Il compagno Felice Besostri, anima cuore e bandiera delle battaglie (vinte) in Corte Costituzionale versus “Porcellum” e “Italikum” lamenta in una sua mail “mentre si fa una deforma istituzionale con una legge ordinaria incostituzionale come il Rosatellum 2.0 senza reazioni apprezzabili delle forze di opposizione, che chiamerei di rassegnazione, fa pensare”.
Disponendo
della sola arma della memoria (ormai labile) e non disponendo di alcuna
facoltà per stimolare i partiti dell’opposizione e i sindacati nel
senso indicato giustamente da Besostri, non posso far altro che offrire
al dibattito una ricostruzione (parziale) sul “come” e “perché” fu
condotto dalle opposizioni di sinistra lo scontro, in Parlamento e nel
Paese, avverso quella che poi sarebbe passata alla storia come “legge
truffa”. Correva l’anno 1953.
In
premessa aggiungo un ricordo personale: come si noterà per coloro che
avranno la pazienza di leggere in quel frangente furono proclamati dalla
CGIL ben due scioperi generali.
Chi
scrive visse quelle vicenda da ragazzo con grande interesse e
partecipazione soprattutto stimolate per via familiare appartenendo
infatti ad una vera e propria stirpe di operai di fabbrica iscritti,
militanti, dirigenti del PCI.
Ebbene,
in quella fase storica si stava vivendo in una città industriale come
Savona una fase di scontro sociale molto forte attorno al nodo della
riconversione dell’industria bellica, con conseguente difesa dei posti
di lavoro nella siderurgia e nell’elettromeccanica.
Savona
e Vado Ligure contavano, allora, circa 10.000 addetti nelle fabbriche e
gli scioperi risultavano manifestazioni imponenti con la presenza di
tutta la Città e il seguito di scontri anche molto violenti con la
polizia (i famosi “scelbotti”) che caricavano ed eseguivano caroselli
con le jeep salendo sui marciapiedi dove i manifestanti (presenti
tantissime donne) cercavano di rifugiarsi.
Un
vero e proprio clima di tensione che si ritrovò identico nell’occasione
degli scioperi riguardanti la legge elettorale: certo erano tempi da
“cinghia di trasmissione” ma la qualità della consapevolezza e della
tensione politica erano tali da far comprendere subito agli operai e
alle loro famiglie l’importanza della posta in gioco anche sul piano
della rappresentanza istituzionale.
Altra cultura politica e altra tensione morale!
Le
formule elettorali hanno sempre fornito l’occasione per dibattiti molto
accaniti e intensi tra le forze politiche, che hanno cercato
frequentemente (come poi è stato realizzato in tempi più recenti) di
elaborare dei meccanismi utili alla contingenza della fase e alla
convenienza di parte, piuttosto che puntare su di una prospettiva di
tipo “sistemico” fondata su di un’analisi di lungo periodo.
Ho
pensato allora fosse utile, non soltanto per ragioni di carattere
storico, rievocare quel passaggio assolutamente fondamentale nella
Storia della Repubblica.
Andando
per ordine: il 18 aprile 1948 nelle elezioni per la I legislatura
repubblicana la DC aveva ottenuto il 49,8% dei voti e la maggioranza
assoluta alla Camera dei Deputati, formando un governo quadripartito
presieduto da De Gasperi e comprendente il PSDI, il PRI e il PLI.
Prima
dell’inizio della II legislatura si svolgono in Italia, in due tornate,
tra il 1951 e il 1952, le elezioni amministrative e si compie, tra De
Gasperi e il Vaticano uno “strappo” circa la proposta, rifiutata dal
Presidente del Consiglio, per la formazione di un “listone” alle
elezioni comunali di Roma comprendente anche i neo-fascisti del MSI.
L’esito complessivo della tornata amministrativa 51-52 mette in allarme la maggioranza di governo.
Infatti, la DC vede diminuire il suo consenso di ben 13 punti percentuali rispetto al 1948.
Questo
significava che, se lo stesso fenomeno si fosse riprodotto al momento
delle elezioni politiche, la topografia del Parlamento sarebbe stata
profondamente modificata.
Inoltre,
il dato che emergeva in modo chiaro dai risultati elettorali era quello
della tendenza di un sistema che nella sua prima manifestazione era
apparso fortemente bipolare (il Fronte Democratico Popolare aveva
ottenuto il 31%, quindi i due primi partiti assommavano circa all’80%
dei voti), a diventare almeno tripolare a causa della forte
legittimazione ottenuta nella competizione, soprattutto al Sud, dal
Partito Monarchico e dal MSI.
Questo
risultato produsse nella classe politica di governo e in particolare
all’interno della DC quella che viene comunemente definita come
“sindrome di Weimar”: ovvero il timore che i partiti posti ai due
estremi dell’arco parlamentare possano strategicamente unire le loro due
opposizioni contro il governo e rendere, di fatto, il sistema
ingovernabile.
In
questo clima è maturata, nel timore che lo scontro Est-Ovest potesse
travalicare i confini della guerra fredda e portare il mondo verso un
terzo conflitto mondiale, la decisione (fortemente sostenuta dagli Stati
Uniti) di “blindare la democrazia”, attraverso un cambio del sistema
elettorale che permettesse alla formula degasperiana del centrismo di
mantenere e consolidare la guida del Paese.
Si
avviò così, sul finire della I legislatura, in Parlamento e nel Paese
un acceso dibattito, sul progetto di riforma elettorale presentato dal
ministro dell’interno Scelba nell’ottobre del ’52.
Con
esso si intendeva promuovere l’assegnazione di un premio d maggioranza
del 65% dei seggi al partito o alla coalizione di partiti apparentati
che ottenessero a livello elettorale un consenso pari almeno al 50% più
uno del totale dei voti validi (come si può osservare si trattava,
comunque, di un vero e proprio premio di maggioranza, e non di un premio
di “minoranza” come nella formula attuale).
La
determinazione con cui il governo perseguì l’approvazione del progetto,
dimostrata dall’aver posto la “fiducia” in entrambi i rami del
Parlamento, l’anomalia delle procedure (in particolare nell’occasione
del voto finale al Senato) e le accuse di volontà di manipolazione del
risultato elettorale che entrambe le opposizioni lanciarono a più
riprese alla Democrazia Cristiana restarono nella memoria collettiva
attraverso l’epiteto appunto – di “legge truffa”.
PCI
e PSI, in particolare Togliatti, continuarono in quei giorni a puntare
continuamente il dito sulle presunte analogie tra la legge elettorale
del Governo e la Legge Acerbo (notare la similitudine con le obiezioni
avanzate ai nostri giorni, in particolare al riguardo dell’Italikum: nel
caso che stiamo esaminando, però, si trattava di una vera legge con
premio “di maggioranza” e non di “minoranza” come si è preteso di fare
al giorno d’oggi ricevendo la solenne bocciatura della Corte
Costituzionale).
L’atteggiamento
tenuto da PCI e PSI nei confronti di questo sistema era mosso anche dal
timore che tutto questo fosse propedeutica ad una svolta autoritaria a
destra e ciò li spinse, quindi, a presentare quattro pregiudiziali sulla
pretesa incostituzionalità sulla legge, oltre che una richiesta di
sospensiva avanzata da Pietro Nenni. Ma la sera del 9 dicembre la Camera
le respinse.
La
prima pregiudiziale presentata intravedeva la presunta
incostituzionalità della legge nel fatto che “la proporzionale pura sta
alla base della nostra Costituzione” e che “la proporzionale rappresenta
la conquista più avanzata della Democrazia”. Ma la richiesta non venne
accolta dal Governo perchè la Carta Costituzionale – rispose Scelba –
non contemplava alcuna norma in base alla quale la Camera avrebbe dovuto
essere eletta col criterio proporzionale integrale e che neppure
esisteva un criterio generale in favore del proporzionale.
La
seconda invece riguardava il principio dell’uguaglianza del voto, che
con il nuovo sistema elettorale prefigurato dalla legge, secondo le
sinistre, sarebbe stato violato. Ma anche questa fu rigettata dal
ministro Scelba, che osservò come tale eguaglianza non veniva meno per
il semplice fatto che tale criterio era seguito “da Paesi di antica ed
autentica democrazia e non è stato seguito per l’elezione del Senato.
Per l’elezione di un Senatore, ad esempio, furono necessari 125mila voti
in Piemonte, mentre ne bastarono 41 mila in Basilicata”. In effetti,
già in quegli anni, in Francia si votava col premio di maggioranza ed in
Inghilterra col collegio uninominale. Inoltre la Costituzione si
limitava ad escludere il solo voto plurimo.
La
terza pregiudiziale invece intravedeva una violazione del principio di
tutela delle minoranze etniche presenti nella Valle D’Aosta ed in
Trentino Alto-Adige , mentre la quarta – mossa da Togliatti –
accusava il governo di voler spianare con questa legge la strada ad un
Governo “oligarchico” e quindi ad una successiva riforma arbitraria
della Costituzione. Ma anche questa osservazione fu facilmente rigettata
dal ministro dell’interno, in quanto, anche se la Democrazia Cristiana
avesse ottenuto nella prossima futura legislatura la maggioranza
assoluta, essa da sola non avrebbe mai ottenuto quella maggioranza di
due terzi necessaria per modificare la Costituzione.
Infine,
nelle votazioni seguite subito dopo, le quattro pregiudiziali poste da
Togliatti, Basso, Ferrando e Francesco De Martino, riunite poi in una
sola, furono tutte respinte per appello nominale, con 314 voti e 180
contrari. Invece successivamente, con 296 voti contro 207 – a scrutinio
segreto – venne respinta la sospensiva presentata da Nenni.
Numerose
furono le manifestazioni organizzate da PCI e PSI contro questa
decisione e a Roma una dimostrazione fu dispersa dalla celere
Il
20 gennaio la CGIL proclamò uno sciopero generale e in piazza la
polizia fu costretta ad intervenire con gli idranti per evitare il
precipitare della situazione. In uno di questi scontri rimase contuso
fra gli altri anche il deputato comunista e direttore de “l’Unità”
Pietro Ingrao. Numerosi furono gli arresti.
Il
21 gennaio dopo una seduta di oltre 70 ore, nel corso della quale
intervennero tutti i deputati dell’opposizione, il governo chiese ed
ottenne la fiducia. Quindi la legge elettorale venne finalmente
approvata con 332 sì e 17 no. Durante il dibattito finale Palmiro
Togliatti propose in extremis il ritiro di tutti gli emendamenti
presentati dall’opposizione a patto che il Governo si fosse impegnato a
sottoporre la nuova legge ad un Referendum popolare, da tenersi
contestualmente al voto delle politiche, ma il Governo rifiutò
decisamente la proposta. A questo punto l’opposizione di sinistra
abbandonò l’aula per manifestare il proprio dissenso per questa
inusitata procedura della fiducia e verso il presidente della Camera
Gronchi che l’aveva avallata. Quindi il vicepresidente della camera
Fernando Targetti e gli altri membri dell’Ufficio di presidenza
appartenenti a PCI e PSI si dimisero.
Il
22 gennaio una delegazione di deputati dell’opposizione (composta dallo
stesso Fernando Targetti, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Fausto Gullo
e Tomaso Smith) illustrò al presidente della Repubblica Luigi Einaudi
le ragioni dell’ostruzionismo sulla legge elettorale e denunciò
l’incostituzionalità del modo di procedere del presidente della Camera
Gronchi. Einaudi però obiettò loro che non era di sua competenza tenere
conto dei rilievi che riguardavano la procedura parlamentare, la cui
disciplina ed applicazione era sempre rientrata fra i poteri propri
dell’Assemblea attraverso l’emanazione del suo regolamento.
Intanto
la legge continuò il suo percorso di approvazione ed il 27 gennaio
arrivò alla commissione interni del senato, dove si cominciò ad
esaminarla in sede referente, e il 12 febbraio l’aula approvò – con 165
sì e 111 no – la procedura d’urgenza per una discussione veloce della
legge, che iniziò il 7 marzo.
In
senato però la situazione si mostrò essere più difficoltosa del
previsto per il Governo, ma questa volta non solo a causa delle
opposizioni. Il presidente dell’aula, Giuseppe Paratore, un liberale di
vecchio stampo (da giovane era stato segretario nell’ultimo governo
Crispi), era contrarissimo a questa – fino ad allora – inusitata
procedura di porre la questione di fiducia su una legge elettorale allo
scopo dichiarato di troncare l’ostruzionismo dell’opposizione. Infatti
il primo giorno in cui la legge approdò in senato, Paratore ammonì da
subito De Gasperi affinché questa insolita procedura “non rappresenti un
precedente”. Quindi il PSI e il PCI ne approfittarono per ottenere il
suo appoggio riguardo quella proposta di referendum, con cui si sarebbe
chiesto ai cittadini se erano favorevoli al nuovo meccanismo previsto da
questa legge. Ma il governo rifiutò di nuovo energicamente questa
offerta delle opposizioni per due ragioni: per l’imminenza della
scadenza della legislatura e soprattutto perché il ricorrere ad un
Referendum non abrogativo era estraneo alla carta costituzionale.
De
Gasperi quindi continuò nella sua strategia verso l’approvazione della
legge e anche qui non mancarono quegli scontri che avevano
contrassegnato il primo iter alla Camera. Il 22 marzo il vicepresidente
del senato Umberto Tupini – che quel giorno presiedeva la seduta
dell’assemblea di Palazzo Madama in sostituzione di Paratore – notò un
numero rilevante di assenze fra i banchi della maggioranza. Quindi,
malgrado il suo ruolo, sollecitò il Governo a richiedere velocemente la
verifica del numero legale per impedire l’approvazione della proposta
del comunista Luigi Ruggeri di inversione dell’ordine del giorno, tesa
anche questa ad allungare i tempi dell’approvazione della legge
elettorale. L’opposizione protestò vivacemente e bloccò per alcune ore
la discussione. Allo scopo di attutire gli scontri, intervenne anche la
proposta di Ferruccio Parri di ridurre ulteriormente il premio di
maggioranza previsto come contropartita per il ricorso al voto di
fiducia, ma anche se l’idea fu giudicata positivamente fra i vari
schieramenti, non fu accolta dal Governo perché ormai mancava il
necessario tempo tecnico. Una simile modifica avrebbe infatti comportato
un ulteriore rinvio del testo alla Camera ad appena pochi giorni allo
scioglimento della legislatura.
Giunti
a questo punto Paratore, dopo un breve colloquio con il presidente
Einaudi, si dimise dalla carica di presidente del Senato, sostenendo di
non poter più svolgere imparzialmente la propria funzione, e dopo due
estenuanti giorni di consultazioni fu scelto come nuovo presidente del
Senato Meuccio Ruini, già ministro delle Colonie nel Gabinetto Nitti,
che il primo giorno del suo insediamento dichiarò: “Affronto quest’opera
con la stessa fermezza con la quale andai, con i capelli già grigi, sul
Carso”. Il 25 marzo la sua nomina ottenne l’approvazione di 169
senatori. Quella del candidato delle sinistre, Enrico Molè, ne ottenne
solo 109. Ruini nei giorni successivi si rivelò essere un’ottima scelta
per De Gasperi, in quanto riuscì a dirigere con fermezza tutto il
dibattito sulla legge, diventando una sorta di punto di riferimento
nelle polemiche fra la maggioranza e i partiti della sinistra.
Alla
fine, alle ore 15.55 del 29 marzo 1953, dopo interminabili battaglie
parlamentari e dopo una seduta di 77 ore e 50 minuti, la legge venne
approvata anche dal senato. Ottenne ben 174 voti favorevoli e solo 3
astenuti. Infatti l’opposizione al momento del voto abbandonò l’aula,
criticando anche qui la procedura utilizzata. Poco prima del voto finale
scoppiarono anche violentissimi incidenti, nel corso del quale il
ministro Randolfo Pacciardi rimase leggermente ferito, mentre il
ministro Ugo la Malfa fu schiaffeggiato dal senatore Emilio Lussu.
Quel giorno anche la CGIL fece la sua parte e proclamò uno sciopero generale.
L’Unità titolò “Ruini l’indegno”.
Il
giorno successivo l’opposizione operò il suo ultimo tentativo per
impedire la promulgazione della nuova legge elettorale. Anche questa
volta una delegazione di senatori della sinistra – ma anche di altri
settori politici – composta da Umberto Terracini, Ferruccio Parri,
Enrico Molè, Sandro Pertini, Mauro Scoccimarro, Pasquale Jannaccone,
Pietro Tomasi della Torretta ed Alberto Bergamini, chiese ed ottenne un
nuovo incontro con il Presidente della Repubblica Einaudi per invitarlo a
tener conto delle loro proteste, non promulgando la legge e rinviandone
il testo alle due Camere per un ulteriore verifica. La richiesta non
venne anche questa volta accolta ed il 31 mattina Einaudi promulgò la
legge elettorale e il testo di riforma fu pubblicato nello stesso
pomeriggio sulla Gazzetta Ufficiale. Pertanto essa ebbe fin da quel
giorno valore esecutivo.
Successivamente
– il 4 aprile – Einaudi, oltre alla Camera, sciolse con un anno di
anticipo dalla scadenza naturale anche il Senato, in modo da dare ad
entrambe le Camere una fisionomia omogenea con questo nuovo meccanismo
di voto, e furono fissate le elezioni per il 7 giugno.
Un
dibattito arroventato che ebbe anche importanti conseguenze politiche
sui partiti che appoggiavano la DC e all’interno dei quali non mancarono
le voci di distinguo fino a provare vere e proprie scissioni che
sfociarono nella formazione di liste schierate contro l’apparentamento
centrista: da PSDI e PRI, Parri e Calamandrei formarono “Unità
Popolare”, dal PLI l’ex-ministro Epicarmo Corbino (che aveva sostituito
al ministero dell’Economia Luigi Einaudi, quando questi fu eletto alla
Presidenza della Repubblica) fondò l’Alleanza Democratica Nazionale e si
schierò contro la nuova legge anche un’altra piccola formazione di
ex-PCI usciti dal partito a causa dello “scisma” jugoslavo e guidata dai
deputati Cucchi e Magnani, “Unità Socialista”. Tre gruppi che, alla
fine, non ottennero seggi al Parlamento ma le cui percentuali ebbero
indubbiamente un peso sull’esito finale della vicenda.
Anche
la campagna elettorale risultò particolarmente “calda”: il responsabile
della propaganda del PCI, Giancarlo Pajetta, inventò il celebre motto
dei “forchettoni” rivolto ai notabili democristiani e la stessa DC; o
meglio un suo giovane astro emergente Umberto Tupini incappò in un
clamoroso infortunio, organizzando a Roma una mostra fotografica sulla
“Chiesa del Silenzio” per dimostrare le condizioni di vessazione in cui
versava la Chiesa Cattolica nel Paesi dell’Est a “socialismo reale”. Fu,
però, dimostrato, che la mostra era composta di fotomontaggi e che i
sacerdoti ritratti dietro il filo spinato o stretti dalla guardia dei
“vopos” se ne stavano tranquillamente a Roma e si erano prestati come
comparse.
I risultati elettorali non furono quelli auspicati dal Governo.
A
fronte di un notevole recupero da parte della Democrazia Cristiana
rispetto ai risultati delle amministrative, infatti, i partiti
apparentati non ottennero la maggioranza assoluta per uno scarto minimo
di 34.000 voti.
Come era già avvenuto per il referendum istituzionale si parlò di brogli.
De
Gasperi, però, non rivendicò il riconteggio delle schede accettando il
risultato delle urne, assimilando così il risultato a una sorta di
responso referendario sulla legge maggioritaria.
Lo
scontro in atto produsse, comunque, un’impennata nella partecipazione,
che era già stata alta nel 1948, ma che crebbe sino al 93,8% degli
elettori (con il 4,6% di schede nulle e l’1,5% di schede bianche).
Comunisti
e socialisti si presentarono, in questa tornata elettorale, separati
ottenendo il PCI il 22,6% e il PSI il 12,7%, dimostrando quindi evidenti
segnali di crescita rispetto al risultato realizzato dal Fronte
Democratico Popolare nel 1948.
Le
tre piccole formazioni schierate “contro” la legge maggioritaria
ottennero complessivamente l’1,8% (USI 0,8%, Unità Popolare 0,6%, ADN
0,4%) ma risultarono determinanti, spostando voti proprio da PRI; PLI,
PSDI nell’ostacolare il raggiungimento della soglia del 50% da parte dei
partiti apparentati.
Di
grande rilievo risultò, infine, l’avanzamento di monarchici e missini
che ottennero rispettivamente il 6,8% e il 5,8%, avanzando nel complesso
del 4% ( con punte del 21,8% in Campania, anche grazie alla campagna
elettorale delle “due scarpe” del sindaco di Napoli, Lauro, del 15, %%
in Puglia, dell’11,6% in Sicilia.)
Il
sistema proporzionale si era dunque imposto come la tecnica preferita
per l’attribuzione dei seggi e avrebbe permeato gli equilibri del
sistema politico italiano per un lungo periodo, fino agli anni’90 del XX
secolo.
Concludiamo
così questo abbozzo di ricostruzione usato soltanto come esempio della
forza di quell’opposizione alla legge maggioritaria e del risultato,
davvero “storico”, ottenuto.
Altri tempi e soprattutto diversi soggetti politici: diversi i partiti e diversi i loro gruppi dirigenti.
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