Nel testo non vi sono note o rimandi (ma non
si farà fatica ad intravedere i numerosi autori di cui mi giovo) perché
le sue proposizioni sono espresse in forma di tesi, e ciò non per
chiudere il discorso ma per determinare meglio la posizione che offro
alla discussione. L’esigenza politica che motiva questo intervento è la
necessità di iniziare a fare chiarezza sulla questione dello stato e
della guerra, mostrando l’intimo legame del capitalismo con l’uno e con
l’altra. Il principale oggetto polemico sono tutte le teorie che
(intrecciando neoanarchismo, postoperaismo e liberismo puro e semplice)
prendono per buona l’immagine che la globalizzazione ha dato di sé ed
incolpano lo stato di tutti i mali passati e futuri, non comprendendo
che la logica di potenza propria di ogni stato diviene espansionismo
compulsivo ed illimitato solo grazie all’incontro dello stato stesso con
la voracità del capitale. Ed impedendoci così di capire l’immanenza
della guerra come fattore dominante delle dinamiche geopolitiche e di
classe. Dinamiche di cui qui ho voluto indicare la strettissima
connessione (anche ragionando al livello teorico più astratto) per
sottolineare sia il peso determinante della geopolitica
dell’imperialismo nel definire le relazioni di classe, sia il possibile
legame fra lotte di classe e lotte antimperialiste e nazionali.
Il
presente lavoro faceva originariamente parte di un più corposo abbozzo
(contenente anche una ampia riflessione sul socialismo, di cui rimando
la pubblicazione) circolato in forma ristretta quasi un anno fa.
Rispetto alla versione originaria molte sono le modifiche, e non solo
formali, ed alcune sono recentissime: segno anche questo della
consapevole problematicità delle tesi qui esposte.
E’
non soltanto impreciso ma del tutto erroneo dire che nel capitalismo l’
“economia” domina la “politica”. Piuttosto, seguendo le tracce della
critica dell’economia politica, bisogna dire che sono i rapporti sociali tipici
del capitalismo a dar vita sia alla sfera economica che a quella
politica e a spiegare le mutevoli relazioni fra le due. E
paradossalmente la vera importanza della politica si coglie proprio a
partire dall’analisi dei processi che rendono possibile il formarsi,
all’interno del complesso della società, di una autonoma sfera economica dotata
di leggi proprie e capace di imporre le proprie esigenze a tutti gli
altri ambiti. Tale sfera conquista compiutamente la propria autonomia
solo quando l’accumulazione di una massa crescente di denaro diviene
lo scopo generale della produzione, e quando è divenuto possibile
ottenere tale accumulazione senza ricorrere alla forza e ricorrendo
piuttosto ai soli mezzi propri della produzione stessa, ossia allo scambio apparentemente libero di forza lavoro contro salario e con la conseguente organizzazione (all’apparenza, meramente tecnica)
della produzione da parte del capitale. Date queste condizioni,
l’attività economica non è più finalizzata alla semplice sussistenza
della società né al fornire mezzi al potere politico, ma
all’accrescimento del medium generale dell’economia stessa, ossia del denaro, accrescimento ottenuto, almeno in linea di principio, senza ricorrere alla coercizione politica contro i lavoratori o contro i concorrenti.
Una tale situazione storica non è il frutto di una naturale evoluzione
che manifesti finalmente una (presunta) superiore razionalità dell’agire
economico, ma deriva dalla comparsa di particolari rapporti sociali che
segnano una cesura con tutta la storia precedente. Se il denaro diviene
forma generale della ricchezza e quindi scopo fondamentale della
produzione, ciò avviene soltanto perché un determinato rapporto sociale,
ossia la separazione dell’attività produttiva sociale nel lavoro di numerosi produttori privati indipendenti gli uni dagli altri,
fa sì che i prodotti divengano merci, e che il denaro divenga l’unica
chiave per accedere a tali prodotti. Se l’estrazione del plusprodotto
(condizione per ottenere più denaro) può avvenire senza immediata
coercizione politica, ciò avviene perché un determinato rapporto
sociale, ossia la separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione,
fa sì che i lavoratori siano “naturalmente” costretti a vendersi come
merce e a regalare al capitalista la propria capacità di cooperazione,
che del plusprodotto è fonte.
1.2
Nel capitalismo questi fondamentali rapporti sociali si presentano veramente come tali – ossia come rapporti di potere tra
proprietari privati e tra proprietari e lavoratori – soltanto nelle
fasi di evidente crisi, mentre normalmente assumono invece una forma economica che li occulta e li rende più efficaci. Da un lato, infatti, i rapporti tra uomini, presentandosi come rapporti tra cose (ossia tra entità economiche), si nascondono nelle
cose stesse: il denaro sembra possedere per propria natura quella
capacità di acquisire tutte le merci che invece gli deriva dall’essere
l’unica connessione possibile tra produttori privati,
ed il capitale sembra produrre per propria natura quel plusvalore che
in realtà è effetto, in ultima analisi, della separazione dei lavoratori
dai mezzi di produzione. D’altro canto, però, i rapporti tra cose non
sono semplicemente un velo steso a nascondere la natura dei rapporti
sociali, non sono soltanto una forma di occultamento ma anche una forma di funzionamento dei rapporti sociali in quanto li riproducono automaticamente grazie
alla propria stessa esistenza. L’esigenza della tesaurizzazione
monetaria e della valorizzazione del capitale deriva dalla mera esistenza del denaro come
forma generale della ricchezza, e nessuna pianificazione della
produzione è possibile se questa “cosa” continua ad avere la medesima
funzione. Lo sfruttamento del lavoratore si realizza quotidianamente e
“spontaneamente” attraverso la mera esistenza del salario,
poiché quest’ultimo, remunerando soltanto il valore della forza lavoro,
costringe automaticamente il lavoratore a partecipare soltanto ad una
quota limitata della ricchezza sociale creata dalla sua cooperazione con
gli altri lavoratori: nessuna rivoluzione può andare pienamente ad
effetto se mantiene in piedi questa categoria economica.
2.1
Considerando le cose dal punto di vista della riproduzione della società capitalistica si nota subito, però, che il funzionamento in forma economica dei
rapporti sociali non può che generare una contraddizione. La forma
economica consente, come abbiamo già visto, una più agevole riproduzione
dei rapporti giacché tutto in essa sembra obbedire ad una logica
tecnica e neutrale, sostanzialmente estranea a relazioni di potere.
Tuttavia i rapporti sociali non sono riducibili a rapporti tra cose, ma
riguardano le classi ed i loro antagonismi: i rapporti sociali eccedono sempre i
semplici rapporti tra cose, e così le transazioni economiche sono
sempre inevitabilmente accompagnate da durissimi conflitti, a volte da
conflitti antagonistici, che possono essere mediati o repressi soltanto da una istanza extraeconomica, ossia dallo stato.
E’ quindi ben vero che il funzionamento normale del capitalismo, ossia
il suo funzionamento come dinamica meramente economica, è ciò che meglio
consente al capitalismo stesso di riprodursi e di accrescere il proprio
potere senza eccessive frizioni. In condizioni normali, infatti, la
separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione si riproduce senza
bisogno di coercizione politica, perché ogni ciclo produttivo, oltre a
mettere capo a merci, produce anche il capitale come entità autonoma dal lavoratore e altresì il lavoratore come soggetto costretto a vendersi. Ma, come notato dallo stesso Marx, queste “condizioni normali” possono essere assicurate soltanto dallo stato.
E non sono mai assicurate una volta per tutte. Se è vero che tratto
specifico del capitalismo è il fatto che nessun potere politico
interviene all’interno della
produzione al fine di determinare il tasso di sfruttamento del lavoro e
la ripartizione sociale dei suoi risultati, ciò non significa però che all’esterno della produzione non possa ed anzi non debba nascere uno specifico potere
politico a garanzia del funzionamento normale della produzione stessa:
soltanto l’esistenza dello stato consente al capitalista di poter fare a
meno dello stato stesso nella gestione ordinaria dello sfruttamento. Storicamente il rapporto strettissimo tra capitale e stato si è senza dubbio presentato come incontro tra due realtà eterogenee aventi origini e logiche decisamente diverse e conflittuali. Ma d’altra parte se lo stato non fosse esistito il capitale avrebbe dovuto inventarlo, giacché l’esistenza dello stato è parte essenziale del concetto di capitale.
2.2
Conviene
precisare che qui non si intende affatto sottovalutare quella relativa
autosufficienza dell’ “economico” che è specificità storica del
capitalismo e fa sì che il capitalista possegga un potere sociale
proprio, che gli pertiene in quanto padrone dei mezzi di produzione e
non in quanto padrone dello stato. La cosa deve anzi essere sottolineata
in quanto ci aiuta a capire che, poiché l’espropriazione ordinariamente
non è attuata da un potere politico, essa non può essere contrastata da una mera iniziativa politica a
meno che tale iniziativa non si estenda fino ai rapporti sociali, ossia
fino alla soppressione o alla forte limitazione della proprietà
privata, del carattere di merce del lavoro e dell’asimmetria di potere
tecnologico trai lavoratori e i vertici organizzativi della produzione.
Ma qui si intende far rilevare che, data l’inevitabile presenza di
rapporti sociali antagonistici, l’espulsione
della politica dall’interno della produzione comporta dialetticamente,
come ritorno del rimosso, la concentrazione della politica stessa al di
fuori della produzione e quindi la costruzione di un potere di stato
decisamente più efficace e pervasivo di quello delle epoche precedenti. Insomma, senza lo stato e senza la politica il capitalismo, semplicemente, non esisterebbe: l’economia tende a risolvere da sola il problema della riproduzione, ma non riesce mai nel compito che si è data.
Il potere sociale che si esprime nei processi economici (e quindi
l’implicita valenza politica di questi ultimi) non rende perciò
superflua l’esistenza di specifiche istituzioni politiche; anzi, queste
stesse istituzioni possono usare i processi economici come arma apertamente politica,
sia assecondando le autonome scelte dei capitalisti sia attuando,
attraverso le strategie del banchiere centrale o del ministro
dell’economia, precise politiche di classe sotto forma di politiche
economiche.
3.
Per
tutti questi motivi siamo autorizzati a dire che i rapporti sociali del
capitalismo non soltanto generano, come abbiamo visto, una sfera
economica avente leggi proprie, ma generano anche, contemporaneamente ed accanto ad essa, una sfera politico-statuale che ha il compito di riprodurre continuamente l’autonomia dell’economico assumendo su di sé l’onere
di codificare e tutelare la proprietà privata, di garantire la validità
sociale della moneta e soprattutto di mediare e reprimere i conflitti
tra capitalisti e tra capitalisti e lavoratori. Dal momento in cui la
sfera economica si autonomizza è inevitabile che essa normalmente domini le altre sfere sociali, perché in essa è sempre ed immediatamente in gioco la sussistenza elementare della società,
sussistenza che una pur lunga crisi politica può non mettere in gioco e
che è invece seriamente minacciata nel caso di una continuata crisi
economica. E’ per questo che, quando l’economia non è sottoposta a
controllo politico, le sue interne dinamiche decidono della prosperità o
della miseria di una società e tutti le devono obbedienza: essa non
definisce più, come avveniva nei modi di produzione precedenti, soltanto
i limiti esterni dell’agire sociale, ma detta ormai tempi, forme e scopi di quell’agire stesso. L’economia quindi pone lo scopo generale della società, ma, come abbiamo visto, pur ponendo questo scopo non è in grado di raggiungerlo coi soli mezzi che le sono propri. Lo stato (come peraltro tutte le altre sfere sociali) riceve lo scopo dai dettami dell’economia, ma esegue il compito coi propri mezzi specifici (la
norma cogente, la violenza legittima, la mediazione politica), oltre a
sviluppare uno specifico e distinto “interesse di stato”, ossia
l’interesse a riprodursi comunque come tale. Anche quando, come oggi
sovente accade nel capitalismo occidentale, lo stato imita i meccanismi
dell’impresa ed è occupato da un ceto dirigente proveniente dal mondo
dell’impresa stessa, quest’ultimo può perseguire gli interessi dei suoi
mandanti solo agendo nelle forme determinate dell’azione pubblica.
4.
Sono quindi i rapporti sociali capitalistici a determinare l’esistenza di una particolare forma di economia e di una particolare forma di politica, ed è la necessità di riprodurre tali rapporti a determinare e a spiegare le mutevoli relazioni
tra le due sfere. I rapporti sociali, rendendo autonoma l’economia, le
assegnano un ruolo tendenzialmente dominante, ruolo che può però essere
esercitato pienamente soltanto grazie allo stato e soltanto finché non mette in discussione la riproduzione dei rapporti sociali stessi:
a quel punto la bilancia del rapporto fra economia e politica inizia a
pendere a favore di quest’ultima. Il capitalismo preferisce agire
attraverso i meccanismi apparentemente naturali ed impersonali
dell’economia, ma più vi riesce, più incrementa divaricazioni e conflitti e quindi più si avvicina ad una crisi di egemonia,
che (a conferma di quell’alternanza tra logica economica e logica
statuale ben individuata da Giovanni Arrighi) richiama sulla scena
quello stato che per tutta una fase sembrava essere rimasto dietro le
quinte. Una volta che il libero gioco delle forze economiche (reso in
realtà possibile dall’intervento ausiliario della politica) abbia
prodotto polarizzazioni tra classi e fra stati tali da non poter più
essere gestite con metodi puramente economici, lo stato balza
direttamente sulla scena a mediare o a portare alle estreme conseguenze i
conflitti inevitabilmente generati dal capitale. La politica (come
scontro tra classi e tra stati) sostituisce così per intere fasi
l’economia nello scandire i tempi e nel definire i modi dell’agire
sociale e, nei casi di crisi grave, lo fa mettendo al centro un
intreccio tra gestione/repressione dei conflitti di classe e
preparazione/scatenamento della guerra imperialista. Una guerra che non è il frutto della sostituzione della “pacifica” logica mercantile con la “barbara” logica statuale, ma è la prosecuzione con altri mezzi delle precedenti strategie di dominio.
Se è vero che esiste una innata tendenza dello stato ad espandersi
territorialmente, e quindi a far guerre, bisogna convenire sul fatto che
essa si sposa alla perfezione con le analoghe tendenze del capitale.
Anzi, il realismo politico suggerisce agli stati di porre ragionevoli
limiti al proprio espansionismo, ed il suggerimento viene molto spesso
ascoltato. All’opposto è il capitale a non porre alcun limite al proprio
incessante accrescimento, e quindi all’ampliamento dello spazio in cui
ricercare la propria valorizzazione: ed è proprio questa caratteristica
del capitale a nutrire il folle sogno di dominio perseguito dallo stato
attualmente egemone e la sua strategia di conquista dell’intero spazio
mondiale. Una strategia che non dipende tanto dalla “religione
imperialista” degli stati anglosassoni quanto dalle necessità di
profitto di una massa immane di capitale eccedente.
5.1
Ragionando
ancora sul nesso tra capitale e spazio è ancora più agevole cogliere il
nesso tra capitale e guerra. Dire che il capitale tende a fagocitare
l’intero spazio mondiale non significa dire che esso possa o voglia
costruire uno spazio omogeneo, privo di rilevanti differenze interne. Se è vero che esso coltiva una tendenza a trascendere ogni spazio determinato, non può e non vuole trascendere la determinatezza spaziale in quanto tale: il capitale non può fare a meno di riferirsi a spazi delimitati ed alle differenze fra
di essi, e per questo, se distrugge i confini, è solo per crearne
altri. Ciò in parte deriva dalla necessità di ricorrere allo stato (e
quindi, inevitabilmente, al territorio), ma, più profondamente, ha a che
fare con la natura intima del capitale stesso. Il capitale possiede
infatti una ineludibile forma materiale: quando si scompone negli
elementi costitutivi del processo di produzione e di consumo si lega
necessariamente alla determinatezza spaziale su cui questi elementi
insistono. Lavoratori, macchine e merci devono situarsi (o spostarsi) in
luoghi determinati, ed è in questi luoghi che si deve provvedere alla
loro gestione. Anche se la fabbrica “concentrata” fosse oggi stata
integralmente sostituita dalla fabbrica “dispersa” nel territorio, ciò
non costituirebbe affatto una despazializzazione del capitale, ma
semplicemente un ampliamento o una riarticolazione dello spazio in cui
si svolge l’attività produttiva diretta. Ma anche quando assume la forma
astratta di denaro o di titolo finanziario (quella forma che dovrebbe
consentirgli di emanciparsi oltre che dal valore d’uso e dal lavoro
anche dalla determinatezza spaziale) il capitale non può, in realtà,
fare a meno dello spazio e, ripetiamolo, della differenza fra
gli spazi. In primo luogo perché anche il capitale monetario e/o
finanziario deve darsi una sede (o un insieme i sedi distribuite ad hoc),
situata inevitabilmente in uno stato scelto in base alla convenienza
fiscale e politica. Inoltre, e più significativamente, perché esso,
anche nella sua forma astratta, può vivere solo approfittando delle differenze fra diversi territori:
il gioco di comprare a poco e di vendere a molto ed il gioco
dell’elusione fiscale (campi nei quali si esercita il 95% della pretesa
genialità dei manager up to date) solo su queste differenze si basano. Nulla è lontano dalle esigenze del capitale finanziario quanto lo è uno spazio omogeneo. Lo
spazio sognato dal capitale è certamente quello in cui ci si possa
liberamente muovere: ma il movimento ha senso solo se il capitale stesso
può accrescersi approfittando dei dislivelli, delle escursioni, delle frontiere.
Frontiere che non a caso la globalizzazione, frantumando precedenti
stati nazionali, ha moltiplicato di gran lunga. Infine, e soprattutto,
le differenze spaziali entrano in campo come momenti essenziali dei
processi di centralizzazione tipici
del capitalismo. Una centralizzazione che non è affatto una semplice e
neutra “integrazione della produzione”, ma è piuttosto gerarchizzazione,
ossia sottomissione dei capitali deboli a quelli più forti,
inglobamento dei primi nei secondi, aumento del potere delle imprese
così centralizzate sia nei confronti degli stati che nei confronti del
lavoro. Per dar luogo a questi rapporti gerarchici il capitale non ha
bisogno solo di spazi differenti, ma di spazi diseguali.
Ovviamente tutte le diseguaglianze di potere e di influenza vengono
usate per schiacciare i capitali più deboli, ma il punto in cui si
condensa la maggior parte di queste diseguaglianze, il punto che dà
luogo alle più rigide linee di divisione, è proprio la diseguaglianza fra territori:
nulla galvanizza il capitale più della possibilità di avere a che fare
con materie prime, lavoratori e capitali concorrenti che risiedono in
uno spazio “altro”, dotato di minori tutele, in cui sia più facile
acquistare a basso costo e vendere merci (e denaro) a credito. Nulla
favorisce la centralizzazione e la concentrazione del capitale più
dell’esistenza di gerarchie spaziali che, a loro volta, vengono
approfondite dall’addensamento del capitale stesso attorno ad un centro.
Ed è per creare quelle gerarchie, modificarle a proprio vantaggio e
usarle a piacimento che il capitale, come abbiamo visto, ricorre alla
guerra.
5.2
E
infatti la riorganizzazione gerarchica degli spazi e la ridefinizione
delle frontiere, entrambe necessarie allo sviluppo del mercato mondiale,
non sono il frutto di un’espansione naturale del mercato stesso, ma
dell’azione politico-militare di uno stato o di un gruppo di stati. La
globalizzazione (rectius, la parziale e reversibile estensione del libero mercato oltre l’occidente capitalistico) si afferma prima di tutto come conseguenza di uno scontro militare di enorme portata, ancorché indiretto, tra Usa e Urss, e poi si concretizza come risultato della frammentazione manu militari di
altri stati: Jugoslavia, Iraq, Libia, ecc.. Il consistente fenomeno
dell’esportazione di capitali, che è l’essenza della globalizzazione,
può creare l’impressione che qui si abbia a che fare con un processo di
tipo quasi esclusivamente economico, in cui l’azione militare svolge
soltanto un ruolo accessorio. Ma l’esportazione di capitale (oltre ad
essere spesso strumento di precise strategie politiche) è anche o
soprattutto esportazione dei rapporti sociali capitalistici: proprio
per questo motivo essa non può essere, e men che mai nel momento che
dischiude le possibilità di esportazione, un’attività meramente
economica e quindi non può avvenire senza un preliminare intervento politico-militare teso
a modificare governi e costituzioni in modo da renderli permeabili a
detti rapporti. Ed anche quando il tutto si presenta come semplice
scambio economico l’accettazione di condizioni sfavorevoli da parte di
alcuni paesi dipende in ultima analisi dalla consapevolezza di una
debolezza militare. Si tratta, né più né meno, di imperialismo (ancorché
esercitato non più soltanto da singole nazioni ma da un gruppo di
nazioni aggregate attorno ad una nazione dominante). A differenza di
quanto accadeva nell’epoca studiata da Lenin, dietro gli stati
nazionali, e dietro lo stesso stato dominante, non vi sono soltanto
capitali di origine autoctona. L’accumulazione del capitale può
avvenire, e in effetti avviene, all’interno di stati diversi, oppure può
derivare dagli intermundia della
speculazione finanziaria: ma qualunque sia il suo luogo d’origine il
capitale deve alla fine necessariamente convergere (anche se con scarti,
frizioni, momentanee divaricazioni) verso uno stato forte e
possibilmente verso lo stato più forte,
quello che maggiormente garantisce l’espansione del territorio
disponibile. Troppi accettano come un truismo l’idea che ogni
ampliamento dello spazio del mercato comporti una proporzionale perdita
di rilevanza degli stati. Eppure quello spazio viene ampliato quasi
sempre con il sangue. Non esiste nessun world market senza un efficace world cop,
non c’è globalizzazione senza imperialismo, senza uno stato che tuteli i
capitali più forti e soggioghi quelli più deboli ed i loro stati di
riferimento. E’ per questo che l’esito finale della globalizzazione, che
dalla guerra ha preso le mosse, non sarà (non è) il governo mondiale,
ma la crisi geopolitica mondiale, ossia nuovamente la guerra.
6.
Lo sviluppo ineguale che
Lenin aveva posto a fondamento di molte delle sue prescrizioni
politiche non è quindi legato ad una fase particolare del capitalismo e
dello stesso imperialismo, ma è condizione inevitabile della sussistenza
del capitale, il quale solo nella diseguaglianza si sviluppa. Si può
dire che le gerarchie spaziali (intercorrano esse tra regioni, tra stati o tra blocchi di stati ) sono una delle forme della riproduzione delle gerarchie sociali capitalistiche,
che lo spazio non è semplicemente il teatro in cui si svolge il dramma
della lotta di classe, ma è il coautore, ed in alcuni casi il regista,
di questo stesso dramma, e infine che nessun mutamento sociale può essere davvero tale se non si traduce anche in un mutamento delle relazioni spaziali. Anzi,
poiché il processo di centralizzazione del capitale avviene ormai
inevitabilmente su scala internazionale e poiché tale processo determina
tempi e modi della riproduzione generale dei rapporti sociali
capitalistici, si deve precisare che le gerarchie geopolitiche (nella
cui cornice la centralizzazione è resa possibile) sono la condizione principale e più immediatamente efficace della
riproduzione ordinata dei rapporti di classe. E infatti mentre
all’interno dello spazio della nazione la riproduzione dei rapporti
gerarchici del capitalismo deve tener conto della resistenza localmente
organizzata dalle classi popolari, nonché delle forme della
legittimazione e in ogni caso del consenso,
nello spazio dell’ordine mondiale tutte queste remore spariscono,
vigono solo i più duri rapporti di forza fra stati e fra (macro)agenti
del mercato, e la violenza economica,
politica e militare diviene il regolatore principale delle relazioni.
Il rapporto fra ordine geopolitico e gerarchie di classe si presenta qui
nella sua forma più pura, e lo stato capitalistico appare anche in
questo caso come il più efficace agente di quell’ordine. Per questo
dobbiamo tentare di comprenderne meglio la natura, cosa che inizieremo a
fare nella seconda parte di questo scritto.
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