A differenza dell’Italia, non solo i
partiti e le organizzazioni della sinistra marxista e antimperialista ma
anche i democratici socialisti si oppongono all’aggressione
imperialista del Venezuela.
Nel momento in cui l’amministrazione Trump
esce apertamente allo scoperto portando avanti l’ennesima,
spregiudicata, aggressione imperialistica, un aspetto sicuramente
positivo, pur nella tragedia che incombe sulle classi popolari
venezuelane, è certamente rappresentato dalla unanime reazione da parte delle principali componenti della sinistra marxista e anticapitalista statunitense,
con prese di posizione chiare e inequivocabili e con una serie di
iniziative di protesta contro il governo federale e in solidarietà con
il popolo venezuelano e con il governo bolivariano guidato da Nicolás Maduro.
Un’importante iniziativa è stata lanciata dal Workers World Party (WWP) attraverso un appello pubblicato sul giornale Workers World
che invita i lavoratori a scendere in piazza ed aderire alle decine di
manifestazioni promosse da diverse organizzazioni in altrettanti centri
urbani sparsi in tutto il territorio nazionale, dalla costa atlantica a
quella pacifica, e tutte caratterizzate dallo slogan Hands Off Venezuela! (Giù le mani dal Venezuela!).
Il People’s World, organo del CPUSA (Communist Party of USA, partito comunista degli USA) è uscito nei giorni scorsi con un editoriale
nel quale evidenzia come l’opposizione al tentativo di colpo di stato
imperialista degli USA in Venezuela va collegata all’opposizione che
negli Usa si registra nei confronti dell’amministrazione Trump, in
difesa dei lavoratori e delle classi popolari sotto attacco sia in
patria che all’estero. Si sottolinea, infatti, che un successo del colpo
di stato USA in Venezuela finirebbe con l’indebolire anche il fronte
interno, rappresentando una diretta minaccia alla democrazia, sia pur
nella sua natura rappresentativa e borghese, e rafforzando la tendenza
ad un’involuzione autoritaria delle istituzioni federali, tendenza che sta caratterizzando questa fase della presidenza Trump. Che ha ormai messo da parte le oscillazioni e le apparenti contraddizioni che avevano caratterizzato le fasi precedenti.
Il Socialist Worker ha pubblicato un analogo appello
firmato da una serie di partiti, movimenti ed organizzazioni di
sinistra statunitensi e latinoamericane, che anche in questo caso
denunciano senza mezzi termini il colpo di stato che il governo
statunitense ha chiaramente architettato, con una strategia che è certamente il frutto di una regia curata nei minimi dettagli già da diversi anni e che ha interessato peraltro anche la precedente amministrazione Obama. Una strategia che ha subito una chiara e netta escalation
imperialista con l’amministrazione Trump, in particolare grazie al
ruolo di alcuni “falchi”, quali il consigliere per la sicurezza
nazionale, John Bolton, il ministro degli esteri, Mike Pompeo, il
vicepresidente, Mike Pence, sui quali grava l’elaborazione e la
conduzione della politica estera statunitense.
Il Socialist Worker, tuttavia, ospita anche interventi critici
verso il governo bolivariano, accusato di aver praticato, in
particolare dall’avvento della crisi economica, una politica autoritaria
ed antipopolare soprattutto nei confronti di alcuni settori delle
classi lavoratrici, ed appoggiando in ciò le posizioni del movimento
venezuelano denominato Marea Socialista.
Al di là di quest’ultimo distinguo, che a prescindere
dalle critiche ci sembra francamente fuori luogo in un momento del
genere, le analisi e gli articoli pubblicati convengono nell’evidenziare
come la strategia di politica estera dell’amministrazione Trump verso
l’America Latina miri chiaramente al consolidamento del riflusso che ha
caratterizzato molti paesi dell’America Latina, passati in pochi anni da
governi progressisti a governi di destra o addirittura, come in Brasile, di estrema destra.
Questo sta permettendo all’imperialismo statunitense di riappropriarsi
della propria tradizionale sfera di influenza nel continente americano,
da sempre considerato come il proprio ‘cortile di casa’.
In questo contesto il Venezuela rappresenta naturalmente un obiettivo primario. Da vent’anni ormai, la repubblica bolivariana si è resa protagonista dell’esperienza del cosiddetto “Socialismo del XXI secolo”
ed ha quindi rappresentato per gli USA la sfida più aperta e diretta
alla propria tradizionale egemonia imperialista nell’area e specialmente
in questo paese. E da sempre, la migliore tattica per imporre la
propria egemonia economica e politica passa attraverso il legame
privilegiato con le oligarchie locali che traggono il loro potere
economico dalle relazioni privilegiate garantite dall’imperialismo USA.
Oligarchie locali che, nel caso del Venezuela, si sono adesso ritrovate
attorno alla figura, quasi sconosciuta ai più fino a poco tempo fa, di
Juan Guaidó e del suo partito di estrema destra che, ricorda sempre People’s World, ha raccolto non più del 20% dei voti alle ultime elezioni.
Se consideriamo l’ambiguità e la frammentarietà delle
iniziative registratesi nello stesso periodo in Italia ed in Europa, la
mobilitazione realizzata negli USA, pur avendo coinvolto soltanto
alcune minoranze attive e militanti, ha sicuramente avuto un impatto più
significativo grazie alla sua maggiore compattezza. Ed è questo uno
degli elementi che ha certamente spinto i Democratici Socialisti
ad esporsi apertamente contro la posizione assunta dall’amministrazione
USA, senza esitazioni e senza ambiguità, rifiutandosi di riconoscere
l’autoproclamato presidente Juan Guaidó e denunciando senza mezzi
termini l’illegittimità di un supporto militare all’opposizione
militare, anche laddove venga mascherato da operazione umanitaria.
La reazione dei Democratici Socialisti, grazie anche al risultato elettorale del novembre scorso
ha peraltro potuto far leva su una significativa visibilità mediatica.
Nei giorni successivi all’autoproclamazione di Juan Guaidó i due
principali leader di riferimento di quest’area politica, che ad oggi non
può considerarsi un partito e con qualche forzatura può essere
classificata come movimento politico, Bernie Sanders e Alexandra Ocasio-Cortez, si sono pronunciati con toni abbastanza netti contro l’interventismo USA in Venezuela. Il primo ha parlato di colpo di stato
e di ingerenze illegittime, la seconda ha ripreso un precedente
intervento della Senatrice californiana Ro Khanna, anch’essa
appartenente ai Democratici Socialisti, che condannava quella che ha
definito “investitura” da parte degli USA verso Juan Guaidó e
soprattutto condannava le sanzioni economiche statunitensi al Venezuela come principali responsabili del processo di iperinflazione
in corso nel paese. Vi è tuttavia da aggiungere che entrambi hanno
preso le distanze dal governo di Maduro, senza per altro attaccarlo
direttamente, ma evocando le violenze contro la popolazioni e un deficit
di democrazia che andrebbe ripristinata. In ogni caso è una posizione,
per quanto moderata e cerchiobottista, molto più chiara e utile rispetto
a quella molto più ambigua se non addirittura reazionaria assunta da
tante forze della sinistra europea, e purtroppo non soltanto dei partiti
socialdemocratici dai quali era prevedibile.
Questo ha portato ad un innalzamento del livello
dello scontro tra Democratici Socialisti e Trump, fatalmente virato
sulla politica interna, con un uso strumentale della vicenda venezuelana
da parte del presidente. Trump, infatti, appoggiato da alcuni media espressione della destra conservatrice, ha pensato bene di cogliere la palla al balzo per attaccare i Democratici Socialisti
utilizzando la situazione venezuelana come spauracchio verso
l’elettorato ‘moderato’ e cercando di far passare il messaggio che gli
USA. se finissero governati da loro, farebbero la stessa fine del
Venezuela. Un sapiente mix di sofisticata manipolazione della realtà,
dove il Venezuela bolivariano passa da vittima a carnefice, condito dai
soliti luoghi comuni ormai consolidati del pensiero unico, con la ormai
ovvia demonizzazione di tutto ciò che si richiama al socialismo. Di
tutta risposta, la Ocasio-Cortez ha respinto al mittente le accuse
evidenziando come questo attacco non è altro che il sintomo di una
crescente paura da parte di Trump rispetto alle recenti proposte di
tassazione dei redditi più alti per finanziare una riforma
dell’assistenza sanitaria, misure che, a detta della giovane deputata,
stanno riscuotendo ampia popolarità nell’elettorato americano.
09/02/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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