Stare
ai contenuti, ed entrare nel merito: a molti mesi dal referendum
costituzionale è diventata una litania che rimbalza sui principali
organi di stampa e sui media, come se un super direttore unico li
comandasse a bacchetta. Stare ai contenuti è giusto, anzi è
indispensabile. Ma perché si tace, o al più si emette qualche sommesso
sospiro, a proposito delle rozze castronerie storiche e delle
strumentali falsificazioni furbesche in cui sembra essersi specializzato
il capo del governo? L’esercizio della critica, che dovrebbe essere
rigoroso e senza sconti, in questo caso si affievolisce tra
impercettibili sussurri e complici silenzi, alimentando il degrado
crescente della politica abbassata al rango di un gioco d’azzardo, in
cui si può dichiarare tutto e il contrario di tutto con il solo scopo di
raccattare voti a destra e a sinistra.
Adesso, a differenza del passato, il capo del governo afferma che è lontana mille miglia da lui l’idea di voler personalizzare lo scontro. Ma in pari tempo fa sapere, con tutti i mezzi pubblici e privati, che in caso di sconfitta al referendum si dimetterà e abbandonerà la politica. Lui, il sorriso appeso della signorina Boschi naturalmente, e l’intero governo. Il massimo della personalizzazione, e anche qualcosa d’altro: né più né meno, l’annuncio greve di un ricatto. Cari italiani, ci dice lo statista di Rignano senza peli sulla lingua, o votate sì o precipiterete nel caos, in una condizione peggiore di quella nella quale già oggi vi trovate. Come se la Costituzione sia cosa sua e dei suoi sodali, e non il patto tra gli italiani fondato sui pilastri della solidarietà, dell’uguaglianza, della libertà.
La manipolazione della storia è il primo dei principali trucchi cui fa ricorso Matteo Renzi per vincere il referendum e stabilizzare il suo potere. In funzione non solo di una stagione di governo, bensì di una feroce modernizzazione capitalistica che spazzi via i vecchi gruppi di comando e apra le porte in Italia a una nuova oligarchia del capitale nella dimensione europea e mondiale. Di questo si tratta, e non è poca cosa. Per questo il referendum costituzionale, in combinazione con una legge elettorale ipermaggioritaria, è l’appuntamento della vita, in cui ci si gioca tutto impiegando tutti i mezzi, leciti e meno leciti. Fino all’uso strumentale di Berlinguer in funzione di acchiappavoti, il quale - ci fa sapere Renzi - «voleva il monocameralismo». Ma - e qui viene in chiaro un’ evidente menzogna - per scopi esattamente opposti a quelli per i quali si spende il nostro venditore di riforme all’ingrosso.
Il monocameralismo proposto da Berlinguer non è in alcun modo confrontabile con il pastrocchio renziano, che non abolisce il Senato ma nell’ambito di un bicameralismo zoppo ne fa uno strumento a disposizione del partito maggioritario per consolidare un determinato sistema di potere. E non è una scoperta che il Pci abbia sempre preferito il monocameralismo proporzionale, eliminando contrappesi che potessero limitare l’espressione diretta del popolo sovrano. Berlinguer puntava al potenziamento della democrazia e all’estensione della partecipazione popolare, senza escludere forme di democrazia diretta, mentre oggi il capo del governo, al contrario, vuole trasformare una minoranza assoluta di voti in una maggioranza assoluta di eletti, in grado di impadronirsi del governo, della Camera, del Senato e della presidenza della Repubblica. È la consegna del potere a un’oligarchia, accentuando la frattura sempre più marcata tra istituzioni e popolo.
Nell’intervista rilasciata all’Unità il 27 maggio 1984 il segretario del Pci denunciava i rischi di autoritarismo, derivanti - da un lato - dall’accresciuto potere del capitalismo finanziario interessato a favorire «la rete di operazioni “sporche”» e - dall’altro - dalla «sovrapposizione dell’autorità al consenso», traducendo il problema - reale - dell’efficienza democratica nella pratica antidemocratica della riduzione dei poteri del Parlamento. Proprio per contrastare questa tendenza, che si esprimeva allora nel «decisionismo» craxiano, fu avanzata la proposta del Pci articolata in tre punti: monocameralismo impiantato sul sistema elettorale proporzionale, drastica riduzione del numero dei parlamentari, delegificazione.
Quale credibilità può avere oggi un capo di governo il quale della Costituzione ha una visione completamente opposta? E che, teorizzando e praticando la rottamazione degli uomini e della storia, tenta in pari tempo di appropriarsi indegnamente di Enrico Berlinguer per scopi del tutto strumentali? Salvo poi mettere all’indice lo stesso Berlinguer, quando non è possibile utilizzare il segretario del Pci nella bassa cucina renziana. Come è accaduto nello sconcertante episodio che ha coinvolto il giornalista dell’Unità Massimo Franchi, contro il quale è stato aperto un procedimento disciplinare dalla proprietà del quotidiano per aver scritto su Twitter due commenti in difesa del segretario comunista. Con l’argomento che quei commenti erano in contrasto con la linea editoriale del giornale fondato da Gramsci. Un’assurdità e un comportamento padronale della peggiore specie, che assesta un duro colpo alla libertà di pensiero e che Gramsci avrebbe fatto inorridire. Ma questi sono i risultati quando la politica diventa puro esercizio di potere, in assenza di riferimenti culturali forti e di saldi principi morali.
Lo slogan magistrale di Renzi è diventato questo: «Senza riforma l’Italia è il paradiso degli inciuci», dunque votate sì al referendum costituzionale. E qui emerge il secondo trucco falsificante per mascherare le realtà e trarre in inganno gli italiani.
I mali dell’Italia, secondo la tesi dello slogan renziano, espressione tra le più compiute della cosiddetta antipolitica, dipendono dalla Costituzione, che rallenta ed ostacola l’azione del governo. Non dalle politiche del governo praticate nell’interesse di pochi. Non dal fatto che la Costituzione sia restata per la maggior parte inapplicata e venga sistematicamente picconata nei principi generali e nella sua parte più innovativa, quella dei diritti sociali e del lavoro, come del resto chiedono J. P: Morgan e la grande finanza. Quindi, ci dice secondo la sua logica il controriformista della Leopolda, dateci più potere e tutto andrà a posto.
È la stessa tesi sempre sostenuta da Berlusconi, il quale è stato clamorosamente sconfitto nel referendum del 2006, quando ha tentato di cambiare la Costituzione. E perciò ha inizialmente approvato con calore la “riforma” del suo figlioccio, per poi distaccarsene quando il figlioccio ha mostrato i denti facendo intendere di non voler spartire il potere con nessuno. Una vicenda molto istruttiva, che conferma i seguenti dati di fatto: questa “riforma”, come quella berlusconiana, è una consistente operazione di potere, volta a restringere la partecipazione democratica; Renzi, su una questione dirimente come quella costituzionale, non è diverso da Berlusconi. L’uno e l’altro rappresentano gli stessi interessi anche se divergono nella gestione del potere.
Da questo punto di vista, se Renzi si dichiara di sinistra e Berlusconi è indubbiamente di destra, non c’è differenza tra destra e sinistra. È significativo il fatto che né l’uno né l’altro mai abbiano fatto sapere cosa intendono fare per dare attuazione alla Carta fondamentale degli italiani, e che entrambi muovano nella stessa direzione retrograda. Ma l’alternativa a questo stato delle cose non sta nell’immobilismo, bensì in quegli aggiornamenti che rendano più agevole e concretamente praticabile l’attuazione dei principi e dei diritti costituzionali, civili, sociali, politici. Un percorso del tutto diverso da quello del Pd di Renzi e dei partiti dichiaratamente di destra, di cui le proposte indicate dal Pci di Berlinguer sono un esempio da non dimenticare.
Ed ecco il terzo falso di Renzi, occultato con la copertura aristocratica di Napolitano, il quale dichiarandosi super partes sta invece ben assestato da una parte: la “riforma” - asseriscono - riguarda la seconda parte della Costituzione, quella dell’ordinamento della Repubblica, mentre la prima parte, quella dei diritti e dei doveri dei cittadini, rimane intatta. Qui si gioca sull’equivoco. Perché la controriforma renziana, al pari di quella berlusconiana, non tocca formalmente i principi e il capitolo dei diritti e dei doveri, ma di fatto li sterilizza cancellando le condizioni che li rendono esigibili.
Nell’impianto costituzionale, un insieme coerente di norme di chiarezza cristallina derivante dal fondamento del lavoro, per cui le lavoratrici e i lavoratori diventano soggetti protagonisti del patto tra gli italiani, i nuovi diritti sociali definiti nel titolo III della prima parte sono esigibili a determinate condizioni chiaramente enunciate: che tutti concorrano alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva (art. 53); che siano posti dei limiti alla proprietà privata sui mezzi di produzione e di comunicazione, in modo da assicurarne la funzione sociale e di far sì che l’iniziativa economica non rechi danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (artt. 41 seguenti); che i lavoratori, avendo conquistato la libertà di sciopero e di organizzazione sindacale (artt. 39 e 40) si associno liberamente in un partito per potere concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (art. 49).
Sono gli articoli di cui meno si parla e che di fatto vengono ignorati. Ma se le condizioni in essi indicate vengono meno, la prima parte della Costituzione sarà praticabile nel regno dei cieli. Non è un caso che da quando il lavoro non ha più rappresentanza politica tutto l’impianto costituzionale vacilla. Una condizione che si è aggravata con l’avanzare della crisi globale e con il concorso delle politiche europee. Nella quale il governo Renzi agisce con un orientamento preciso: dopo il Jobs Act con il sì al referendum, che nelle intenzioni di chi lo promuove dovrebbe stabilizzare la cancellazione definitiva della rappresentanza politica del lavoro e l’abbattimento dei diritti sociali, si intende chiudere definitivamente una intera fase storica ripristinando il dominio assoluto del capitale nelle forme della sua globalizzazione finanziaria.
Questa è la questione di fondo che il trasformista di Rignano si sforza di nascondere con i suoi trucchi. Una questione che riguarda le prospettive di vita di milioni di persone, alle quali è indispensabile rendere chiara la portata della posta in gioco. Il no alla controriforma costituzionale e alla legge elettorale è il vero passaggio obbligato di un cambiamento possibile.
Adesso, a differenza del passato, il capo del governo afferma che è lontana mille miglia da lui l’idea di voler personalizzare lo scontro. Ma in pari tempo fa sapere, con tutti i mezzi pubblici e privati, che in caso di sconfitta al referendum si dimetterà e abbandonerà la politica. Lui, il sorriso appeso della signorina Boschi naturalmente, e l’intero governo. Il massimo della personalizzazione, e anche qualcosa d’altro: né più né meno, l’annuncio greve di un ricatto. Cari italiani, ci dice lo statista di Rignano senza peli sulla lingua, o votate sì o precipiterete nel caos, in una condizione peggiore di quella nella quale già oggi vi trovate. Come se la Costituzione sia cosa sua e dei suoi sodali, e non il patto tra gli italiani fondato sui pilastri della solidarietà, dell’uguaglianza, della libertà.
La manipolazione della storia è il primo dei principali trucchi cui fa ricorso Matteo Renzi per vincere il referendum e stabilizzare il suo potere. In funzione non solo di una stagione di governo, bensì di una feroce modernizzazione capitalistica che spazzi via i vecchi gruppi di comando e apra le porte in Italia a una nuova oligarchia del capitale nella dimensione europea e mondiale. Di questo si tratta, e non è poca cosa. Per questo il referendum costituzionale, in combinazione con una legge elettorale ipermaggioritaria, è l’appuntamento della vita, in cui ci si gioca tutto impiegando tutti i mezzi, leciti e meno leciti. Fino all’uso strumentale di Berlinguer in funzione di acchiappavoti, il quale - ci fa sapere Renzi - «voleva il monocameralismo». Ma - e qui viene in chiaro un’ evidente menzogna - per scopi esattamente opposti a quelli per i quali si spende il nostro venditore di riforme all’ingrosso.
Il monocameralismo proposto da Berlinguer non è in alcun modo confrontabile con il pastrocchio renziano, che non abolisce il Senato ma nell’ambito di un bicameralismo zoppo ne fa uno strumento a disposizione del partito maggioritario per consolidare un determinato sistema di potere. E non è una scoperta che il Pci abbia sempre preferito il monocameralismo proporzionale, eliminando contrappesi che potessero limitare l’espressione diretta del popolo sovrano. Berlinguer puntava al potenziamento della democrazia e all’estensione della partecipazione popolare, senza escludere forme di democrazia diretta, mentre oggi il capo del governo, al contrario, vuole trasformare una minoranza assoluta di voti in una maggioranza assoluta di eletti, in grado di impadronirsi del governo, della Camera, del Senato e della presidenza della Repubblica. È la consegna del potere a un’oligarchia, accentuando la frattura sempre più marcata tra istituzioni e popolo.
Nell’intervista rilasciata all’Unità il 27 maggio 1984 il segretario del Pci denunciava i rischi di autoritarismo, derivanti - da un lato - dall’accresciuto potere del capitalismo finanziario interessato a favorire «la rete di operazioni “sporche”» e - dall’altro - dalla «sovrapposizione dell’autorità al consenso», traducendo il problema - reale - dell’efficienza democratica nella pratica antidemocratica della riduzione dei poteri del Parlamento. Proprio per contrastare questa tendenza, che si esprimeva allora nel «decisionismo» craxiano, fu avanzata la proposta del Pci articolata in tre punti: monocameralismo impiantato sul sistema elettorale proporzionale, drastica riduzione del numero dei parlamentari, delegificazione.
Quale credibilità può avere oggi un capo di governo il quale della Costituzione ha una visione completamente opposta? E che, teorizzando e praticando la rottamazione degli uomini e della storia, tenta in pari tempo di appropriarsi indegnamente di Enrico Berlinguer per scopi del tutto strumentali? Salvo poi mettere all’indice lo stesso Berlinguer, quando non è possibile utilizzare il segretario del Pci nella bassa cucina renziana. Come è accaduto nello sconcertante episodio che ha coinvolto il giornalista dell’Unità Massimo Franchi, contro il quale è stato aperto un procedimento disciplinare dalla proprietà del quotidiano per aver scritto su Twitter due commenti in difesa del segretario comunista. Con l’argomento che quei commenti erano in contrasto con la linea editoriale del giornale fondato da Gramsci. Un’assurdità e un comportamento padronale della peggiore specie, che assesta un duro colpo alla libertà di pensiero e che Gramsci avrebbe fatto inorridire. Ma questi sono i risultati quando la politica diventa puro esercizio di potere, in assenza di riferimenti culturali forti e di saldi principi morali.
Lo slogan magistrale di Renzi è diventato questo: «Senza riforma l’Italia è il paradiso degli inciuci», dunque votate sì al referendum costituzionale. E qui emerge il secondo trucco falsificante per mascherare le realtà e trarre in inganno gli italiani.
I mali dell’Italia, secondo la tesi dello slogan renziano, espressione tra le più compiute della cosiddetta antipolitica, dipendono dalla Costituzione, che rallenta ed ostacola l’azione del governo. Non dalle politiche del governo praticate nell’interesse di pochi. Non dal fatto che la Costituzione sia restata per la maggior parte inapplicata e venga sistematicamente picconata nei principi generali e nella sua parte più innovativa, quella dei diritti sociali e del lavoro, come del resto chiedono J. P: Morgan e la grande finanza. Quindi, ci dice secondo la sua logica il controriformista della Leopolda, dateci più potere e tutto andrà a posto.
È la stessa tesi sempre sostenuta da Berlusconi, il quale è stato clamorosamente sconfitto nel referendum del 2006, quando ha tentato di cambiare la Costituzione. E perciò ha inizialmente approvato con calore la “riforma” del suo figlioccio, per poi distaccarsene quando il figlioccio ha mostrato i denti facendo intendere di non voler spartire il potere con nessuno. Una vicenda molto istruttiva, che conferma i seguenti dati di fatto: questa “riforma”, come quella berlusconiana, è una consistente operazione di potere, volta a restringere la partecipazione democratica; Renzi, su una questione dirimente come quella costituzionale, non è diverso da Berlusconi. L’uno e l’altro rappresentano gli stessi interessi anche se divergono nella gestione del potere.
Da questo punto di vista, se Renzi si dichiara di sinistra e Berlusconi è indubbiamente di destra, non c’è differenza tra destra e sinistra. È significativo il fatto che né l’uno né l’altro mai abbiano fatto sapere cosa intendono fare per dare attuazione alla Carta fondamentale degli italiani, e che entrambi muovano nella stessa direzione retrograda. Ma l’alternativa a questo stato delle cose non sta nell’immobilismo, bensì in quegli aggiornamenti che rendano più agevole e concretamente praticabile l’attuazione dei principi e dei diritti costituzionali, civili, sociali, politici. Un percorso del tutto diverso da quello del Pd di Renzi e dei partiti dichiaratamente di destra, di cui le proposte indicate dal Pci di Berlinguer sono un esempio da non dimenticare.
Ed ecco il terzo falso di Renzi, occultato con la copertura aristocratica di Napolitano, il quale dichiarandosi super partes sta invece ben assestato da una parte: la “riforma” - asseriscono - riguarda la seconda parte della Costituzione, quella dell’ordinamento della Repubblica, mentre la prima parte, quella dei diritti e dei doveri dei cittadini, rimane intatta. Qui si gioca sull’equivoco. Perché la controriforma renziana, al pari di quella berlusconiana, non tocca formalmente i principi e il capitolo dei diritti e dei doveri, ma di fatto li sterilizza cancellando le condizioni che li rendono esigibili.
Nell’impianto costituzionale, un insieme coerente di norme di chiarezza cristallina derivante dal fondamento del lavoro, per cui le lavoratrici e i lavoratori diventano soggetti protagonisti del patto tra gli italiani, i nuovi diritti sociali definiti nel titolo III della prima parte sono esigibili a determinate condizioni chiaramente enunciate: che tutti concorrano alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva (art. 53); che siano posti dei limiti alla proprietà privata sui mezzi di produzione e di comunicazione, in modo da assicurarne la funzione sociale e di far sì che l’iniziativa economica non rechi danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (artt. 41 seguenti); che i lavoratori, avendo conquistato la libertà di sciopero e di organizzazione sindacale (artt. 39 e 40) si associno liberamente in un partito per potere concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (art. 49).
Sono gli articoli di cui meno si parla e che di fatto vengono ignorati. Ma se le condizioni in essi indicate vengono meno, la prima parte della Costituzione sarà praticabile nel regno dei cieli. Non è un caso che da quando il lavoro non ha più rappresentanza politica tutto l’impianto costituzionale vacilla. Una condizione che si è aggravata con l’avanzare della crisi globale e con il concorso delle politiche europee. Nella quale il governo Renzi agisce con un orientamento preciso: dopo il Jobs Act con il sì al referendum, che nelle intenzioni di chi lo promuove dovrebbe stabilizzare la cancellazione definitiva della rappresentanza politica del lavoro e l’abbattimento dei diritti sociali, si intende chiudere definitivamente una intera fase storica ripristinando il dominio assoluto del capitale nelle forme della sua globalizzazione finanziaria.
Questa è la questione di fondo che il trasformista di Rignano si sforza di nascondere con i suoi trucchi. Una questione che riguarda le prospettive di vita di milioni di persone, alle quali è indispensabile rendere chiara la portata della posta in gioco. Il no alla controriforma costituzionale e alla legge elettorale è il vero passaggio obbligato di un cambiamento possibile.
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