Qual è il significato filosofico del
modernismo, come esperienza artistica e letteraria a cavallo fra Otto e
Novecento? Se lo è chiesto, nel suo ultimo libro (Il lato ordinario della vita. Filosofia ed esperienza comune,
il Mulino, 2018), Piergiorgio Donatelli, che ringraziamo, insieme
all'editore, per averci concesso di pubblicare l'introduzione al volume.
micromega PIERGIORGIO DONATELLI 1. La crisi della ragione
Questo libro parte da Wittgenstein e dai fili teorici che è possibile tessere insieme alla luce della sua impostazione per mettere a fuoco una problematica che chiama modernista, dove il riferimento è da una parte al modernismo letterario e artistico austriaco tra i due secoli e dall’altra alla nozione di modernismo elaborata da Stanley Cavell e che egli riferisce specificamente alla sua concezione della filosofia.
Aldo Giorgio Gargani ha dato una descrizione esemplare di tale problematica in molti suoi lavori, anche se non con questo nome. Vorrei cominciare con la sua analisi per presentare l’impostazione modernista, tenendo presente in particolare il volume Crisi della ragione[1]. Gargani ricostruisce una prospettiva che riflette chiaramente la centralità di Wittgenstein e che lavora più estesamente sulla crisi e le svolte intraprese in molti campi del sapere tra i due secoli, principalmente da personalità intellettuali dell’impero asburgico nonché da autori che si collocano in altri contesti culturali europei. È il grande episodio – o, meglio, i molti episodi – di contestazione dei modelli dominanti che arrivano dalla modernità e che sono messi in discussione da nuovi modi di pensare alla filosofia, alla fisica, alla matematica, alla psicologia, alla musica, ma anche alla città, al mobilio, allo stile della conversazione e delle relazioni umane.
Gargani presenta una linea di ricostruzione storica che documenta la crisi di un modello di sapere classico formatosi nella prima modernità. Si tratta di un modello che vuole disciplinare le condotte intellettuali che si svolgono tra gli esseri umani attraverso forme di normatività inesorabili e inflessibili. Il risultato è la produzione di una duplicazione. La normatività che appartiene alla realtà trova il suo fondamento in una concezione perfetta, nell’ideale di purezza cristallina di cui parla Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, che rendono inadeguata qualsiasi realtà e qualsiasi pratica intellettuale umana. In un volume precedente, Il sapere senza fondamenti, Gargani aveva scritto: «La riflessione corrisponde ad una duplicazione delle situazioni della vita, dell’ordine sociale per effetto della quale una volta essi si presentano nella loro forma ordinaria e opaca, e una seconda volta invece si presentano nella forma di norme, di regole ideali, di sistemi irrevocabili di permissioni e di divieti»[2]. Nella sua ricostruzione Gargani sottolinea il bisogno di disciplinamento e di controllo che si sedimenta nei primi secoli della modernità a partire da Descartes – e che convive con una linea di contestazione che trova in Hume l’autore che «introduceva in filosofia quello che si potrebbe chiamare il senso della possibilità; in luogo di un modello o di un assetto rigido di spiegazione, un fascio di alternative possibili tra le quali non v’è ragione di stabilire una preferenza»[3]. Tale bisogno di disciplinamento corrisponde anche a un’esigenza comune agli esseri umani, un bisogno di sicurezza, ma anche la paura del nuovo e del poliforme e la ricerca dell’uguale che conferma se stesso, dell’ordine acquisito, conosciuto, familiare.
La crisi della ragione è la crisi di questo modello e la scoperta che la normatività è un affare che riguarda pratiche umane inventive e costruttive, che sgretola l’illusione di un punto di osservazione esterno e assoluto e chiama in causa punti di osservazioni e di intervento interni (come nella fisica relativistica di Einstein su cui Gargani insiste). Le regole, i modelli e le norme sono perciò la cristallizzazione di un’economia di momenti della vita. Esprimono attività e decisioni e ogni loro applicazione è un modo di continuare la vita a cui essi hanno dato questa forma, questo aspetto: «non sono il dispiegamento di un ordine logico inesorabile, bensì di una nuova applicazione della nostra vita»[4]. Il superamento dell’idea di un superordine che governa le pratiche intellettuali dal di fuori, completo in se stesso, sublime e purissimo, ci riconsegna a una creatività e un’inventività interna alle pratiche intellettuali, alla “condotta intellettuale” come scrive Gargani.
Il motore che spiega questo passaggio dai modelli disciplinanti alla mobilità interna delle pratiche intellettuali è la condizione di blocco a cui ci portano tali modelli. La sublimazione della ragione sotto forma di modelli che si presentano come autosufficienti produce insoddisfazione; il movimento del pensiero si ferma, si inceppa; l’esperienza è immobilizzata, meccanizzata, diventa ripetitiva e ossessiva. Registriamo qui un rovesciamento importante. La purezza dell’ideale normativo, di come si deve procedere, di ciò che conta come la mossa ulteriore in una certa attività intellettuale (la mossa corretta, appropriata, che fa parte di quell’attività o che la innova in modi che creano una continuità magari inattesa), si rovescia nella meccanizzazione di tali pratiche, in meccanismi ripetitivi e ossessivi: le pratiche perdono mobilità, vita e spontaneità. Il blocco, la ripetitività, il meccanismo (alcuni dei temi cruciali di Robert Musil) sono quindi l’altra faccia della purezza cristallina del modello normativo perfetto e autosufficiente. Questa fissazione ci lascia insoddisfatti: «Il fatto è che, abbagliati dall’ideale della completezza, siamo per così dire, usciti dalla cosa stessa, da ciò che volevamo spiegare verso qualcosa di estraneo e di non pertinente. Ed ora ci sentiamo insoddisfatti, perché il significato della cosa stessa non è in lei, ma ne è fuori, e ci sembra di trovarci di fronte a qualcosa di mutilo, che è incapace di rendere conto di ciò che ci interessa»[5]. L’uscita dai contesti effettivi (dai bisogni reali degli esseri umani) di cui le regole esprimono la forma rappresa ma vitale svuota l’interesse, lascia le persone insoddisfatte e prive di motivi per andare avanti. Il modello puro e sublime di ciò che dovrebbero fare schiaccia e svuota di interesse ciò che fanno. Ciò che siamo e facciamo non collima più con la rappresentazione che ce ne facciamo, sublime ma opprimente: «sentiamo un accumulo di energie che vanno oltre regole e convenzioni saturate»[6]. La crisi della ragione indica quindi il dileguare di modelli di razionalità impraticabili e l’affacciarsi di nuovi modelli che organizzano energie non ancora codificate[7].
2. Romanticismo e modernismo
Gargani descrive una scena storica ma indica anche un movimento intellettuale, offre un’analisi delle pratiche intellettuali e dell’esperienza umana. In questo libro riprendo questo tipo di analisi assieme ad alcune delle linee di ricostruzione storica. Indico come modernista la condizione della “crisi della ragione” che registra la contestazione dei modelli moderni e che apre a nuove organizzazioni dei saperi, a nuove forme espressive. Wittgenstein è l’autore di riferimento che consente di pensare al dileguare dei modelli normativi e dell’autorità di un’intera tradizione, tra cui la tradizione della filosofia – di ciò che è annoverato come filosofia – come un movimento di svuotamento delle parole, di perdita dell’interesse e del motivo, che richiede un riorientamento, il ritrovare una strada che sia però la nostra, vicina e prossima. La riscoperta della vita quotidiana, il lato ordinario della vita, è l’aspetto che assume il ritrovarsi a casa con le proprie pratiche intellettuali e umane, di nuovo (o per la prima volta) capaci di movimento, creativi, vivi. La mobilità è segnalata qui dalla prossimità delle parole, delle regole e delle istituzioni normative, la loro abitabilità, il loro essere abitate da noi, con noi, diverse da noi ma prossime. Sono i temi che il modernismo condivide con gli autori trascendentalisti americani, con Emerson e Thoreau, che Stanley Cavell ha messo in collegamento.
Emerson, in particolare, assieme a Mill, che figura marginalmente nelle pagine che seguono nonostante abbia un’importanza capitale per questa prospettiva, rappresentano chiaramente un episodio intellettuale indipendente e storicamente precedente rispetto al modernismo: quello romantico. Nel primo capitolo mi soffermo a esaminare quali siano le condizioni differenti in cui si collocano il modernismo e il romanticismo nell’affrontare una problematica che a una certa distanza potrebbe essere descritta in modo omogeneo. Romantici e modernisti sono alle prese con la crisi delle forme espressive, con la difficoltà di trovare un mondo (che è in primo luogo espressivo ma è anche un mondo di attività e di vite quotidiane, una civiltà in breve) in cui la propria esperienza abbia un posto, in cui trovi le parole e le corrispondenze (con gli altri, con il sistema delle attività e delle relazioni umani e vitali) che le diano consistenza e peso. Essi affrontano l’isolamento dell’esperienza che è smarrita in un mondo in cui in cui non si ritrova più. I romantici sono alle prese con la nuova immagine scientifica del mondo e con il dileguare delle grandi narrazioni religiose ma nutrono fiducia nell’arte come lo strumento che può ridare vita all’esperienza umana, al suo carattere genuino, profondo, autentico. I modernisti sono anch’essi alle prese con l’immagine scientifica e con un tema nuovo, vale a dire con la meccanizzazione caratteristica dell’organizzazione burocratica e capitalistica della società. A differenza dei romantici essi non credono più che l’arte sia stata risparmiata alla crisi e in generale hanno perduto fiducia nella possibilità che vi sia un ambito espressivo lasciato integro, un ambito che non sia toccato dalla crisi o, come potremmo anche dire, che non sia interrogato da essa, che non abbia bisogno di rispondere a questa esigenza di rivitalizzazione.
3. Vulnerabilità e forme di vita
In questa prospettiva il tema della vulnerabilità appare cruciale. L’interesse che muove la ricerca, come scrive Wittgenstein, è suscitato da crisi e blocchi: quando l’agio è rotto, la risposta non viene e si dispera che si possa trovare una via d’uscita. E la stessa pienezza, l’agio e la sicurezza di sé e della propria cultura, se non sono vissute come delle risposte a momenti di crisi non sono altro che sublimazioni che hanno lasciato il terreno della vita reale e imperfetta e si sono isolate nella fantasia narcisista, nel loro magico mondo dorato. L’inciampo e la crisi sono la via di accesso a una ricostruzione della cultura, perché la cultura è l’insieme dei modi con cui affrontiamo e addomestichiamo l’inciampo e la crisi e li riportiamo dentro solchi e binari familiari. Ciò che motiva l’indagine è la ricerca della felicità, che parte però da un dolore.
Nelle mani dei modernisti tutte le forme espressive si disfano e sono però al contempo riorganizzate secondo nuove forme, in accordo con nuovi assetti. Il problema modernista, con il suo antefatto romantico, è infatti quello di portare sulla scena la crisi, di non nasconderla dietro a delle cortine fumogene, sotto degli ornamenti che i modernisti, in architettura e nel progetto degli oggetti della vita quotidiana, come Wittgenstein e Loos, detestavano e consideravano delle superfetazioni che non consentono di vedere con chiarezza i bisogni vitali degli esseri umani.
Il modernismo indica perciò questo approccio ai problemi vitali, che sono problemi culturali, problemi delle forme espressive, in cui necessità e bisogni vitali sono resi opachi e irriconoscibili e come tali non possono essere affrontati, non può essere data loro una risposta, e generano infelicità. Il compito è quello di portare alla luce ciò che abbiamo nascosto a noi stessi e che in quanto tale provoca sofferenza, che è un motivo importante anche in Freud. Da ciò deriva la necessità della chiarezza, della visione perspicua, della rappresentazione secondo nuove forme in cui emergano bisogni vitali a cui dare una nuova risposta, che è il tema caratteristico delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein.
Se il modernismo indica il disfarsi di tutte le forme espressive che hanno bisogno di essere riorganizzate, messe in contatto con l’esperienza umana, che a sua volta ha bisogno di essere collegata intimamente con esse, il romanticismo elabora l’immagine del mondo come la propria casa. Nella visione romantica la condizione della felicità e dell’agio, quella in cui le persone possono ritrovare se stesse, possono ritrovare schemi e binari comuni e familiari, traduce l’immagine della persona che crea o ricrea da sé il mondo, la propria casa, che è quindi sia il mondo che le fa da sfondo e da abitazione ma è anche il suo prodotto che le è perciò consonante. Emerson svolge il tema della familiarità e dell’abitabilità attraverso l’idea del domestico – un concetto chiave per Cavell –, dell’addomesticamento di ciò che è grande e sublime, che appare perciò lontano ed estraneo, e che va riportato vicino a sé, a ciò che è basso e comune, alla «letteratura dei poveri, i sentimenti del bambino, la filosofia della strada, il significato della vita domestica»[8]. Nelle pagine che seguono, tuttavia, si insiste, in compagnia di Cavell, sul fatto che anche questa contrapposizione – da una parte la grande cultura, i grandi incarichi, le grandi personalità, e dall’altra la cultura popolare, la vita quotidiana, le piccole vicende – va rivista poiché niente è al riparo della crisi. Anche nella vita quotidiana rischiamo l’isolamento, l’esaurirsi dell’interesse verso gli altri, lo svanire dell’amore per la vita.
È invece il modernismo che mette di fronte al dileguare di tutte le forme espressive, al cedere di ogni regione dell’esperienza, ed è quindi il modernismo che immagina che la cultura (le forme della civiltà) vada pensata come la serie di addomesticamenti delle crisi che fanno parte della vita e della mobilità creativa stessa degli esseri umani. La forma culturale degli esseri umani (lo “spirito” dei romantici che anima il potere creativo dell’arte) assume perciò l’aspetto dell’addomesticamento dell’inclinazione a rifuggire la forma umana, della resistenza e del ripudio dell’umano, che è una delle tesi che contraddistinguono l’intera filosofia di Cavell. La forma umana della vita è infatti per Wittgenstein qualcosa che va accettato – riconosciuto, scrive Cavell – e che potrebbe quindi anche non essere accettato, potrebbe essere l’oggetto di vari tipi di rifiuti, resistenze, rimozioni. La forma culturale della vita umana è quindi quella che è tessuta tramite un lavoro permanente di addomesticamento e di compensazione di perdite, crisi, blocchi, fissazioni. Sono modi diversi in cui la mobilità, l’agio e la felicità sono perduti e le perdite sono state affrontate e riportate dentro altri solchi dove è possibile ricostruire un agio e una tranquillità, ma senza che si realizzi una magica maturazione che produce forme intatte e perfette. Sono invece drammi (piccoli e grandi) che lasciano il loro segno, la loro impronta, la loro forma. Questa è la forma della vita umana. La forma della vita è plasmata dal confronto con la resistenza della nostra vita al prendere forma in abitudini, relazioni, commerci, rapporti, amori, una resistenza che la vita ci oppone e che assume l’aspetto di qualcosa di ostile o seducente ma non appropriabile ed estraneo, che ci squadra e ci posiziona. La pertinenza del concetto di forme di vita si situa in questo nucleo di problemi. In questo senso la forma della vita è vulnerabile: è conosciuta a partire da vulnerabilità ed è essa stessa un prodotto umano vulnerabile, rispetto agli eventi fisici e storici e rispetto all’inclinazione umana a rifiutarla immaginando di collocarsi nel cielo, per così dire, al di sopra di ciò che è mutevole e cagionevole (l’idea della duplicazione da cui siamo partiti).
Il concetto di forma di vita indica la forma che è stata data agli aspetti della vita di organismi come gli esseri umani di cui è possibile chiedersi quale sia la loro forma caratteristica e di cui è possibile verificare le forme di vita (al plurale) che essa ospita. Come scrive Cavell, quando ci viene chiesto di accettare la forma umana della vita, «non ci viene chiesto di accettare, diciamo, la proprietà privata, ma la separatezza; non un fatto particolare relativo al potere, ma il fatto di essere un uomo, e perciò di questa (gamma o scala di) capacità di lavoro, di piacere, di sopportazione, di attrazione, di comando, di comprensione, di desiderio, di volontà, di insegnamento, di sofferenza»[9]. La forma umana della vita indica la gamma di modi in cui siamo separati gli uni dagli altri, in cui possiamo comandare, lavorare, desiderare e così via, all’interno dei quali individuiamo configurazioni specifiche (le forme di vita) che plasmano ad esempio il comando, la separatezza e la volontà (nella forma della democrazia o in quella della sovranità tradizionale, poniamo).
Una forma di vita nei due significati appena distinti organizza aspetti della vita, dà loro una forma secondo modelli, disegni, motivi che ricorrono rispetto a delle variazioni. È data loro una forma nelle relazioni, nei commerci e negli scambi, nella percezione e nelle emozioni che ci legano agli altri individui, umani e non umani, agli ambienti e ai molti aspetti del mondo dentro fasci di relazioni mobili. La forma è data perciò all’interno del fascio di relazioni che realizzano incontri tra materiali che si resistono (e che ci resistono). Le forme di vita si organizzano come incontri e consonanze tra umani, animali, voci, comandi, sguardi, condotte che sono però separati tra di loro e che possono opporsi resistenza vicendevolmente. Questo intreccio brulicante, come lo chiama Wittgenstein, indica un convergere e un accordarsi di comando e obbedienza, di intenzione e azione, di insegnamento e apprendimento, un incontro di sguardi, un convergere delle emozioni, comunanze con gli ambienti naturali, con gli animali. Ma sono accordi e comunanze che possono spezzarsi e lasciarci isolati, isolati dall’ambiente ostile e inquietante, dal nostro stesso corpo che ci tradisce nella malattia, isolati dagli altri nell’incomprensione e nella freddezza del cuore. Questo duplice aspetto appartiene al concetto di forma di vita. Gli accordi si realizzano ma possono spezzarsi e nello spezzarsi ci indicano un lato altro, lontano e diverso.
4. Alterità e perfezionismo
Il tema dell’alterità consente di svolgere un’ulteriore linea teorica. La conquista di un agio e di una naturalità, di una nostra abitazione nel mondo, la dimensione dell’ordinario – di cui abbiamo visto ora il riverbero nella prospettiva delle forme di vita, vale a dire l’abitazione in relazione con alterità vitali, gli ambienti e gli animali, il mondo, i nostri corpi –, svolgono il tema della domesticazione di alterità che ci resistono. Parlare e intendersi, incontrarsi con gli sguardi e con le emozioni, passeggiare in un ambiente naturale che ci immerge e assorbe, sono attività in cui ci lasciamo guidare dal flusso delle parole, dei gesti, degli sguardi. Sono attività che compiamo ma nel compierle ci lasciamo attrarre e guidare dalle parole, dai gesti e così via, a cui rispondiamo con un’adesione che Wittgenstein chiama spontanea, con una fiducia immediata; lasciamo che le parole che pronunciamo parlino a nostro nome, che gli sguardi che rivolgiamo rivelino il nostro interesse, che le espressioni del corpo esprimano le nostre emozioni. Ci lasciamo guidare, parlare, esprimere riponendo fiducia negli accordi che determinano le nostre esistenze. Ma tali parole, gesti ed emozioni non sono nostri possedimenti privati. Sono capaci di esprimerci, guidarci e farci parlare e incontrare con gli altri e il mondo perché hanno un’indipendenza da noi, perché sono le parole che gli altri usano e comprendono, i gesti a cui essi rispondono, le espressioni che colgono. Possono esprimerci e parlare a nostro nome perché hanno il potere, indipendente da noi, di esprimere e parlare, perché sono espressioni e parole. Gli accordi che costituiscono le nostre esistenze sono atti di fiducia immediata con alterità che ci attirano e che seguiamo con spontaneità ma che sono anche altre da noi, a un passo da noi.
Questa distanza è fondamentale. È proprio perché le nostre parole, gli altri e il mondo sono indipendenti che gli accordi possono spezzarsi, lasciandoci isolati, senza parole, incapaci di comunicare, privi di un’abitazione, di una terra che ci ospiti. E tuttavia è proprio l’esperienza della separazione e dell’isolamento che ci consegna il senso della profondità delle nostre attività e dei nostri incontri, la profondità del linguaggio, della realtà e delle altre persone. Una profondità che si rivela in modo caratteristico quando gli accordi si spezzano e ciò che attrae e guida si separa da noi e ci lascia isolati, aprendo alla possibilità di incontrarlo in un’esperienza di estraneità conturbante dove esso ci viene incontro da un luogo misterioso e strano. In questo senso, gli accordi naturali che costituiscono la dimensione dell’ordinario, tematizzata da Cavell, sono domesticazioni di crisi e di separazioni che ci hanno lasciati senza parole, e perciò non indicano accordi semplicemente naturali, non hanno questa innocenza mitologica, ma sono stati conquistati dopo la crisi e la separazione.
Questo movimento spiega la mobilità delle nostre attività come un progresso e un miglioramento. Si situa qui una linea filosofica ulteriore e indipendente, che intercetta quelle precedenti, a cui Cavell ha dato il nome di perfezionismo morale. John Stuart Mill ha avanzato una concezione perfezionista di questo tipo, che ha collegato all’utilitarismo e al liberalismo, che nella sua visione erano due esigenze democratiche legate fondamentalmente alla promozione del benessere per il maggior numero e al rispetto dei diritti morali espressione della libertà personale. Libertà e benessere hanno bisogno però del perfezionismo per non rappresentare delle situazioni in cui la libertà di pensiero e di azione sono vuote perché si esercitano su una gamma di scelte già configurata e conformista; e in cui i piaceri e le soddisfazioni sono ugualmente appassiti e impersonali, meramente assorbiti per imitazione[10]. Il perfezionismo mette all’ordine del giorno la necessità di scoprire che la propria condizione presente ha fossilizzato la capacità di provare piaceri e di formarsi preferenze che siano propri, credenze e ideali che provengano dal proprio io, la capacità e il piacere di agire imprimendo la propria personalità alla condotta.
La possibilità di percepire e sentire la condizione presente come fossilizzata e inerte introduce un’altra dimensione dell’io da cui ci contempliamo, raggiungibile ma non ancora raggiunta, una condizione che ci viene incontro mobilitandoci. Le nostre parole e le nostre azioni ci vengono incontro in modo strano e inquietante: sono familiari perché sono nostre ma sono anche completamente irriconoscibili perché dalla prospettiva da cui le consideriamo appaiono estranee al nostro io. Dal punto di vista della dimensione migliore che potremmo raggiungere non sono affatto nostre. Come abbiamo visto, è proprio nei momenti di blocco e di crisi che possiamo riconoscere la forma (e le forme) della vita. Il perfezionismo lavora sul progresso che possiamo realizzare nel riconoscere la nostra condizione, mobilitando ciò che avevamo fissato. Mill pensa che le sfere del piacere e del valore hanno questa natura, ci inoltriamo in esse mobilitando ciò che era stato sclerotizzato. Questa è la dimensione morale che troviamo anche in un altro autore romantico come Emerson e in un autore modernista come Nietzsche.
5. Il motore normativo
Vorrei concludere questo capitolo introduttivo con un’osservazione sulla questione della normatività. La normatività, intesa come ciò che ci costringe con diritto in un’attività intellettuale e pratica, emerge in questa prospettiva come il superamento della costrizione meccanica, che è la condizione in cui abbiamo convertito la naturalità, privandola della nostra fiducia. La normatività è immanente a contesti di vita dove le mosse sono compiute naturalmente e in modo intimo. Ma tale naturalità è sempre perduta e da riconquistare. Il motore di questo percorso, come abbiamo già visto, è la ricerca della felicità, dell’agio, che appare come il bisogno di rivedere ciò che è troppo immediato e che in quanto tale non è nostro: una passività in cui non parla il nostro io, che non è sufficientemente intima o non lo è affatto. Tuttavia, il contrasto non è tra passività e spontaneità, come in Kant, ma tra tipi diversi di passività, e la richiesta di questa filosofia è per un tipo di attività, vale a dire di lavoro su di sé e sulla propria esperienza, che trasformi la passività in qualcosa che sia vicino e intimo e quindi piacevole. Il movimento dell’io è spinto dalla ricerca della felicità e in questo senso si tratta di un motore normativo eudaimonistico. Ma l’esperienza è anche un’esperienza che ci rende consapevoli di noi stessi, e quindi il tema dell’intelligibilità è centrale. Il motore è perciò anche quello legato alla necessità di comprendersi, di rendersi chiari a se stessi, in un movimento che trova la spinta in un interesse a conoscere. L’insoddisfazione – la difficoltà ad accettare la realtà (del proprio io, del mondo e degli altri) – indica anche un dispiacere e un disagio conoscitivi, anche se la sua soluzione non è la teoria ma un diverso modo di vivere in cui proprio quel bisogno è superato: è superato il bisogno di trovare un senso alla propria vita, scrive Nietzsche. Felicità e conoscenza hanno a che fare però anche con la libertà. Il senso di soffocamento e disagio è un senso di costrizione, di assenza di libertà di movimento. La libertà è pensata perciò come mobilitazione, come un rendere mobile ciò che era stato fissato e sclerotizzato[11]. Dobbiamo tenere assieme perciò i tre assi normativi che ho elencato: felicità, intelligibilità e libertà. Sono dimensioni indipendenti ma collegate nella prospettiva filosofica che cercherò di illustrare.
NOTE
[1] A.G. Gargani (a cura di), Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, Torino, Einaudi, 1979.
[2] A.G. Gargani, Il sapere senza fondamenti. La condotta intellettuale come strutturazione dell’esperienza comune, Torino, Einaudi, 1975, p. 101.
[3] Ibidem, p. 75.
[4] A.G. Gargani, Introduzione, in Id. (a cura di), Crisi della ragione, cit., p. 48.
[5] Ibidem, p. 27.
[6] Ibidem, p. 46.
[7] Ibidem, p. 43.
[8] R.W. Emerson, The American scholar, in Id., The Major Prose, a cura di R.A. Bosco e J. Myerson, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 2015, pp. 91-109, 105.
[9] S. Cavell, This New Yet Unapproachable America. Lectures after Emerson after Wittgenstein, Albuquerque (N.Mex.), Living Batch Press, 1989, p. 44.
[10] Per questo argomento, P. Donatelli, Introduzione a Mill, Roma-Bari, Laterza, 2007.
[11] Nel mio La vita umana in prima persona, Roma-Bari, Laterza, 2012, ho sviluppato questa idea. L’obiettivo polemico in quel libro era la critica alle concezioni metafisiche considerate come l’espressione di situazioni di blocco, particolarmente visibili nelle sfere che tali concezioni considerano costitutive dell’umanità, come la nascita, la morte e la sessualità.
(25 gennaio 2019)
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