Francesco Sylos Labini Astrofisico
Per questo motivo ha destato un certo clamore l’articolo di due economisti del Fondo monetario internazionale in cui, forse per la prima volta da quella fonte, discutono in maniera esplicita i limiti e i problemi dell’agenda neoliberista. Questa, scrivono, consiste in due punti: il primo è determinare una maggiore concorrenza, raggiunta attraverso la deregolamentazione e l’apertura dei mercati nazionali, compresi i mercati finanziari, alla concorrenza estera
attraverso la rimozione delle restrizioni ai movimenti di capitali
attraverso i confini di un paese. Il secondo è un ruolo minore per lo
Stato, raggiunto attraverso la privatizzazione delle
sue industrie e di alcune sue funzioni di governo (sanità, istruzione,
ecc.) e attraverso l’imposizione di limiti alla capacità dei governi di
ricorrere a deficit fiscali e ad accumulare debiti (le politiche di austerità): frenare la dimensione dello Stato è un aspetto chiave del programma neoliberale.
I due economisti, per la prima volta in maniera chiara, riconoscono dunque che le politiche di austerità non solo generano ingenti costi sociali ma aggravano la disoccupazione nonché la frequenza della crisi. Insomma mentre i benefici in termini di aumento della crescita sembrano abbastanza difficili da stabilire i costi in termini di aumento della disuguaglianza sono enormi. E l’aumento della disuguaglianza a sua volta sfavorisce il livello e la sostenibilità della crescita (che, ricordiamoci sempre, non è lo sviluppo!).
“La prova del danno economico delle disuguaglianze suggerisce che i politici dovrebbero essere più sensibili alla redistribuzione
di quanto, in effetti, non lo siano stati […] le politiche potrebbero
essere progettate per mitigare alcuni degli effetti in anticipo – per
esempio, attraverso una maggiore spesa per l’istruzione e la formazione,
che espande l’uguaglianza di opportunità […] E le strategie di risanamento dei conti pubblici,
quando sono necessarie, potrebbero essere progettate per ridurre al
minimo l’impatto negativo sui gruppi a basso reddito […] Questi
risultati suggeriscono la necessità di una visione più sfumata di quella
dell’agenda neoliberale. […] I decisori politici, e le istituzioni che
li consigliano come il Fmi, debbono essere guidati non dalla fede ma
dall’evidenza di ciò che funziona”.
Il ripensamento delle
politiche economiche neoliberiste, che hanno dominato negli ultimi 30 o
più anni, deve però passare per una discussione culturale dell’ideologia
e soprattutto della (pseudo) scienza sui cui sono basate, cioè dell’economia neoclassica che ormai domina incontrastata sia nell’accademia che nel senso comune. Tuttavia, se alcuni commentatori hanno scorso in questo documento “la morte del neoliberismo vista dall’interno”
questo ripensamento è molto difficile da essere attutato finché i
principali consiglieri dei governi (e del nostro in particolare)
continueranno a essere selezionati da quella schiera di economisti
cresciuti a pane e ideologia neoliberista e che non
sono in grado neppure di iniziare una discussione argomentata sul tema.
In questo bisogna dare atto ai due economisti del Fmi di essere anni
luce lontani dalle patrie paludi.
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