“Oggi in Europa ci sono segnali inquietanti di qualcosa che somiglia al
fascismo, qualcosa che appare ora una replica del passato, ora una
forma aggiornata”.
Intervento di Angelo d'Orsi al convegno "Local resistance against the far right in Europe" che si è svolto il 30 gennaio al Parlamento europeo.
micromega Angelo d’Orsi
Recentemente un noto storico italiano, Alberto De Bernardi, ha
pubblicato un pamphlet con ambizioni storiografiche, per dichiarare che
non ha senso ormai parlare di antifascismo in quanto il fascismo
appartiene a una stagione lontana e irripetibile. E che chi lancia
appelli contro il ritorno del fascismo finisce per intorbidare le acque,
impedendo una libera dialettica democratica.
Si tratta di una tesi non nuova, già autorevolmente sostenuta da
Renzo De Felice, massimo studioso del fascismo, e biografo (innamorato)
di Mussolini e che periodicamente viene riproposta. Chi la pensa così,
dimentica che il fascismo è sì un fenomeno storico, nato come movimento
dei Fasci di combattimento in Italia nel 1919, ma è presto divenuto un
modello politico, a cui si sono rifatti molti emulatori, individuali e
collettivi. E dimentica anche che la forza del fascismo consiste nella
sua capacità di cambiare sembiante adattandosi alle situazioni storiche,
ai climi culturali: ma la sua sostanza non muta. E in che cosa consiste
tale sostanza?
Innanzi tutto nella concezione antiegualitaria che investe gli individui
e i popoli: ossia è “naturale” che sussistano differenze tra gli uni e
gli altri, differenze che postulano gerarchie, considerate immutabili e
necessarie. Nel sistema mentale fascista l’antiegualitarismo è il
rifiuto di ogni politica e ogni ideologia che vadano nel senso della
riduzione o della eliminazione delle disuguaglianze: giuridiche
politiche economiche culturali. Ma il fascismo non si accontenta della
disuguaglianza “naturale” tra individui e popoli: esso ammette e
teorizza una disuguaglianza tra le “razze”, che rinvia a una naturale
gerarchia di tipo etnico che a sua volta risalirebbe a elementi
biologici o spirituali. I dominatori e i dominati, in sintesi. L’Africa,
in particolare, è in tale visione, il serbatoio dei popoli destinati
alla soggezione, dalla schiavitù del passato allo sfruttamento più bieco
odierno.
Antiegualitarismo e razzismo, esplicito o implicito, sono dunque le
prime componenti del fascismo. A cui altre se ne aggiungono; in
sintesi, e in forma di mero elenco: il disprezzo per la democrazia,
l’antisocialismo, il principio corporativo in luogo di quello sindacale,
il culto dell’azione e della violenza, l’esaltazione della forza, la
denigrazione della cultura, il sessismo maschilista, e altro ancora.
Ciò premesso, se si guarda oggi all’Europa, che cosa vediamo?
Vediamo un panorama inquietante, in cui l’Italia, il Paese che diede i
natali a Benito Mussolini e ai suoi Fasci, primeggia. Oggi il pericolo
fascista in Italia non risiede tanto nelle piccole organizzazioni (ma in
crescita numerica e politica) dichiaratamente ispirantesi al fascismo
storico, quanto piuttosto in un diffuso clima di odio, che accetta quasi
con gioia politiche persecutorie verso i migranti, in un razzismo
divenuto normale, che si esplica in un campo di calcio dove un giocatore
africano viene insultato da metà dello stadio ogni qualvolta tocca la
palla, o addirittura quando un arbitro assume atteggiamenti
discriminatori verso di lui; si vede in un autobus dove una donna
maghrebina o rom viene costretta a scendere dall’autista o cacciata
violentemente fuori dall’abitacolo da alcuni viaggiatori nel silenzio
degli altri; si coglie nelle parole di ministri che irridono al senso di
umanità, usando il lemma “buonismo” come sinonimo di tolleranza cretina
che produce criminalità; emerge dall’insolenza verbale di uomini e
donne di potere verso chi dal potere è escluso; si percepisce nel
disprezzo verso gli intellettuali; viene a galla nella esibita
muscolarità fisica e ideologica dei governanti, associata a un
incessante lavoro di controllo dei mezzi di informazione, che non
arretra davanti alle minacce e si spinge fino al tentativo di eliminare
quelli che non sono graditi, magari sotto specie della razionalizzazione
e del risparmio delle pubbliche finanze. Non era forse la stessa
operazione compiuta da Mussolini, dopo la presa del potere? Chiudere,
accorpare le testate per facilitarne il controllo, e infine imporre
cambio di proprietà, e quindi di redazioni. Si aggiungano le continue
intimidazioni a testate giornalistiche da parte di leader di governo e
addirittura le aggressioni fisiche a giornalisti. Certo, siamo lontani
dalla Turchia del tiranno Erdogan, ma le tentazioni di irreggimentazione
dei media appaiono forti, e preoccupanti.
Tutto ciò accade in Italia, oggi. E in Europa? Non esiste forse un
pericolo imminente oggi di fascismo, ma i segnali sono inquietanti di
qualcosa che gli somiglia, qualcosa che appare ora una replica del
passato, ora una forma aggiornata. Innanzi tutto il controllo pervasivo
dei media, l’azione intimidatoria verso i corpi intermedi, sindacati,
magistratura, liberi sodalizi civili e culturali. Ma anche una tendenza a
cancellare o ridurre al minimo le garanzie sociali, a sostituire il
welfare in workfare, ossia lo Stato ti sostiene, ma non in base ai tuoi
bisogni, bensì alla tua capacità lavorativa, produttiva, dall’Italia al
Regno Unito; e vediamo in atto la trasformazione del lavoro in forme di
nuova schiavitù salariale, con la minaccia del licenziamento, favorita
dalla crisi economica perdurante, con l’aumento delle ore lavorative,
con l’intensificazione dei tempi di produzione. Si pensi all’Ungheria di
Orbàn, dove è stata approvata una legge che impone lo straordinario
obbligatorio ai lavoratori, con la possibilità degli imprenditori di
retribuirli a distanza di mesi, in una misura ridicola. Si pensi al
cambiamento in atto un po’ dovunque delle leggi sul fine lavoro, con un
allungamento dei tempi di lavoro, fino alla tendenza alla
sovrapposizione tra aspettativa di vita e vita lavorativa, una drastica
riduzione dell’ammontare pensionistico, e una diffusa ideologia che
pretende di corporativizzare i sindacati, tipico esempio di transizione
verso un nuovo fascismo. Perché credo che l’essenza del fascismo, il
nocciolo duro, sia proprio qui: una feroce gerarchia che classifica e
ingabbia classi, individui, popoli, in nome del produttivismo (che
significa intensificazione dello sfruttamento), del primato nazionale
(che significa in realtà predominio di una classe, che spaccia e
propaganda i propri interessi come interessi nazionali).
E per ottenere questi risultati il fascismo, di ieri e di oggi,
associa un regime di polizia, nel quale la “prevenzione” diventa alibi
per impedire la libera dialettica politica, a un regime corporativo, che
pretende di soffocare la naturale lotta di classe, sostituendola con
pratiche di “collaborazione”: essendo tra soggetti disuguali, essa si
manifesta come forma di oppressione. In Ungheria, in Polonia, in altri
Stati nati dell’Est del Continente, dopo “il crollo” la tendenza
politica che sembra prevalere va in questa direzione, peraltro non
dissimilmente da Paesi come Italia o Francia dove però la presenza di
forze sindacali e in genere di una opposizione operaia e popolare finora
ha impedito di arrivare a tale esito, e non di rado ha suscitato e
suscita reazioni piuttosto forti in senso contrario.
Occorre però rendersi conto che il nuovo fascismo, come lo si
chiami, è uno sviluppo di ciò che Colin Crouch ha chiamato
post-democracy, che altro non è che la forma politica del
“finanzcapitalismo”, così bene descritto e indagato dal compianto
Luciano Gallino. Ora siamo andati oltre, e stiamo procedendo verso
un’accettazione più o meno diffusa di una forma politico-ideologica che
si ispira al fascismo storico, combinandosi con il “superamento” della
democrazia rappresentativa e pluralista, fondata sulla ferma divisione
dei poteri, l’insuperabile indipendenza della magistratura, l’esistenza
di corpi intermedi, un sistema elettorale seriamente rappresentativo, la
libertà di espressione di tutti in ogni forma, la tutela della
minoranza, e così via.
Il fascismo mussoliniano fu un regime di polizia, non regime di
partito: anche oggi, le politiche e le ideologie che ci appaiono
imbevute di fascismo mirano a ridurre e tendenzialmente a eliminare i
partiti politici, o a dar vita a un classico regime monopartitico
combinato con la richiesta e l’attesa dell’“uomo forte”, del leader
carismatico che tuttavia blinda il proprio carisma o preteso tale con la
violenza poliziesca spesso associata alla violenza di bande
organizzate, oltre che con una pervasiva azione di propaganda. La
democrazia viene sorpassata dal rapporto tra il capo e le masse, ridotte
però a folle, ossia prive di coscienza politica, anche grazie a un
sapiente lavoro di depoliticizzazione, di vera e propria
dis-alfabetizzazione, in primo luogo politica, ma non soltanto politica.
E la campagna contro la democrazia rappresentativa, in realtà, non
prepara l’avvento della democrazia diretta, ma prepara appunto la
trasformazione delle masse in folle anonime ora plaudenti a colui che si
presenta come uno di quegli uomini e quelle donne, nella loro
semplicità e volgarità, ora furiose e pronte alla distruzione, ma
altrettanto prepolitiche.
Gli avversari, ma anche gli stranieri, sono equiparati:
l’avversario politico è lo straniero in casa, lo straniero che varca
l’uscio di casa, è (potenzialmente) non hospes, bensì hostis. L’uno e
l’altro sono trasformati in nemici. E il fascismo non tende a creare
unità, bensì divisione. La patria diventa quella dei fedeli, in quanto
ogni fascismo è un movimento religioso e militare e i suoi aderenti sono
fedeli ma anche soldati. E il suo leader è insieme sacerdote e
“capitano” (così i militanti della Lega appellano Matteo Salvini). Il
duce è a un passo, insomma…
In Italia quello che è oggi un partito di governo ha nel suo
passato dato vita alle “ronde padane”, una sorta di polizia volontaria
suppletiva alle forze dell’ordine, che sono state in generale tollerate
dalle autorità, e oggi abbiamo le ronde di Casa Pound e Forza Nuova,
vere proprie squadre d’azione, che aggrediscono, picchiano, addirittura
sono arrivate a sfregiare ragazzi, a incidere con coltelli svastiche
sulla pelle di inermi giovani giudicati “antifascisti” dall’aspetto o
dagli stili di vita...
Ebbene, oggi occorre opporsi a tutto questo, respingendo al
mittente la tesi che essendo il fascismo cosa del passato l’antifascismo
è superfluo. Oggi occorre realizzare una rete antifascista europea,
capace però non soltanto di reagire, ma anche di indirizzare e proporre:
e non c’è dubbio che la via da seguire è quella lenta e faticosa della
ricoscientizzazione delle masse, un ritorno al popolo che ne interroghi i
bisogni reali, che affronti temi materiali, relativi alle difficoltà
del vivere di grandi masse di persone, una strada che segni una rottura
totale con le ideologie neoliberiste, con la fiducia accordata in modo
cieco a una Europa (unita) che non è quella dei popoli, che non è
succube dell’egemonia nordamericana, una Europa schiacciata dalle
potenze più forti al suo interno, una Europa che appare troppo spesso
una struttura burocratica espressione di poteri finanziari, più che
della volontà popolare.
(31 gennaio 2019)
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