Da
più di una settimana è di nuovo bloccato il porto di Gioia Tauro, sotto
la minaccia di nuovi licenziamenti, circa 500 questa volta.
Dopo
il fallimento dell’incontro di martedì, 19 febbraio, al ministero dei
trasporti tra gli attori interessati – a cui l’azienda Medcenter
container Terminal (MCT) non si è presentata – si acuisce lo scenario di
incertezza e timore per i licenziamenti in vista e i volumi di traffico
persi dallo scalo negli ultimi anni. La promessa di 120 milioni di
investimenti da parte dell’azienda e l’aumento dei volumi, per rimontare
dai 2,4 milioni di teu (unità di misura) di oggi a 4, tra due anni,
sembra più una strategia per far rientrare al lavoro gli operai usando
questa favolistica ripresa del porto, che suona quasi come una burla o,
per il momento, come un ‘contentino’ senza fondamento.
Un
altro rantolo nella lenta agonia del porto di Gioia Tauro, dove in meno
di due anni l’azienda terminalista ha espulso un terzo della forza
lavoro, licenziando 377 lavoratori, in parte poi reintegrati dal
tribunale di Palmi nell’estate del 2017, uno dei motivi con cui
l’azienda sembra voler giustificare ora i nuovi licenziamenti.
Anche
in quell’occasione, nei mesi della vertenza sui vecchi licenziamenti,
tra la fine del 2016 e il 2017, il porto è stato più volte bloccato
dagli operai in sciopero. Si è poi passati alla fase degli incontri con
tutti gli attori interessati e ai viaggi verso Roma, al ministero dei
trasporti, per discutere con ministri e sottosegretari dei piani di
reintegro, dell’agenzia portuale e degli investimenti milionari, per
rilanciare il porto ed evitare, senza riuscirci, lo scoglio di una seria
crisi industriale.
Intanto,
dal 2017 al 2018, il porto calabrese ha visto calare i traffici del
12,5%; dal 2007 ad oggi il porto è sceso dal primo al nono posto.
Tutto
questo, a dire il vero, era stato ampiamente previsto, così com’era
evidente che non ci sarebbe stato un rilancio del porto di Gioia Tauro,
nonostante il programma quadro e le altre toppe messe ad arginare la
falla dei mancati investimenti e degli errori aziendali.
Le promesse mancate
In
realtà a Gioia Tauro, nonostante le promesse, di investimenti e
innovazioni se ne sono visti pochi sulle banchine, perché il
terminalista non ha investito.
Già
circa un anno fa, nel marzo 2018, il commissario straordinario
dell’autorità portuale di Gioia Tauro, Agostinelli, dava all’azienda un
aut aut: in 15 giorni MCT avrebbe dovuto fornire un programma
dettagliato dei piani d’investimento e dei volumi di traffico previsti;
informazioni non disponibili in nessun atto pubblico, stando a quanto
sostenuto dal commissario speciale che si preoccupava di capire: “dei
155 milioni di euro investiti dall’Autorità portuale nel terminal e
dell’interesse pubblico che lo Stato ha su questa infrastruttura. Io non
ho il mandato per fare la guerra al concessionario ma vorrei capire se
con i 155 milioni investiti dal pubblico questo terminal è produttivo e
quale ‘prognosi’ di produttività avremo”.
Insomma
il commissario si preoccupava già un anno fa di mettere nero su bianco
gli impegni che l’azienda intendeva perseguire. La risposta della
Medcenter container terminal, fu tutt’altro che rassicurante accennando a
dei contrasti con l’azionista-cliente MSC. Motivi che il commissario
Agostinelli trovò fragili, tanto da dichiarare che “le dinamiche
aziendali del concessionario interessano fino a un certo punto. Se il
cliente non va bene ci sarà un altro cliente. Che mi si dica che i loro
accordi non funzionano a me non interessa. A me interessa che il
terminal è poco produttivo in questo momento. Il decremento dei volumi è
sotto gli occhi di tutti e non è stato smentito dal concessionario”.
Questo
diceva il commissario straordinario dell’autorità portuale all’incirca
un anno fa. Da allora non ci sono state inaspettate riprese. Il rilancio
del porto di cui tanto si discute non sembra, per il momento, aver
partorito nuove soluzioni, e le stesse fragili promesse di sviluppo
legate all’istituzione della famosa Zes appaiono incerte, tanto da non
poter immaginare, oggi, un presente o un futuro roseo per la piana, per i
disoccupati/e, i licenziati degli ultimi anni, in attesa di un
reintegro che sembra allontanarsi sempre più, nonostante molti di loro,
come accennato, siano stati reintegrati dal tribunale di Palmi.
La strana ‘sorpresa’ dei licenziamenti e le vecchie politiche di sviluppo
Ma
veniamo a oggi, di nuovo l’azienda minaccia il licenziamento per
centinaia di portuali. Stranamente alcuni rappresentanti sindacali si
dicono sorpresi di questi nuovi licenziamenti, anche se, in effetti, non
ci voleva molto a capire che il porto stava andando a picco per cause
solo in parte strutturali e molto di più indotte dalla negligenza dei
due azionisti MCT, Medcenter container terminal, compartecipata al 50%
da Contship e MSC. Quest’ultima, la Mediterranean shipping company, è
anche l’unico armatore che usa lo scalo gioiese al momento. Stiamo
parlando di grandi imprese del settore della logistica integrata che
negli ultimi anni hanno risposto alla crisi con innovazioni e
ristrutturazioni, per ridurre la spesa e mantenere alti i profitti, in
particolare riducendo il personale e disinvestendo, come a Gioia Tauro,
spostando da qui parte dei traffici in porti più convenienti.
Nella
vicenda Goia Tauro non tutto è chiaro. C’è poi la questione della
revoca delle concessioni per la gestione del porto – azzerare e cercare
nuovi clienti affidabili, per poi ripartire con un nuovo gestore o
armatore – ma questa prospettiva dai lavoratori è percepita con il
timore di un’ulteriore perdita di tempo. Quello che miracolisticamente
molti auspicano, dai sindacati ai sindaci e politici a vari livelli, è
che i due contendenti trovino una via per riconciliarsi in vista di una
ripresa dei volumi di traffico negli anni a venire, anche grazie alla
presenza della Zes – la famosa Zona economica speciale – ancora in alto
mare e di un migliore adeguamento infrastrutturale con il gateway
ferroviario e il bacino di carenaggio: il primo non ancora ultimato e il
secondo ancora da concepire.
Proprio
sul bacino di carenaggio d’altra parte sarebbe più che mai opportuno
comprendere e vigilare per ridurre i danni che questo tipo di opera
comporta per l’ambiente marino, ma per il momento non se ne parla. In
ogni modo al di là delle opere, da finire o intraprendere, il nocciolo
della questione che continuamente e non a caso viene omesso nella
discussione pubblica è se per l’ennesima volta non si stia puntando su
un modello di sviluppo sbagliato.
La
questione è centrale, perché invece di dare per scontato che lo
scenario delineato per la Piana sia non solo fattibile ma anche il
migliore, si dovrebbe provare ad immaginare scenari alternativi di
sviluppo, cosa che al momento non è tra le priorità, eppure sarebbe
quanto mai necessario capire se il modello prefigurato è sostenibile, se
ci sono alternative virtuose e questo non per il capriccio di
‘’inventarsi qualcosa di nuovo’’, ma alla luce del fatto che il modello
centro-periferia, tipico ad esempio, degli interventi della Cassa per il
mezzogiorno, decisi a Roma e imposti al Sud, non sempre ha funzionato,
come dimostra la storia dello sviluppo industriale al sud e le critiche
di studiosi, si pensi, ad esempio, agli studi dello storico Oscar Greco,
che ne hanno mostrato i limiti.
Non
possiamo qui riassumere la diatriba sui modelli di sviluppo, e il
confronto, più o meno serrato tra le scuole di pensiero nel corso degli
anni, ci limitiamo a evidenziarne alcuni aspetti nodali, rinviando ad
alcuni testi per approfondimenti 1.
Ci
limitiamo solo a segnalare che le politiche regionali per lo sviluppo –
un aspetto importante per comprendere come per colmare il divario e gli
squilibri tra aree geografiche – nord/sud sono state adottate politiche
di sviluppo, si pensi alla Cassa del Mezzogiorno negli anni ’60 – che
hanno acuito il male più che curarlo. L’idea cardine era quella per cui
lo squilibro tra aree centrali, più ricche e industrializzare, e quelle
periferiche, poteva essere ridotto o superato attraverso piani di
sviluppo trainati dal centro e dalle risorse statali.
Rintracciare
nella storia recente i guasti del modello adottato allora, per evitare
di compierli nuovamente, sarebbe cosa buona e giusta. Allora tocca
guardare con occhio attento agli interventi delle politiche regionali:
come ad esempio usare investimenti e imprese a partecipazione pubblica
nelle aree fragili del paese, marginali, creando, come vedremo,
un’economia periferica – dipendente dal centro – per i decenni a venire.
Non possiamo qui soffermarci sulle origini del modello di cui stiamo
trattando che risalgono ad un lavoro dei primi anni ’50 del secolo
scorso di Francois Perroux, un economista francese. Ci limitiamo solo a
ricordare che vari perfezionamenti della teoria centro-periferia sono
stati poi elaborati da vari autori, tra questi ricordiamo gli studi
sulla Calabria del compianto Nanni Arrighi e di Fortunata Piselli, ora
tradotti e raccolti in un libro dal titolo Il capitalismo in un contesto ostile,
che ben descrive gli scenari socio-economici che si delineano a partire
dalla crisi ottocentesca del latifondo che dà origine a tre modelli di
sviluppo riferiti a tre aree: quella del Crotonese, del cosentino, e di
Gioia Tauro.
Quest’ultima da metà dell’ottocento segue un percorso diverso dalle altre due aree – spiegano i due studiosi: “Nella
Piana di Gioia Tauro, invece, il latifondo contadino si evolse in un
modo che ricorda quella che Lenin ha definito la “via degli agricoltori
(farmers) o via americana”: i contadini diventavano agricoltori che
producevano per il mercato. Alcuni di loro si trasformarono in piccoli
capitalisti che impiegavano lavoratori salariati per coadiuvare in
affitto parte del lavoro familiare, altri in semiproletari che offrivano
in affitto parte del lavoro familiare per integrare i guadagni
provenienti dalla vendita dei prodotti. In questo caso, i proprietari
generalmente vendevano parte della loro terra ai contadini-coltivatori
più ricchi, continuavano a riscuotere le rendite su un’altra parte, e
diventavano imprenditori capitalisti di media grandezza in un’altra
parte ancora dei loro possedimenti’’.
La
produzione di olio, agrumi e vino erano le attività prevalenti
saldamente controllate a livello locale anche con metodi criminali, per
la definizione dei prezzi, o l’uso e l’allocazione di lavoratori nelle
stagioni di raccolta.
Nella
post-fazione Fortunata Piselli spiega quali sono le permanenze, le
strategie di resistenza alla periferizzazione, e i cambiamenti rispetto
al passato. In sintesi, la Calabria rimane, ancora oggi, una regione
periferica, in cui è possibile però rintracciare delle strategie di
resistenza alla periferizzazione. Quali? In primis, spiega Fortunata
Piselli – attraverso ‘la clientela e la manipolazione clientelistica per
entrare nelle catene di redistribuzione della ricchezza (fondi
pubblici, posti di lavoro, appalti)’. Poi con la vecchia valvola
dell’emigrazione, questa volta, intellettuale – migliaia di giovani
partono dal sud per andare a studiare e cercare lavoro altrove. Ed
ancora, con la criminalità, gli unici attori – spiega la studiosa – che
hanno avuto la capacità di estendersi a livello nazionale ed
internazionale, con imprese di vario tipo – dal traffico di armi e droga
all’investimento dei proventi in attività turistiche di lusso.
Il territorio non è un asino: la piana e l’abuso di piani di sviluppo fallimentari
Perdura
così la vecchia questione del mezzogiorno e del suo territorio,
dell’assetto socio-economico – di un sud che non sarebbe più da svendere
ma da preservare e curare con slancio partecipativo degli abitanti,
come indicato da Alberto Magnaghi in un prezioso libro che tutti quelli
che hanno a cuore il luogo in cui vivono dovrebbero leggere, in
particolare politici e pianificatori, dal titolo illuminante ‘’Il
territorio non è un asino’’.
Più
volte si è detto che la piana di Gioia Tauro, un luogo di rara
bellezza, non meritava di finire così, con ettari di terra ad un passo
da un mare oramai sempre più inquinato, consegnati al cemento, le
banchine, le gru, un via vai di camion. Un paesaggio fortemente segnato
dal porto e dall’insediamento industriale circostante; capannoni
abbandonati come immagine spettrale di ciò che resta di quelle ‘’imprese
di rapina’’ che nel mezzogiorno sono venute ad insediarsi attirate
dalla possibilità di dragare fondi pubblici per poi lasciare i capannoni
vuoti.
Il
porto nasce da un vecchio piano di sviluppo per il sud che prevedeva in
Calabria il V polo siderurgico – per fortuna mai realizzato visti i
morti che ha procurato a Taranto – e rimane ‘’cosa morta’’ fino a
quando, con ottimo fiuto imprenditoriale, Angelo Ravano – il vecchio
patriarca del trashipmet, fondatore di Contship – lautamente agevolato
dagli aiuti statali, nel 1995, riapre il porto ai traffici
containerizzati e al transhipment con una concessione d’uso per ben 50
anni. In quella fase, l’immaginario dominante, sostenuto da varie
operazioni di marketing aziendale – come ad esempio un mega concerto di
Lucio Dalla proprio tra banchine e gru – presentava quello di Gioia
Tauro come ‘’il porto dei miracoli’’.
Negli
anni è diventato uno dei maggiori scali del mediterraneo, anche grazie
al lavoro di oltre un migliaio di portuali, che hanno lavorato in
condizioni peggiori rispetto ai loro colleghi di altri porti storici.
Gioia Tauro è stato all’inizio quello che il letteratura viene definito
un green field, un prato verde a bassa conflittualità operaia e
ad alta intensità di sfruttamento, che ha retto fino ad un certo punto,
facilitato da una scarsa esperienza sindacale e una certa arrendevolezza
alle esigenze spropositate del management per ritmi ed orari di lavoro.
Tuttavia, l’imposizione della pace sociale è durata una manciata di
anni, per poi far riemergere apertamente il conflitto sulle condizioni
di sicurezza lavorativa, i trattamenti salariali; l’aumento della
precarietà e di un regime produttivo sfiancante, stressante e pericoloso
per i portuali.
Purtroppo,
la critica a questo modello non sembra uno dei problemi all’ordine del
giorno, come molte altre cose che riguardano gli abusi sui luoghi e
sulle persone.
Che
cosa è se non un abuso far vivere centinaia di persone in condizioni
disumane come a Rosarno e aspettare che ci sia sempre una nuova morte,
come per Moussa Ba, 29 anni, senegalese, a sommarsi alle altre vite
perse nei roghi delle baracche per ridestarci?
Infine,
per chiudere senza concludere, spostiamoci per un attimo dal sud Italia
al Portogallo, dove a dicembre scorso, dopo 40 giorni di sciopero dei
portuali di Setubal contro la precarietà, i piazzali erano pieni di auto
Volkswagen. Certo noi siamo in Italia, al sud, e non in Portogallo, ma è
meglio erudire Toninelli sul fatto che le lotte dei portuali possono
essere molto difficili da governare soprattutto quando non si ha ben
chiaro cosa fare o, peggio ancora, quando si usano vecchie ricette di
sviluppo oramai inservibili, quelle che appunto trattavano il
‘territorio come un asino’.
1 Il capitalismo in un contesto ostile Arrighi-Piselli; Lo sviluppo senza gioia di Oscar Greco.
Nessun commento:
Posta un commento