Dopo
vent’anni al potere, le riforme sociali e redistributive introdotte dai
governi di Hugo Chavez e Nicolás Maduro hanno trasformato la società
venezuelana. In due decenni il governo popolare ha cercato, con
risultati spesso lusinghieri, di sradicare la povertà estrema,
combattere le disuguaglianze e cambiare le istituzioni politiche per
trasferire parte del potere decisionale direttamente alle classi
popolari.
Vent’anni di Chavismo hanno anche spostato enormemente in
avanti il confine di ciò che si può pensare, di ciò a cui un paese può
aspirare. Il sottosviluppo ed il colonialismo economico non sono
necessità, sono fenomeni storicamente determinati che possono essere
combattuti ed affrontati, cercando di costruire una società che metta al
centro delle priorità i bisogni e le necessità di chi è sempre stato
spogliato di ogni minimo potere decisionale. È indubbio, però, che le
politiche attraverso le quali si è cercato di raggiungere questi
obiettivi abbiano implicato un conflitto con i settori economici che
hanno comandato nel Paese per decenni: si tratta, fondamentalmente
dell’oligarchia tradizionale e delle grandi imprese multinazionali.
La
maggior parte delle analisi prodotte dai media mainstream ha presentato
l’attuale situazione in Venezuela come il risultato ovvio e naturale
delle riforme socialiste.
Non stupisce la disonestà intellettuale e politica di chi, fin dal
primo giorno di insediamento al potere di Chavez, ha condotto una guerra
sporca – a volte a bassa intensità, a volte direttamente con le
sembianze di un colpo di Stato – contro un Governo che metteva a
repentaglio i privilegi di stampo coloniale delle classi dominanti.
Proprio
per evitare di dare fiato ai luoghi comuni ed alle banalità con i quali
siamo bombardati quotidianamente, riteniamo sia utile iniziare a
riflettere sulle cause profonde delle difficoltà economiche che hanno
colpito il Venezuela,
in particolare negli ultimi anni.
Come cercheremo di argomentare, uno
degli aspetti cruciali, per la sopravvivenza ed il futuro successo
dell’esperienza rivoluzionaria, risiede nella capacità di affrontare la
dipendenza dalle esportazioni di petrolio, una dipendenza che è stata
usata e sfruttata dai nemici (nazionali ed internazionali) delle
trasformazioni economiche e sociali portate avanti da Chavez e Maduro.
Pertanto, nel nostro collettivo c’è anche spazio per un giovane
economista e compagno sudamericano che ci aiuta a fotografare meglio la
situazione economico-politica del Venezuela.
Sono giorni, mesi tristi per l’America Latina.
Un governo smaccatamente neoliberista, in Argentina, vede aumentare
sostanzialmente il debito estero del Paese e, di conseguenza, si trova a
necessitare di ulteriori finanziamenti dal Fondo Monetario Internazionale.
Ma la tristezza non riguarda solamente l’Argentina: un’amministrazione
para-fascista è al potere in Brasile. In entrambi i casi, siamo di
fronte a governi fondamentalmente autoritari per quanto riguarda i diritti civili e neoliberisti in campo economico.
Con il Governo Bolsonaro, poi, osserviamo il materializzarsi di
un’esperienza storica senza precedenti: un Governo eletto (più o meno)
democraticamente che adotta come punti di riferimento programmatici i
cambiamenti strutturali avvenuti in Cile durante la dittatura di
Pinochet.
In
questo contesto di generalizzata svolta a destra, e dopo vent’anni di
governi popolari e progressisti che hanno sensibilmente migliorato gli
standard di vita delle classi lavoratrici, l’esperienza rivoluzionaria venezuelana si trova ad un punto di svolta.
Circa un mese fa, in Venezuela, è iniziato il più assurdo e ridicolo
tentativo di golpe che la storia ci abbia mai posto di fronte. Il 23
gennaio scorso Juan Guaidó, presidente dell’Assemblea Nazionale
venezuelana dal 5 gennaio 2019, ma prima di allora sconosciuto alla gran
parte della popolazione, si è autoproclamato dal nulla presidente ad interim del Venezuela nel corso di una manifestazione a Caracas.
L’auto-proclamazione
di Guaidó era stata preceduta il 22 gennaio da un messaggio di appoggio
del vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence (un’auto-proclamazione annunciata il giorno prima: curioso, no?): “A nome del presidente Donald Trump e di tutto il popolo statunitense, lasciatemi esprimere il più deciso appoggio degli Usa al popolo del Venezuela che alza la sua voce per un appello alla libertà“.
Da quel giorno è iniziata una vera e propria strategia di
delegittimazione, da parte degli Stati Uniti e dei governi occidentali
filo-americani, del regolare
risultato elettorale che aveva condotto, ai primi di gennaio di
quest’anno, all’elezione democratica dell’attuale presidente del
Venezuela Nicolas Maduro. Questa strategia criminale è stata portata
avanti nel segno di un sillogismo che definire curioso è quanto meno
riduttivo: se una minoranza della popolazione venezuelana critica il
presidente del Venezuela regolarmente eletto ne segue logicamente che si
debba andare nuovamente al voto!
Il
caos attuale mette seriamente a repentaglio le molte conquiste in campo
sociale ottenute dalle amministrazioni Chavez e Maduro. Solo per dare
qualche cifra, mentre
al momento della salita al potere di Chavez, agli inizi del 1999, la
povertà colpiva il 42,8% della popolazione, nel 2013 (anno della morte
di Chavez), l’indice di povertà era sceso al 29,5%.
Alla fine del 2015, tuttavia, la povertà era tornata ai livelli
precedenti al 2006 (secondo dati della Banca Mondiale), colpendo circa
un terzo della popolazione. Con l’intensificarsi della guerra economica
ad opera degli Stati Uniti e con i prezzi del petrolio in calo, si
potevano già intuire le prime avvisaglie di quanto possa essere
difficile consolidare e difendere un’esperienza di governo popolare e
socialista. I problemi strutturali dell’economia venezuelana ed una
serie di nodi irrisolti iniziavano a mostrarsi nella loro insidiosità.
Soprattutto
chi ha a cuore l’esperienza bolivariana in Venezuela quale fenomeno
emancipatore delle classi subordinate e vuole, dunque, lavorare per
ridare slancio e vigore ad un progetto politico che mette al centro
della scena gli ultimi, ha il dovere di provare a fare luce su una serie
di criticità ed in particolare sulla principale.
Con
l’espressione ‘l’uovo del serpente’ si tende ad identificare il germe,
l’origine di un problema latente ma che incombe inesorabile. L’uovo del
serpente, in questa situazione, non è differente da quello che ha fatto
abortire altre esperienze di governi popolari in America Latina.
Pontificare da una tastiera, in un comodo ufficio, è semplice.
Affrontare e risolvere certi nodi nel mezzo di una pratica
rivoluzionaria, con la necessità di dedicare la maggior parte delle
proprie energie mentali e fisiche a difendere quotidianamente,
centimetro per centimetro, le conquiste sociali dalle ingerenze
statunitensi e dalla guerra civile delle classi (a lungo) privilegiate, è
quasi impossibile. Rimane però il fatto che i progressi nella
diversificazione produttiva dell’economia venezuelana sono stati
insufficienti. In altre parole, dopo due decenni di Chavismo, il consumo
medio di un lavoratore contiene ancora molti beni che hanno bisogno di essere importati.
Ciò implica che, per poter affrontare tali consumi, la dipendenza del
Venezuela da una valuta internazionale è ancora molto forte.
Gli
avanzamenti e le conquiste ottenute dal Chavismo sono innegabili. Dopo
la salita al potere di Chavez nel 1999, il Paese ha sperimentato ampie
riforme, tra cui una nuova Costituzione nel 1999, poi emendata nel 2009.
Le nuove fondamenta legali dello stato venezuelano dichiarano illegali
monopoli e cartelli e pongono le basi per la nazionalizzazione di
industrie chiave, come l’acciaio ed il settore bancario. Allo stesso
tempo, programmi di contrasto alla povertà hanno incluso cure sanitarie
gratuite, sussidi per l’acquisto di beni alimentari ed una riforma
agraria per garantire la sovranità alimentare (prima di Chavez, il 75%
dei terreni coltivabili era nelle mani del 5% dei proprietari terrieri,
mentre il 75% dei [piccoli] proprietari controllava solamente il 6%
delle terre disponibili). Grazie all’ampliamento dei diritti sociali, la
povertà è stata ridotta del 30% tra il 1995 ed il 2005, mentre la
percentuale di popolazione in condizioni di povertà estrema è passata
dal 32% al 19%. Allo stesso tempo, il coefficiente di Gini – che misura
le disuguaglianze nella distribuzione del reddito – è sceso dal 45,4%
del 2005 al 36,3% attuale. Inoltre, il Governo ha continuamente cercato
di rendere effettiva la partecipazione delle classi subalterne alla
gestione del potere, modificando la struttura dello Stato attraverso
riforme radicali delle istituzioni. È però innegabile che la dipendenza del Venezuela dalle esportazioni del petrolio
si è approfondita, durante gli anni del Chavismo: nel 2017, il 95% dei
proventi che il Venezuela riceve dall’estero venivano dal petrolio,
rispetto al 67% di venti anni fa.
Ciò
è avvenuto in un contesto non dissimile da quello di altre esperienze
progressiste latino-americane, in cui politiche di redistribuzione della
ricchezza e del potere non sono state accompagnate, anche lì, da
necessarie ma non semplici politiche di industrializzazione. La
persistenza di una dipendenza strutturale può essere, infatti,
riscontrata anche in altre recenti esperienze di governi popolari, tra
cui l’Argentina (2003-2015) e il Brasile (2003-2016).
Come
mai questo elemento è così importante per capire la situazione attuale
del Venezuela? Perché in Paesi che hanno bisogno di importare una quota
rilevante di prodotti, la distribuzione del reddito non dipende
esclusivamente dal potere contrattuale della classe lavoratrice. Né il
fatto che il Governo sia dalla parte della classe lavoratrice stessa è
di per sé sufficiente a difendere il potere d’acquisto dei salari.
Giocano infatti un ruolo fondamentale le condizioni esterne, come i
prezzi internazionali e la domanda estera per i prodotti domestici. Nel
caso venezuelano, ad esempio, il prezzo internazionale del petrolio è
risultato essere una variabile fondamentale per garantire salari
dignitosi alla classe lavoratrice. La ragione di ciò risiede nel fatto
che la
valuta estera, necessaria ad acquistare i beni di importazione
consumati dalla classe lavoratrice, è ottenuta principalmente attraverso
l’esportazione di petrolio.
Dal 2012 e fino alla metà del 2016 il prezzo del petrolio è diminuito
in maniera continua, causando così una diminuzione costante del valore
delle esportazioni venezuelane. La storia però non finisce qui, e al
dato economico si aggiunge quello politico. A partire dalla metà del
2016, il prezzo del petrolio ritorna a crescere, ma le esportazioni venezuelane rimangono al palo (vedi figura). Nel momento di maggiore difficoltà, infatti, il ben noto vicino di casa,
insofferente nei confronti di questo piccolo paese impegnato a
destinare i proventi del petrolio all’implementazione di politiche
sociali redistributive a favore delle classi subalterne, batte un altro
colpo. Il 2017 è l’anno delle sanzioni finanziarie imposte dagli Stati Uniti
che, di fatto, impediscono l’accesso al credito alle imprese
venezuelane che operano nel settore petrolifero. In questa maniera
diventa pressoché impossibile effettuare quegli investimenti necessari
per far ripartire la produzione, che ad oggi rimane stagnante, con
conseguenze drammatiche per la vita quotidiana della popolazione.
Ricapitolando: su di un problema strutturale, si innesta l’intervento
interessato degli Stati Uniti, che causa direttamente, e soprattutto
consapevolmente, difficoltà nell’accesso alla valuta internazionale
necessaria ad acquistare i beni di prima necessità di cui la popolazione
ha bisogno. La stessa popolazione che gli Stati Uniti ed il codazzo dei
Paesi europei sembrano avere così a cuore tanto da sostenere un golpe…
La
dipendenza strutturale rimane, in ogni caso, un elemento con cui è
necessario fare i conti. Non è neanche la prima volta che essa si
manifesta in Venezuela ed in passato ha condotto a esplosioni di
violenza e caos. L’esempio più famoso è il cosiddetto ‘Caracazo’ del
1989, una crisi sociale senza precedenti nella storia venezuelana del
ventesimo secolo, sfociata in enormi manifestazioni contro i programmi
di ‘stabilizzazione’ attuati da un governo di destra, dietro
‘suggerimento’ del Fondo Monetario Internazionale, per affrontare la
caduta nel prezzo internazionale del petrolio. Più di vent’anni dopo,
nel 2013, si potevano osservare trend simili nelle ragioni di scambio
(con questa espressione si intende il rapporto tra l’indice dei prezzi
all’esportazione di un Paese e l’indice dei suoi prezzi
all’importazione) ed un problema sostanziale tornava ad apparire: uno
squilibrio crescente tra esportazioni e importazioni che ha messo a
repentaglio l’approvvigionamento di valuta estera del Paese.
Ciò
che è accaduto a partire da questo momento, in Venezuela, è stato un
tentativo da parte dello Stato di esercitare il suo potere coercitivo
per mantenere e difendere le conquiste sociali e distributive. La
Commissione per l’Amministrazione del Cambio della Valuta (CADIVI) è
l’organizzazione governativa che controlla lo scambio di valuta con
l’estero e che dal 2003 cerca di evitare speculazioni contro il Bolivar,
la moneta nazionale. Purtroppo, tutto questo non è stato sufficiente a
risolvere i problemi di carenza di valuta estera ed ha creato, come
effetto indesiderato, un mercato nero per la valuta estera stessa.
Mercato nero in cui hanno sguazzato le classi sociali da sempre ostili
al Chavismo, le quali hanno usato alcune storture del sistema per
continuare la strisciante guerra civile economica con cui cercano, dal
1999, di destabilizzare il governo popolare. Il sistema di cambio
ufficiale permetteva
ad importatori e possessori di una carta di credito (categoria nella
quale non rientrano milioni di lavoratori) di avere accesso a rilevanti
quantità di dollari annue ad un tasso di cambio vantaggioso. Questi
stessi dollari, ottenuti grazie al Governo, venivano poi o rivenduti
direttamente sul mercato nero, ad un tasso di cambio infinitamente più
alto, o utilizzati per comprare merci di importazione che poi venivano
vendute al tasso di cambio sul mercato ‘parallelo’ (centinaia di volte
più alto). Detto altrimenti, un gruppo di speculatori e di esponenti
delle classi più benestanti si è avvalso di una concessione del Governo
per esercitare il controllo sui prezzi interni e sul tasso di cambio
‘effettivo’, contribuendo in maniera decisiva all’esplosione dell’inflazione.
Inflazione che in Venezuela è principalmente il frutto della scarsità
di dollari (un fatto che spinge verso l’alto il ‘prezzo’ dei dollari e
quindi delle merci importate) e delle manovre degli aspiranti golpisti
sul mercato nero della valuta.
In
questo contesto di generale vulnerabilità, le amministrazioni Obama e
Trump hanno implementato una criminale politica commerciale per fermare
le importazioni americane di petrolio dal Venezuela. La caduta della
domanda estera di petrolio ha esacerbato in maniera drammatica la
riduzione degli afflussi di valuta estera derivanti dalle esportazioni.
In questo senso, è importante sottolineare come la crisi umanitaria che
sta colpendo il Venezuela sia il frutto di una deliberata politica
statunitense. Tali politiche aggressive devono essere viste come una
prova del fatto che l’ordine politico Chavista viene ancora percepito,
da parte degli Stati Uniti, come una minaccia al loro predominio
nell’intera regione latino-americana. Giova, infatti, ricordare che
l’amministrazione Chavez non solo ha nazionalizzato diverse compagnie un
tempo nelle mani di imprese multinazionali, ma allo stesso tempo, ha
dato vita ad organizzazioni intergovernative tra Paesi latino-americani
che hanno esplicitamente tenuto fuori gli Stati Uniti.
Le
intenzioni statunitensi sono ancora più evidenti quando si nota che
violazioni dei diritti umani sono avvenute con costanza e continuità
nella regione, ed in particolare in diversi Paesi tradizionalmente
alleati con gli Stati Uniti. Il Messico di Enrique Peña Nieto, oltre
alla violenza quotidiana legata al mercato della droga, ci ha regalato
il massacro di Ayotzinapa (43 studenti massacrati dalla polizia) e rimane il paese dell’America Latina dove è più pericoloso fare il giornalista (41 giornalisti uccisi nel quinquennio, con 1986 aggressioni denunciate),
ma nulla di tutto questo ha turbato il vicino di casa settentrionale.
Nel 2017, in Colombia, si sono consumati 11.718 omicidi. Tra la fine del
2016 ed il giugno 2018 sono stati uccisi più di 200 attivisti
e militanti dei movimenti sociali. Ma questi episodi non sono in
contrasto con l’anelito di libertà e giustizia che sembra pervadere gli
Stati Uniti quando si interessano del Venezuela.
Per
capire, invece, cosa si prospetterebbe in Venezuela nel caso in cui il
golpe avesse successo, può essere utile dare uno sguardo ad un esempio
mai menzionato dai media internazionali. La situazione attuale in
Honduras è, infatti, un avvertimento del quale non possiamo non tenere
conto. Il Governo democratico di Manuel Zelaya è stato spodestato, nel
2009, da un colpo di stato militare legittimato dagli Stati Uniti e, al
giorno d’oggi, il potere è retto dall’oligarca Juan Orlando Hernández.
In maniera non sorprendente, dopo il golpe non si è osservato un fiorire
di democrazia e diritti civili. Diverse organizzazioni non-governative
hanno, infatti, denunciato che il tasso di omicidi in Honduras è tra i
più alti al mondo, con giornalisti, attivisti ambientali e LBGT tra i
soggetti più vulnerabili alle violenze. Ciononostante, non sentiamo
parlare di nessun boicottaggio economico perpetrato in nome dei
‘principi democratici’, come quello imposto invece al Venezuela di
Maduro.
Del
resto, l’attuale opera di destabilizzazione dell’America Latina, ed in
particolare del Venezuela, da parte degli Stati Uniti e con la piena
compiacenza dei Paesi europei, non è certo una novità. Nel 2002 vi fu
già un tentato e fallito colpo di Stato, respinto da una enorme
mobilitazione popolare (si può vedere, al riguardo, il fondamentale
documentario ‘The revolution will not be televised’).
Di fronte al fallimento dell’attacco diretto, e di fronte alle continue
vittorie elettorali del Chavismo, la strategia è cambiata e si è
concretizzata in una serie continua di atti ostili di boicottaggio
economico, nel contesto di un generale cambio di interessi strategici
per gli Stati Uniti, con il focus che si spostava su Asia e Medio
Oriente. Se già la presidenza Obama aveva rappresentato un riaccendersi
dei riflettori sull’America Latina, con le ingerenze in Honduras e
l’inasprimento delle sanzioni contro il Venezuela, con Trump sembra
avvenire un definitivo salto di qualità, che va letto in un quadro più
ampio.
Nei
fatti, l’attuale ‘crisi presidenziale’, nel corso della quale Trump ed i
suoi alleati e portaborse latinoamericani hanno riconosciuto come
presidente ad interim
il signor nessuno Juan Guaidó, deve essere letta anche come una
reazione agli accordi bilaterali firmati da Maduro con Cina e Russia,
durante le visite ufficiali del presidente venezuelano in questi Paesi.
In aggiunta alle promesse russe e cinesi di investimenti (per la maggior
parte nella produzione di petrolio), le recenti esercitazioni militari
congiunte tra l’esercito bolivariano e le forze armate russe hanno
certamente rappresentato un ulteriore motivo di fastidio per il governo
statunitense.
Secondo
José Luís Fiori, professore ordinario di Politica Economica
Internazionale presso l’Università Federale di Rio de Janeiro, le
crescenti intrusioni di Trump nelle vicende venezuelane devono essere
interpretate come parte della competizione globale con l’amministrazione
Putin per il controllo del petrolio nei mercati interazionali.
L’alleanza che Putin sta stringendo con l’Arabia Saudita facilita la
strategia russa di spingere al rialzo il prezzo internazionale del
petrolio, mentre Trump cerca di fare pressione sull’OPEC per un ribasso
del prezzo. Il Venezuela di Maduro è un pezzo importantissimo nello
scacchiere globale, dato che si tratta del membro OPEC con le maggiori
riserve di petrolio.
Quando
si considera lo scenario geopolitico, diventa particolarmente chiaro
che ciò che succede oggi in Venezuela non ha nulla a che vedere con la
difesa di supposti ‘valori democratici’. Al contrario, sembra suggerire
che le difficoltà incontrate dal Chavismo nel liberare l’economia
venezuelana dalla sua dipendenza strutturale abbiano una loro
controparte decisiva nella brama di poteri esterni di mettere le mani
sulle risorse strategiche venezuelane e di usarle per i loro interessi, a
differenza di quanto fatto dai governi Chavez e Maduro che, tra mille
difficoltà, hanno dedicato e dedicano i proventi del petrolio a percorsi
di emancipazione sociale e di costruzione di una società non fondata
sul profitto.
Quanto accade oggi in Venezuela dimostra
quanto sia duro sostenere un processo di emancipazione nazionale e
popolare di fronte alle enormi pressioni esercitate dagli interessi
organizzati dei Paesi imperialisti.
Allo stesso tempo l’esperienza venezuelana ha rivelato e rivela, in
questi giorni di tensione, una straordinaria capacità di tenuta malgrado
la soverchiante forza esterna, le difficoltà economiche oggettive e gli
stessi limiti interni dell’esperienza bolivariana, in particolare
legati all’eccessiva dipendenza dalle esportazioni di petrolio e ad una
mancata industrializzazione effettiva.
Le
prossime settimane saranno decisive per capire l’esito politico delle
tensioni in atto. Adesso, c’è da sconfiggere un nemico potente ed
insidioso. Questa è la precondizione necessaria per poi poter riprendere
a costruire una vera esperienza socialista, facendo tesoro delle
critiche costruttive di chi crede che la rivoluzione bolivariana sia lo
strumento giusto attraverso il quale si può e si devono migliorare le
condizioni materiali di una popolazione strappata a secoli di
colonialismo e che non vuole tornare a essere carne da profitto delle
multinazionali del petrolio.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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