra”, mi hanno
annichilito e continuerebbero a farlo?).
Venendo
alla seconda linea argomentativa, bisogna ammettere che in essa sono
inscritti vari propositi commendevoli. Chi non vorrebbe “[…] progettare
un futuro di benessere per l’Europa” e concepire “[…] un modello di
crescita che restituisca ai giovani il diritto al futuro”, compreso un
rinnovato impegno sulla tematica ambientale? I Sindacati e la
Confindustria si rivolgono ai componenti dell’incipiente Parlamento
Europeo, ponendo l’accento su un piano straordinario per gli
investimenti, una politica industriale europea, lo sviluppo del dialogo
sociale e della contrattazione tra le parti sociali. Per finanziare il
piano straordinario di investimenti, le Parti sociali propongono di
ricorrere – nientemeno – agli Eurobond, ovvero emissioni di titoli del
debito europei; e per quanto riguarda la loro relativa restituzione, i
proponenti si inoltrano fino ad immaginare un primo embrione di
“bilancio centralizzato comunitario” (“Nel medio-lungo termine, il
debito verrebbe rimborsato con il gettito di nuove imposte gestite a
livello europeo che andrebbero a sostituire imposte nazionali”). Oltre a
ciò, i firmatari dell’appello stimolano i futuri parlamentari a
proporre la “Esclusione della spesa nazionale di cofinanziamento dei
progetti europei dai vincoli del Patto di Stabilità e Crescita”.
Tutto
condivisibile. Soltanto che, per quanto attiene al piano degli
investimenti, non bisogna dimenticare che l’Unione Europea è
assolutamente concepita ed impostata sul “mantra” del divieto di
mutualizzazione dei rischi finanziari e di qualsiasi trasferimento di
risorse fra stati membri. Così come è fantasioso ritenere che –
finalmente – i paesi forti del centroEuropa (con la Germania in testa)
muteranno repentinamente avviso e, in un conato di generosa solidarietà,
accondiscenderanno al tipo di riforme dalla quali si sono sempre tenuti
a distanza. (Quando dall’attuale bilancio comunitario fuoriescono
cospicue risorse – come è nel caso della Polonia – la finalità è
integrare il paese destinatario nella filiera produttiva tedesca).
Altrettanto
dicasi per la citata “[…] funzione di stabilizzazione del ciclo
economico, complementare ai meccanismi nazionali, in grado di supportare
il reddito e la domanda interna in tempi di crisi con l’obiettivo di
finanziare: uno strumento di sostegno europeo, finanziato senza pesare
sulle imprese, per rispondere in occasione di crisi di uno o più paesi
membri, alle ricadute sulla disoccupazione, presidiando invece la
coesione sociale e prevenendo rischi di contagio. […]” (Da notare, in
questo passaggio del testo, la frase “finanziato senza pesare sulle
imprese”. Vorrà dire finanziato dai lavoratori?).
Viene
poi auspicato, come sopra anticipato, lo sviluppo del dialogo sociale e
della contrattazione tra le parti sociali. In particolare, nel
documento congiunto si parla di promozione e definizione di un quadro
normativo europeo certo di sostegno alle relazioni sindacali e alla
contrattazione collettiva.
Ma
questo pare alquanto incompatibile con l’assetto economico –
istituzionale dell’Unione Europea, ove vigono la libertà di movimento
dei capitali, l’esasperazione della concorrenza e la competizione
salariale. Non si comprende la ragione per la quale, i Sindacati, si
attendano l’avveramento di certi miracoli! Senza dimenticare, in più,
che nell’ambito dell’assetto appena richiamato, uno dei fini della
Confindustria è il definitivo tramonto della contrattazione sindacale di
livello nazionale (in nome, naturalmente, del presupposto liberista
della flessibilità salariale – o meglio, riduzione salariale).
Per
quanto afferisce alle Organizzazioni Sindacali – oltre all’analisi
chimerica delle aspettative europeiste – è palese che che non sperano
più neanche loro di ottenere qualcosa sul piano delle rivendicazioni
contrattuali. Si appigliano a quel poco di elemosina che un’eventuale
disposizione benevola di Confindustria potrà concedere (come il welfare
aziendale). Nell’appello per l’Europa, viene loro concessa qualche tenue
speranza di un progetto che mai si invererà. Ma la grezza e affilata
realtà del mondo del lavoro sarà disposta ad attendere, o le sue vittime
si riverseranno ulteriormente nel bacino dei movimenti “populisti”? Per
quanto riguarda la Confindustria – o, perlomeno, per la parte di
affiliazione più internazionalizzata di essa (quella che più conta) –
l’Organizzazione ha tutto l’interesse ad un’estensione del quadro
concorrenziale europeo. In subordine, ha interesse ad un’azione
conservativa, ovvero al mantenimento della condizione attuale, con
l’industria del Nord Italia al traino di quella tedesca (quando,
ovviamente, il ciclo internazionale è favorevole).
Per
finire, il tenore dell’appello si inscrive in un auspicato
consolidamento della cornice neoliberista sulla quale poggia l’Unione
Europea. Purtroppo, la Cgil di Landini – che pure avrebbe le risorse per
uno smagato approfondimento analitico dei meccanismi di impostazione
della UE, sale sul carro. Concretezza dimostra invece, la Confindustria.
Essa, con realismo, mantiene ben ferma la focalizzazione sugli
strumenti atti al perseguimento dei propri interessi.
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