dinamopress Riccardo Carraro
La gara ciclistica più importante d'Italia avrà quest'anno le tre tappe d'avvio al di là del Mediterraneo: nei territori occupati da Israele e in cui i palestinesi vivono un quotidiano apartheid. Un'operazione di sportwashing in pieno stile.
Uno
degli strumenti da sempre utilizzato da Israele per promuoversi come
paese democratico, amico, “normalizzato” e vicino all’Europa, è la strumentalizzazione delle vicende culturali,
sociali e pure di quelle sportive. Nel fare questo non è neppure
originale, utilizzare lo sport a livello internazionale come strumento
di propaganda è una pratica da sempre in voga, basti pensare alle
Olimpiadi di Berlino del 1936 o ai mondiali argentini del 1978,
utilizzati dalle dittature nazista e argentina per essere accettate e
celebrate in ambito internazionale.
Quando il governo israeliano si muove in questi “campi” è oggetto di forti campagne specifiche da parte del movimento internazionale per il boicottaggio,
il BDS, perché sono contesti di massima visibilità in cui Israele si
espone a livello mediatico, e pertanto la dura critica diventa
necessaria e rilevante. Da tempo è attiva, ad esempio, una campagna per
chiedere alla FIFA di sospendere la squadra di Israele dalle
competizioni internazionali, e di recente si è riaccesa la campagna, con
la partita Italia-Israele per le qualificazioni ai mondiali 2018.
Quello che sta accadendo attorno alla vicenda del Giro di Italia 2018, però, è più spudorato e ci riguarda direttamente.
Grazie alla mediazione e all’investimento del magnate israelo-canadese, Sylvian Adams,
l’edizione numero 101 del Giro di Italia, il 4 maggio 2018, partirà da
Gerusalemme e farà ben tre tappe in territorio israeliano prima di
arrivare nella nostra penisola. Capita spesso che il Giro inizi o
sconfini in paesi limitrofi all’Italia, mai però in un Paese addirittura
parte di un altro continente (ricordiamolo, Israele è in Medio Oriente e
quindi in Asia).
Gravissima poi è la giustificazione addotta per questa scelta, cioè la “storia” di Gerusalemme, e l’anniversario della nascita dello Stato di Israele (1948/2018). Peccato che quel 1948 per milioni di palestinesi di West Bank, Gaza e della diaspora, rappresenti la nakba,
cioè la distruzione della propria terra, con più di ottocento villaggi
rasi al suolo e 750 mila persone costrette a fuggire dalle proprie case,
senza poterci più tornare. Quella terra, però, grazie al Giro d’Italia,
si potrà vedere e celebrare in mondovisione e questo è intollerabile
oltre che offensivo.
Cosa
sarebbe accaduto se negli anni ’80 il Giro di Italia fosse partito da
Johannesburg? Perché quella che era una percezione collettiva al tempo,
cioè che il Sudafrica non fosse uno Stato democratico e pertanto fosse
legittimo esercitare pressione politica perché cambiasse la situazione
interna, oggi non riesce a riprodursi e, al contrario, si fa a gara tra
chi riesce a normalizzare la presenza di Israele tra gli Stati
“democratici”? L’Italia, anche questa volta, compete nella gara a chi
normalizza di più.
È
ovvio che il tempo in cui il nostro Paese si divideva con passione tra
chi sosteneva le gesta di Bartali e chi quelle di Coppi è lontano, ed è
altrettanto innegabile che il mondo del ciclismo sia vittima della
stessa centrifuga in cui viene oggi spappolato lo sport
professionistico: business, scommesse, sponsor milionari,
mercificazione, doping.
Tuttavia, a mio parere, il ciclismo
mantiene ancora, più di altri sport, una vena popolare e genuina. Al
mio paese, da piccolo, quando passava il Giro d’Italia era una gran
festa e quando una tappa terminò lì, la festa durò due giorni. In molti
cittadine d’Italia la corsa rosa credo assuma ancora oggi questo valore.
Pensare pertanto che una gara di questo tipo sia svenduta alla propaganda israeliana è vergognoso.
Durante
la prima tappa, qualcuno dirà ai telespettatori che, quando i ciclisti
passano per Gerusalemme Est, stanno attraversando territori che l’ONU ha
dichiarato essere occupati illegalmente dal 1967 e dai quali ha richiesto ad Israele il ritiro (risoluzione 242)? Luoghi in cui l’apartheid
è reale e percepibile a vista d’occhio e che sono sottoposti a un
logorante, lento processo di pulizia etnica? Qualcuno racconterà che,
quando nella terza tappa attraversano il deserto del Negev, stanno
attraversando luoghi in cui la popolazione beduina originaria è vessata
dallo Stato israeliano, che ne distrugge spesso i villaggi e la priva di
servizi basici e a volte dello stesso diritto alla cittadinanza?
Purtroppo
la risposta a queste domande è scontata. Ed è altrettanto scontato che
nessun palestinese è stato coinvolto nella scelta né verrà coinvolto nei
tre giorni di gara: la questione palestinese, per gli organizzatori del Giro, semplicemente non esiste.
Le esternazioni fatte dal direttore del Giro, Mauro Vegni, al momento della conferenza stampa di presentazione sono state indegne: «Si è scelto Gerusalemme per la sua storia» Quale? O che parte della sua storia? «Israele è una nazione molto aperta».
Una frase tragicamente esilarante, se si pensa alla realtà di un paese
circondato interamente di muri e da militarizzazione per proteggersi dai
propri “vicini”.
Anche il nostro ministro dello Sport, Lotti, ha dato il meglio di sé «Gerusalemme
è un luogo affascinante, immerso in una sua storia e in uno scenario
irripetibili, simbolo della ricerca instancabile dell’armonia tra
popoli. Far partire qui il Giro è una scelta che rappresenta un ponte
ideale tra Italia e Israele, fatto di cultura, tradizioni e ora anche
sport. Lo sport è un veicolo formidabile di riconciliazione e concordia
tra le differenze, sociali, identitarie, religiose, politiche. E la
bellezza del ciclismo, che è un atto di amore per i territori che si
percorrono, non può che essere esaltata da questa scelta così
lungimirante degli organizzatori del Giro». In effetti avevamo proprio bisogno di un ministro dello sport che arrivasse a dire perle di saggezza di tale portata.
Il Gruppo RCS, proprietario de La Gazzetta dello Sport, e quindi del Giro d’Italia, non si esprime, forse non a caso.
Tocca a noi fare il possibile per criticare duramente questa scelta: è partita la campagna #Relocatetherace.
Non sarà facile far cambiare le prime tre tappe del Giro di Italia, ma è
fondamentale che la campagna assuma un profilo significativo, che si
diffonda in ambienti sportivi e non, perché si sappia quanto sta
accadendo, quale ingiustizia profonda
marchia il Giro 2018. Possiamo utilizzare questa occasione per parlare
di occupazione e di apartheid, per narrare un luogo del mondo ancora
molto lontano da orizzonti di giustizia e pace.
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