Intervista a Marta Cartabia, vicepresidente della Corte costituzionale,
autrice con Luciano Violante di un libro che indaga sui nodi della
giustizia. In chiave culturale.
repubblica.it s.mazzocchi
Esiste la giustizia giusta? Quella ideale,
capace di pareggiare tutti i conti e risanare tutti i torti?
La risposta
è no, ma con riserva. Perché la giustizia non può che essere un
indispensabile punto di equilibrio tra diritto, etica e religione, un
"compromesso" auspicabile che emancipa dall'istinto vendicativo proprio
della natura umana dispensando punizione e conforto. E dunque è
necessario accettare di non vedere mai del tutto soddisfatte le
aspettative individuali, perfino quando la giustizia è amministrata con
le migliori garanzie, sancite soprattutto dalle costituzioni
contemporanee. Essendo "la giustizia un'aspirazione di per sé
inesauribile".
Sul tema, complesso quanto universale, è illuminante Giustizia e Mito
(Il Mulino) scritto da Marta Cartabia, professore ordinario di Diritto
costituzionale e attualmente Vicepresidente della Corte costituzionale,
insieme con Luciano Violante, già magistrato, parlamentare e professore
ordinario di Diritto e Procedura penale. Il libro indaga l'universalità
di concetti come legge, morale e religione e si occupa di noi, nel
presente come nel passato più remoto, affrontando gli enigmi senza tempo
del diritto, sempre vivi nella società attuale. E allora ecco Antigone
ed Edipo, testimoni dell'eterno conflitto tra coscienza individuale, e
ragion di Stato, tra legge morale e legge positiva, tra verità
soggettiva e verità oggettiva, tra domanda di giustizia e intransigenza
nell'applicare quella vigente. Antigone ed Edipo, portatori di un'idea
personale di ciò che è giusto e di una convinzione caparbia che li
trascina ineluttabilmente verso la "tragica rovina".
"Diritto, religione e morale sono sempre in necessaria relazione fra
loro" avverte Marta Cartabia ,"ma allo stesso tempo sono irriducibili
l'uno alle altre".
Lo prova la storia dell'Europa nell'ultimo secolo,
quando, senza quella relazione, la legge si è fatta forza assoluta e
totalitaria. Così come non è possibile separare totalmente il piano del
diritto dal piano della morale. Perché il diritto e la giustizia, come
il diritto e la morale , devono sempre essere in rapporto tra loro e
sempre devono dialogare.
Ed è infine un'altra tragedia, l'Orestea di Eschilo, a metterci di
fronte al messaggio primario. Anche quando la giustizia è amministrata
in modo illuminato liberandoci dell'istinto vendicativo che alberga in
ogni essere umano, le aspettative individuali di giustizia non saranno
mai del tutto appagate. Questa giustizia sapiente, però, quella che
"punisce e premia", resta comunque la via migliore possibile, ancorché
"tortuosa", soprattutto rispetto al biblico "occhio per occhio e
all'eterna tentazione del farsi giustizia da sé. Perché la storia
dell'umanità dimostra che "reagire al male con il male" porta soltanto
vendetta, crudeltà infinita e distruzione.
Perché la giustizia finisce per non essere mai giusta né nei confronti delle vittime, né dei carnefici?
"Questa domanda è molto impegnativa e nessuno può pensare di offrire una
risposta definitiva. Proverò comunque a condividere alcuni spunti,
senza alcuna pretesa di esaurire la riflessione. Il primo spunto deriva
da una considerazione tanto ovvia, quanto dimenticata: la giustizia, al
pari delle altre esigenze fondamentali che albergano nel cuore umano -
come la bellezza, la verità, l'amore, la felicità - è una mèta sempre da
raggiungere. Uno splendido verso di Eugenio Montale, nella poesia
"Maestrale", ci ricorda: tutte le immagini portano scritto: "più in là".
"Più in là": la giustizia è sempre "oltre", una mèta a cui tendere in
continuazione, instancabilmente, operosamente, pazientemente, cercando
le forme più adeguate, senza mai smarrire la consapevolezza che la
possibilità di colmare pienamente il bisogno di giustizia sfugge alle
capacità umane, perché la giustizia è una aspirazione di per sé
inesauribile.
Se si smarrisce questa consapevolezza del limite e ci
lasciamo sopraffare, come ci ricordano i greci, dal peccato di hybris, non smetteremo di essere delusi e insoddisfatti. E sempre più ingiusti. Come segnalato in Giustizia e mito, è quello che ci documentano le due tragedie, Edipo re e Antigone,
in cui l'irrigidimento di tutti i protagonisti su una loro idea di
giustizia, che pur avviene in modi a ciascuno peculiari, li porta verso
la rovina tragica, proprio in nome dell'affermazione "incondivisa" del
giusto che sentono di portare in sé.
Il secondo spunto è che non bisogna dimenticare che amministrare la
giustizia significa usare un potere sulle persone. Per questo la
giustizia è un bene da maneggiare con cura.
Per illustrare questo
aspetto, mi sia permesso di ricorrere a un'altra grande tragedia, le Eumenidi
di Eschilo, dove vediamo Atena, la dea della sapienza, che trasforma le
Erinni - antiche dee della vendetta, della distruzione, della discordia
- in Eumenidi benefattrici, beneficate e bene onorate, dove la reiterazione del suffisso eu nel verso 868 insiste sul bene
di cui esse divengono partecipi e portatrici. Ma ci ricorda, inoltre,
che anche la giustizia buona e civilizzata conserva il segno dell'antica
forza e della vendetta delle Erinni.
Le Erinni restano in città: e
Atena consiglia di "non espellere dalla città tutto ciò che è pauroso:
chi degli uomini infatti è giusto se nulla teme?".
Per questo, un'altra
sorgente di antica saggezza ricorda: "non voler essere troppo giusto"
(Qoelet 7, 16). La Bibbia non intende certo biasimare l'impegno per la
giustizia, ma ammonire contro i rischi della superbia: "chi infatti si
fa troppo giusto, perciò stesso diventa ingiusto", come si legge nel
commento di Sant'Agostino proprio a quel verso."
Rapporto tra etica e giustizia.
"Il rapporto tra legge, religione e morale è il contenuto di uno dei
problemi più complessi su cui si interrogano filosofi e teologi di ogni
tempo. Non vi è dubbio che quando leggiamo in ogni codice penale che
l'omicidio è uno dei più gravi delitti, punito con le sanzioni più
severe, non possiamo non sentire l'eco del quinto comandamento: "Non
uccidere"! D'altra parte, sappiamo bene, che al di là di un
indispensabile nucleo essenziale di valori condivisi, nelle società
multietniche e multiculturali imporre con legge un precetto religioso o
morale può significare una grave compressione della libertà delle
persone e dei gruppi: una imposizione della maggioranza del momento sui
gruppi di minoranza.
Diritto, religione e morale sono sempre in necessaria relazione fra
loro, ma allo stesso tempo sono irriducibili l'uno alle altre.
L'esperienza politica del continente europeo nell'ultimo secolo ha
assistito alle gravi conseguenze che si generano quando la legge,
volendo imporre un assetto di valori, è divenuta forza tirannica e
totalitaria, nella forma dello stato etico che è inevitabilmente stato
assoluto.
Ma lo stesso è accaduto quando, all'opposto, si è tentato di
separare totalmente il piano del diritto dal piano della morale, sotto
l'influsso del positivismo giuridico: allora la legge ha finito per
diventare un puro atto di volontà indifferente al contenuto del comando
che essa poneva. E così, per altra strada, la storia d'Europa è di nuovo
stata attraversata dall'esperienza di un nuovo stato assoluto di
diverso segno. Dopo la tragica epoca dell'ingiustizia della legge con le
infami leggi razziali italiane e tedesche degli anni '30 del Novecento
si è compreso che il diritto e la giustizia dovevano tornare a
dialogare, che il diritto e la morale dovevano gravitare su orbite
distinte, ma non del tutto inincidenti."
Regole e trasgressioni. Il fine può giustificare i mezzi?
"Mai. La tentazione, per esempio, di ristabilire la giustizia reagendo
al male con il male è un dato costante della storia dell'umanità.
"Occhio per occhio": apparentemente questa è la risposta più adeguata al
risentimento adirato e indignato che ogni episodio di ingiustizia
suscita negli animi. Eppure, altrettanto costante nella storia
dell'umanità è la consapevolezza che ripagare il male con il male non
può che perpetuare una catena di distruzioni e di malvagità
interminabile. Ancora, il divieto di tortura è uno dei pochi principi
assoluti della civiltà giuridica europea, anche quando si potrebbe
ottenere, con poco sforzo e qualche forzatura, l'arresto dei
responsabili di fatti gravi ed efferati. Occorre, invece, un fatto
"spiazzante" per rompere la logica retributiva e distruttiva - "te la
faccio pagare!" - che ogni episodio di male subito tende ad innescare.
Rivolgiamoci ancora una volta alla tragedia, per la sua straordinaria energia di reiterazione
(di cui parlava George Steiner), cioè quella straordinaria capacità di
narrare storie paradigmatiche, senza tempo e di ogni tempo, e perciò
sempre attuali. L'Orestea di Eschilo narra la lunga catena di
omicidi, sanguinosi, atroci che affligge la famiglia degli Atridi, a
partire da Atreo e Tieste, seguita dalla nascita incestuosa di Egisto,
fino al sacrificio di Ifigenia, uccisa dal padre, che a sua volta induce
la madre Clitemestra ad assassinare il marito Agamennonne, eroe
vittorioso della guerra contro Troia, e poi ancora il figlio Oreste a
vendicare l'assassinio del padre con il matricidio.
La catena del male provocata dall'antica logica della "giustizia" delle
Erinni, fatta di vendetta, ira, istinto, reattività, che sembra
destinata a perpetuarsi senza fine, si interrompe grazie all'intervento
della dalla dea della sapienza, nata dalla mente di Zeus. Atena
introduce un elemento nuovo: istituisce il tribunale e il processo,
consapevole di fondare "un istituto di giustizia che resterà saldo per
sempre".
Nel processo che si svolge tribunale dominano il logos, la
parola, il ragionamento, la persuasione, la prova. Il ragionare prende
il posto dell'istinto vendicativo. La pacatezza e la riflessione, quello
della reattività. La ricerca delle prove, la verifica dei fatti e della
complessità delle circostanze, unitamente all'argomentare e al
motivare, quello del mistero. Alla fine, Oreste viene assolto con metà
dei voti a favore e metà contro. La bilancia pende a favore della
clemenza.
L'istinto vendicativo delle Erinni non è appagato dall'assoluzione di
Oreste finché, come già anticipato, Atena non le invita a diventare
Eumenidi; anche per questo, tutti leggono nell'Orestea la
celebrazione di una svolta di civiltà. La giustizia amministrata con
sapienza percorre vie lunghe e non di rado tortuose, ma contribuisce al
bene di tutti, mentre le scorciatoie sbrigative, di chi fa giustizia da
sé, noncurante delle regole, ottiene risultati effimeri: nella mitologia
greca, Dike, Eirene, ed Eunomia, rispettivamente giustizia, pace e buon
governo, sono le tre sorelle che insieme costituiscono il gruppo delle
Ore, chiamate a vegliare sulle vicende dei mortali. Come nell'affresco
del buon governo di Lorenzetti a Siena: nel Buongoverno, Giustizia
incoronata punisce e premia ispirata da Sapienza e produce Concordia;
mentre, nel Malgoverno, Giustizia sta legata ai piedi della Tirannide e
le sue bilance sono rotte".
Marta Cartabia, Luciano Violante
Giustizia e mito
Il Mulino
Pagg. 174, euro 13
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mercoledì 13 febbraio 2019
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