mercoledì 1 maggio 2019

"A Caracas il boomerang golpista".

C’è una calma tesa in queste ore a Caracas, capitale del Venezuela dopo l’ennesimo strano tentativo di golpe. 

In realtà, più che di un golpe si è trattato di uno show pubblicitario, mediatico, con nessuna consistenza. 
Lo spettacolo era cominciato alle 4 di mattina del 30 aprile, con un video dell’auto-proclamato presidente Guaidó che incitava all’offensiva finale (sic) dell’”Operazione libertà”. Al suo fianco Leopoldo López, compagno di merende e dirigente dell’opposizione golpista. López, fino ad oggi agli arresti domiciliari per le sue responsabilità nelle manifestazioni violente del 2014 che hanno causato la morte di 43 persone. Vista la mala parata, Leopoldo a metà giornata è scappato prima nell’ambasciata del Cile di Piñera e poi in quella spagnola. Nel video, in secondo piano, un gruppetto sparuto di persone in uniforme. Ma il bluff e le violenze sono durate solo poche ore, anche se l’ennesimo tentativo di spallata golpista contro il governo legittimo del Presidente Maduro sul piano internazionale conta sulla regia di Trump e dei falchi di Washington: il suo vice Mike Pence, il Segretario di Stato Mike Pompeo (già capo della CIA), l’assessore alla sicurezza nazionale John Bolton e qualche repubblicano come Marco Rubio. Come parte del copione, si sono affrettati a dare manforte le marionette dei governi della destra continentale (Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Panama, Paraguay), con il solerte aiuto-regista Luis Almagro, segretario della Organizzazione degli Stati Americani (OEA), il “ministero delle colonie” da cui il Venezuela si è appena ritirato ufficialmente.

Dulcis in fundo, a casa nostra, il patetico Antonio Tajani, filo-atlantico presidente del parlamento europeo, molto attivo nel suo appoggio alle trame golpiste. A fare da spalla a Tajani, il neo-segretario del PD, Nicola Zingaretti, passato armi e bagagli con il golpismo a stelle e strisce, che si straccia le vesti con una preoccupazione degna di miglior causa, in perfetta continuità con Matteo Renzi e i suoi boys.
Ma un colpo di Stato è la presa violenta e rapida del potere politico che rompe la legalità costituzionale e le norme di successione tra i poteri. E’ molto diverso da una ribellione, da una rivolta, da un putsch, da una guerra civile o da una rivoluzione. Un golpe deve paralizzare il funzionamento delle istituzioni e dello Stato, neutralizzare il resto delle FF.AA., prendere il controllo di elementi e punti strategici come le comunicazioni, i trasporti terrestri, aerei, etc. Non è successo nulla di tutto ciò, nonostante la grancassa mediatica internazionale dei latifondi della disinformazione di massa che cercano di convincerci del contrario con polpette avvelenate, dipingendo i golpisti come “difensori della democrazia e della libertà”, “maggioranza della popolazione” e di “centrosinistra”.
Nel 2002, il golpe contro Hugo Chavez aveva l’appoggio dei vecchi partiti dell’opposizione, della Confindustria locale, dell’alta gerarchia cattolica, di alcuni settori delle FF.AA. e naturalmente della Casabianca. Invece, questa ennesima farsa di golpe non ha avuto il sostegno delle Forze Armate, del resto dell’opposizione, e men che meno della popolazione. Per quanto riguarda le prime, sono poche decine i militari coinvolti, per lo più di basso rango (25 hanno chiesto asilo all’ambasciata del Brasile di Bolsonaro). I settori più responsabili dell’opposizione hanno da subito preso le distanze, stizziti e spiazzati dalla nuova avventura. E la scarsa popolazione che ha risposto all’appello dei golpisti è sempre quella dei quartieri ricchi della capitale, che non si rassegna al fatto che il Paese non è più nelle loro mani e che scimmiottano la guerra utilizzando manodopera dei quartieri poveri a basso prezzo.
A che serve quindi costruire uno show di questo tipo ? Le ipotesi sono diverse, ma è evidente la disperazione delle forze golpiste che non riescono a vincere nessuna elezione, nè ad abbattere violentemente il governo Maduro.
Di certo, Trump non ne ha azzeccata una.
Innanzitutto la sua amministrazione affronta problemi interni non secondari e continua a perdere pezzi. La lista è lunga. Solo qualche giorno fa si è dimesso Rod Rosenstein, vice-procuratore del Dipartimento di Giustizia e responsabile della nomina di Robert Muller, incaricato di indagare sulla cosiddetta “ingerenza russa” nell’elezione di Trump. Con più di 30 milioni di poveri, gli Stati Uniti non sono certo esempio di “buon governo” e non c’è niente di meglio che inventare nemici esterni da qui alle elezioni per distogliere l’attenzione dai problemi sociali. La guerra commerciale con la Cina è un altro capitolo che si aggiunge alle continue minacce di Trump, elargite generosamente a destra e a manca, ed alla perdita di egemonia del dollaro su scala globale. Certo il bottino è ghiotto (non solo di petrolio), ma Trump è riuscito a trasformare il Venezuela in un problema geo-politico mondiale, con l’entrata di Cina e Russia a difesa del governo bolivariano. Dopo la strategia degli anni passati dei “golpe blandi”, mediatici, istituzionali e giudiziari, del “soft power” di Obama, contro il Venezuela si ritorna ad una politica di “hard power”, decisamente più aggressiva.
In Venezuela, la parte golpista dell’opposizione deve “guadagnarsi il pane” e dimostrare che i fiumi di dollari investiti dagli Stati Uniti portano a qualche risultato, cosa che fino ad oggi non è avvenuta. Al contrario, l’opposizione è litigiosa e divisa, la parte golpista appare sempre più isolata, con la sua base demotivata ed incapace di allargare il consenso. L’auto-proclamato presidente non governa neanche nel suo giardino di casa, e l’auspicata divisione delle FF.AA. non si è prodotta. I continui appelli alla guerra civile e all’invasione straniera non sono visti di buon occhio dalla maggioranza della popolazione che vorrebbe vivere in pace. L’appoggio dichiarato di Guaidó alle sanzioni per mettere in ginocchio il “dittatore ed il suo regime di usurpatore” ha solo provocato difficoltà sempre maggiori per il ceto medio (che cerca di emigrare) ed i settori popolari che non si prestano a sollevarsi contro “il governo che affama”.
Certo, l’ipotesi di operazioni di “falsa bandiera”, insieme alla provocazione continua per far reagire il governo e così “giustificare” l’intervento esterno (diretto o per procura), è sempre tra le più accreditate.
Ma come segnala qualche analista, questa ultima avventura è decisamente un boomerang per i dirigenti golpisti. Leopoldo Lopéz si è rifugiato in un’ ambasciata, ed è annullato come carta di ricambio per la politica locale, insieme alla sua creatura Guaidò. Hanno bruciato i loro uomini dentro le FF.AA. e frustrato ancor di più i propri militanti. Hanno coesionato il governo Maduro e dimostrato l’impossibilità (per il momento) di disfarsene con una strategia violenta.
Per il processo bolivariano va tutto bene allora ? Niente affatto.
Gli Stati Uniti non molleranno, cercando di combinare azioni su diversi piani, a partire da quello economico. L’obiettivo dichiarato (Bolton dixit) è strangolare l’economia (farla urlare come diceva Nixon ai tempi di Allende) grazie alle sanzioni, al furto vero e proprio delle risorse finanziarie del petrolio e dell’oro depositato nelle banche europee e di quanto riescono ad arraffare. Anche con queste risorse stanno finanziando il golpismo. Oltre all’inflazione indotta, pesa come un macigno il bloqueo sulle transazioni finanziarie che impedisce l’acquisto di cibo e medicine da parte del governo, che affronta inoltre il grave problema della corruzione.
Sul piano militare, oltre alle minacce dirette, la Casabianca punta al rafforzamento della quinta colonna interna e della “contra anti-chavista”, integrata da dissidenti delle FF.AA. venezuelane, criminalità organizzata, paramilitari colombiani, e mercenari internazionali reclutati attraverso imprese private come la famigerata Blackwater, già attiva in Colombia, in Iraq ed altri teatri di guerra. Il compito è quello di distruggere infrastrutture, sabotare, assassinare dirigenti sociali e politici, e se possibile gli alti gradi delle FF.AA..
Nella guerra ibrida di quarta o quinta generazione un posto di tutto rispetto lo occupa la “guerra cibernetica” di cui c’è stato un primo assaggio con il black out che ha messo in ginocchio l’infrastruttura elettrica e i rifornimenti idrici per diversi giorni con gravi disagi nella vita quotidiana, e che ha messo nel conto i possibili morti negli ospedali.
Nella “guerra a spettro completo”, continuerà l’aggressione diplomatica, e naturalmente quella mediatica grazie al controllo della disinformazione su scala globale. A quest’ultima si aggiunge la manipolazione sulle reti digitali (cosiddette sociali) il moderno terreno di combattimento.
Il processo bolivariano non può permettersi di abbassare la guardia.

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