mercoledì 13 febbraio 2019

La conclusione inattesa sulle radici del populismo.

"Quella forza che induce l'uomo ad attaccarsi al luogo dove abita, ad addomesticare il selvaggio, a onorare l'invisibile, il demònico, a rendere intime e familiari le persone, le bestie e le cose...impegnati a recitare la commedia dell'umana continuità."
James Hillman

Siamo giunti a un punto fermo, e inatteso, nello studio delle radici del populismo. Avendo in mente la politica, perché vediamo i risultati elettorali, il declino dei partiti tradizionali, l'ambito politico sembrava quello più appropriato, ma non è così: la scoperta è che il populismo è in massima parte un fenomeno sociale, culturale, anzi identitario, e non politico.
Poi, com'è inevitabile - perché la società è sempre più forte della politica – ha trovato le sue strade politiche, ma nasce altrove, su altri piani e con altri presupposti. Questa è anche la ragione per cui vediamo (e vedremo sempre più) "le discese ardite e le risalite, e poi giù il deserto" di quei partiti che hanno interpretato in termini (solo) politici il populismo.
Possiamo addirittura dire che è un fenomeno "razionale", cioè di reazione voluta e desiderata di una parte della società (potremmo dire dell'uomo comune, per quanto ambigua questa definizione sia, ma di migliori non ne abbiamo trovato), cioè del popolo che ha trovato voce nell'universo digitale, all'impressionante cambiamento sociale e culturale di questi anni.
Perché parliamo proprio di pochissimi anni, essendo la data di nascita del populismo il 23 giugno 2016 con l'impensabile risultato del referendum inglese. Quel giorno la diga si è rotta e non solo per la Gran Bretagna, ma per tutto il resto dell'Occidente. E non è un caso che si sia rotta proprio su un referendum che aveva mischiato le carte destra/sinistra e proprio su una questione (dentro o fuori), che è molto molto vicina al dilemma identitario (noi o loro). E non è un caso che i sondaggi non avessero colto il cambiamento, come invece avevano fatto gli esperti di semantica del web.

D'improvviso tutto il mainstream politico, sinistra e destra, diventano il bersaglio. Anche la destra mainstream è battuta: Trump batte l'establishment repubblicano e Boris Johnson batte David Cameron. La valanga ha usato la Brexit, poi Trump e via via, tanto che oggi in Europa su 27 paesi superano il 50% in 5 paesi e il 40% in 12 paesi. Perciò il populismo abbatte quello che ha davanti, non importa se destra o sinistra.
C'è però una ragione se l'avversario principale è stato il mondo progressista piuttosto che quello conservatore. Perché le "ragioni" della rivolta populista sono state due: una economica e una culturale, micidialmente intrecciate.
La crisi finanziaria del 2008 ha messo in crisi tutte le economie, ma poi sono tutte risalite (tranne l'Italia, salvo che nel periodo 2014-2017), in una maniera però molto diversa dal passato. Le ha spinte l'economia digitale.
Provate a fare un confronto tra le aziende mondiali più ricche nel 2010 e quelle del 2019 (dal petrolio al digitale) e vedrete che sono tutte cambiate. L'automazione ha messo al tappeto chi non aveva (e non ha) cognitive abilities, cioè tutti i lavoratori (o le aziende) che non hanno saputo rispondere all'upgrade intellettuale del lavoro. Non avere oggi una qualche abilità intellettuale significa avere un destino da ultimi. È lui l'uomo comune che è al tappeto.
Sul piano culturale la rivolta, se possibile, è stata ancora più veemente. Il multiculturalismo e la sua promozione hanno creato prima un disagio e poi un'avversione. L'aggravante però è stato il disprezzo con cui è trattato chi semplicemente vuole conservare uno stile di vita che ritiene più adatto a sé stesso.
La celebrazione della diversità, non la coesistenza, è stata rifiutata. Qui la differenza non è di poco conto, se parliamo dell'impostazione liberal. Tradizionalmente un liberal (o un progressista) ritiene giustamente che ognuno possa/debba esprimere la sua identità. Gli Stati Uniti sono nati sulla libertà religiosa che in Europa aveva provocato guerre, distruzioni e persecuzioni.
La cultura progressista a un certo punto però ha cominciato a sostenere non solo che la diversità vada rispettata (sacrosanto), ma che la si debba preferire, che ognuno deve preferire la diversità, e chi non lo fa è "una persona orribile". Però non c'è nessuna superiorità innata della diversità rispetto alla stabilità.
Puoi indicare la società ideale, ma se obblighi le persone a quello, allora polarizzi la società: è inevitabile. Magari non si tratta di diversità di traguardo, ma semplicemente di velocità e modalità di come raggiungerlo, tuttavia l'obbligo crea la reazione.
In questo modo, gli strali della liberalizzazione dei capitali (voluta dal democratico Clinton) che ha spostato il lavoro in Asia; la ripresa dell'economia trainata dal digitale, che ha creato soprattutto lavori o molto qualificati o per nulla qualificati; il multiculturalismo che ha cambiato i quartieri periferici e i piccoli mondi che vi sono annidati (i vicini di casa, le piccole botteghe, la pressione sui servizi pubblici), hanno colpito soprattutto chi si sente (o è) meno sicuro sia sul piano economico sia su quello culturale. E, a torto o a ragione, il mondo progressista è ritenuto il responsabile di questo cambiamento.
Se il conflitto destra verso sinistra è stato modificato, invaso, surclassato dal conflitto fra identità locale e identità globale, allora è inutile e sbagliato riportare ogni cosa al conflitto destra verso sinistra. Salvini l'ha capito per tempo, perché in pochissimo tempo ha spostato la Lega dall'asse destra/sinistra all'asse identità nazionale contro identità multiculturale (globale).
Il lavoro sulle identità è diverso da quello politico tradizionale. Mentre la lotta ideologica si svolge sul piano delle idee e degli interessi economici, quella identitaria si basa sul rispetto, il riconoscimento e l'ascolto. Se è vero che il populismo è un impulso di difesa e non un'ideologia, serve a poco l'armamentario ideologico.
Non c'è nessuna evidenza scientifica per fortuna, e lo dimostra Marilynn Brewer, eminente psicologista sociale americana, per cui l'affermazione dell'identità di un gruppo sociale presuppone avere o creare un gruppo nemico.
È umano, è naturale, è ovvio che ciascuno si riconosca con quelli con cui condivide valori, storia, relazioni ("simply, we prefer people of our kind"); ma non ha bisogno per questo di un nemico. La costruzione di un nemico è sempre una costruzione artificiale.
Ben diverso è quando un gruppo nasce proprio per affermare la supremazia del suo gruppo o della sua etnia, in quel caso sarebbe ovviamente razzista, ma sono gruppi iper-residuali. Nella differenza tra affermazione del sé e affermazione della propria supremazia c'è un abisso. Sarebbe errore immenso regalare i primi ai secondi. Bisogna distinguere tra odio e conservazione. Lavorare sulle identità è un lavoro nuovo.
Mentre l'uomo comune si rivolta contro il cambiamento sociale (sentimento per altro condiviso da Angela Merkel: "il multiculturalismo porta a società parallele e quindi rimane una menzogna della vita, o una farsa"), un analogo pensiero arriva anche dagli strati elevati dell'intellettualità.
Il successo dell'ultimo libro di Douglas Murray "La strana morte dell'Europa", è un atto di denuncia della rinuncia (o del rischio della rinuncia) della società occidentale rispetto ai suoi valori costitutivi. Un'Europa che volontariamente, mentre ribadisce il valore delle sue istituzioni democratiche, rinuncia a riconoscere le sue radici storico-culturali, cioè cristiane, da cui questo mondo nasce e trova ispirazione è da suicidio.
"Siamo giustamente incuriositi e ingaggiati nel capire le culture altrui" – aggiunge – "ma dobbiamo essere consapevoli che il nostro mondo ha distillato la migliore cultura di ogni tempo, da Dante a Shakespeare, da Bach a Goethe e così via. Per altro, proprio in un mondo come il nostro può essere nato il multiculturalismo, che non si ritrova in nessuna delle altre culture oggi importate in Europa".
Non c'è perciò solo la nostalgia dell'uomo comune verso un mondo che non c'è più, che non capisce e che gli sfugge di mano, ma anche l'orgoglio occidentale, per le sue istituzioni libere, per la democrazia, complicata e noiosa, ma superiore a ogni totalitarismo e non è un caso che chi cerca di dare una ideologia alla rivolta populista (Alexandr Dugin, sopra gli altri) non ha molta stima (usiamo un eufemismo) verso la democrazia.
L'ideologia populista dice che il popolo è puro, mentre le élite sono corrotte; dice che la "vox populi" è superiore alla voce degli esperti; dice che il consenso si forma ascoltando il popolo e non con le "formalità" della democrazia; dice che conta il popolo e non l'individuo. Quando sappiamo che uno dei pilastri della democrazia è proprio la libertà individuale, l'irriducibilità del valore della persona umana. Proprio della singola persona, non del "popolo" in generale.
Il populismo perciò è un sentimento recentissimo (e i tempi e le circostanze in cui è nato contano), sociale, culturale, sentimentale che ha una grande stratificazione di significati e di implicazioni. È un impulso di conservazione, ma anche una razionale affermazione della propria visione del mondo, democraticamente, attraverso il voto.
È domanda di protezione statale, ma anche istanza di libertà individuale; è rifiuto della retorica di chi accetta il pensiero obbligatorio di tutti, ma anche disperata ricerca di riconoscimento dell' élite. È tante cose, ma il suo esito politico non è stato ancora scritto. Bisogna conoscerlo, anzitutto.

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