dinamopress François Bonnet (Mediapart)*
Decine di manifestanti sono stati feriti durante le manifestazioni contro la Loi travail. Il governo ha instaurato una strategia della tensione, logica prosecuzione di anni di deriva. È giunto il momento che una commissione d’inchiesta indaghi su questa gestione incendiaria.
Un giovane di 28 anni è tenuto in stato di coma artificiale dal 26 maggio per edema cerebrale e sfondamento della scatola cranica, vittima di una granata da alleggerimento [bomba a frammentazione di gomma dura per rompere l’accerchiamento].Un mese prima, il 28 aprile, uno studente dell’università di Rennes ha perso un occhio per un colpo di LBD40, un’arma più potente dei Flash-Ball. Da due mesi e mezzo, dall’inizio delle manifestazioni contro la riforma del codice del lavoro, molte decine di manifestanti sono stati gravemente feriti.
Un bilancio esatto è impossibile. Ma la molteplicità delle testimonianze raccolte, foto e video che circolano sulle reti sociali consentono di valutare in parecchie decine le vittime di ferite serie. Un solo esempio: 49 persone sono state ferite, di cui 10 gravemente, il 28 aprile a Rennes, secondo una squadra medica addetta al corteo in quel giorno. Ematomi, nasi rotti, fratture, mascelle slogate, traumi cranici, soffocamenti, piaghe aperte, svenimenti… Gli avversari della Loi travail ormai lo sanno: manifestare è diventato rischioso, pericoloso restare nei cortei fino allo scioglimento, imprudente scendere in piazza senza un minimo di attrezzatura di protezione.
Questi giovani che resteranno traumatizzati per tutta la vita, queste decine, per non dire centinaia, di persone ferite o semplicemente contuse, queste migliaia di manifestanti che hanno sfilato con la paura in pancia – paura di incappare all’improvviso in una carica dei CRS –, questo ribaltamento organizzato nella violenza e nella criminalizzazione di un movimento sociale dovrebbe provocare un vasto dibattito pubblico. Dovrebbe suscitare interpellanze senza tregua ai membri del governo. Dovrebbe provocare – in nome del rispetto delle nostre libertà fondamentali – una mobilitazione dei deputati e dei senatori. Dovrebbe condurre alla costituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare sulle strategie di mantenimento dell’ordine pubblico, sul funzionamento delle catene di comando, sui dettagli delle istruzioni operative.
Quanto accade è l’inverso. I segnali d’allarme si moltiplicano. Nulla accade, se non una cieca legittimazione della violenza poliziesca per opera di questo potere. Accadono incidenti gravi. Non si dice nulla, se non un sostegno incondizionato alle azioni delle forze dell’ordine. Non si risponde nulla agli allarmi che vengono dalla stessa istituzione poliziesca, da parte dei sindacalisti che si preoccupano per l’estremo degrado della situazione.
Che dicono questi sindacalisti? Che il governo non ha imparato niente dalla morte di Rémi Fraisse, il giovane manifestante pacifico ucciso da un lacrimogeno il 25 ottobre 2014 a Sivens. Da allora, la dottrina del mantenimento dell’ordine non è cambiata, giudica Alexandre Langlois, segretario generale della CGT-Police:«quello che è cambiato è la gestione della crisi sociale da parte della repressione. Si è favorita la scalata della violenza. Tutto è organizzato perché finisca male!». Sulle strade, aggiunge, i suoi delegati presso i CRS riportano che li si utilizza «in modo molto offensivo. Non si tratta di contenere, ma di andare allo scontro».
Philippe Capon, del sindacato Unsa-Police, lui stesso ex-CRS, insiste su «dei gruppuscoli estremisti molto organizzati, molto mobili, che ci costringono a riorganizzarci, ad andare al contatto». Ma vuole pure mettere avanti l’argomento della mancanza di esperienza da parte delle forze impiegate: «La situazione è terribilmente tesa e con lo stato di emergenza [état d’urgence] noi siamo sopraffatti. Si chiede ai colleghi di mantenere l’ordine, quando non è il loro compito. Qualcuno arriva la mattina al commissariato e gli dicono: mettiti un caso, prendi il manganello e vai a coprire la manifestazione. Ma il mantenimento dell’ordine è una cosa che si impara. È una funzione a parte».
Negando tali preoccupazioni il governo si tiene, per parte sua, a un’unica versione che gli permette di giustificare quella scalata della violenza: i casseurs. Casseur [teppista] è la parola banalmente utilizzata da tutti i poteri da almeno 50 anni per giustificare le proprie turpitudini. Sia Bernard Caseneuve che Manuel Valls assicurano di aver identificato una nuova generazione di casseurs.
Costoro sarebbero «radicalizzati», adepti dell’«ultra-violenza», quelli «che vogliono uccidere un poliziotto», che si battono «contro lo Stato e i valori della Repubblica». Una frangia estremista di un movimento sociale che, d’altronde, «prende in ostaggio» il paese con scioperi e blocchi… In una Francia che vive sotto il regime d’eccezione dello stato di un emergenza, già prorogato a due riprese, il vocabolario non può essere neutro: manca solo “terrorista” o meglio “jihadista del sociale” per completare la panoplia semantica di un governo oltranzista. Un limite peraltro appena varcato dal capo della Confindustria (Medef), Pierre Gattaz, che invita, su Le Monde, a domare quelle «minoranze che si comportano un po’ come dei delinquenti, come dei terroristi».
Media dalla memoria corta
Il potere può tanto più facilmente imperversare con questa sbalorditiva narrazione quanto più i media audiovisivi, in prima linea e massicciamente i telegiornali, adorano i casseurs e le immagini di scontri e saccheggi. La vicenda dell’auto della polizia incendiata ha toccato il vertice di questa messa in scena degli scontri. Come la camicia lacerata del manager di Air France, tali immagini hanno spazzato via ogni riflessione, aprendo la strada alle dichiarazione marziali di Manuel Valls, in seguito smentite dai fatti. Tre degli accusati e fermati furono rapidamente rimessi in libertà e le imputazioni furono molto meno pesanti di quanto annunciato.
Media dalla memoria corta. Non hanno neppure registrato che, per la prima volta da decenni, i saccheggi di negozi sono stati rarissimi, così come altre violenze collaterali (vetture bruciate, appropriazioni diverse) che altre volte avevano accompagnato le grandi manifestazioni. Hanno dimenticato che in occasione di una manifestazione di marittimi e pescatori fu bruciata la sede dell’assemblea regionale di Bretagna a Rennes nel 1994. Che gli autonomi, per tutti gli anni ‘80, hanno operato devastazioni tutt’intorno il percorso delle manifestazioni. Che erano dei siderurgici che, nel 1979, hanno sottoposto il quartiere dell’Opéra a un saccheggio in piena regola dopo aver tempestato le forze dell’ordine con una pioggia di bulloni e sbarre di ferro ed eretto barricate sui grandi boulevards.
Resta il fatto: qualche centinaio o addirittura migliaia di persone sono ben contente di urlare «Tutti detestano la polizia» (ma nel 1968 gridavano «CRS-SS!») e sono pronte a scatenare o ad assumersi la responsabilità di scontri con le forze dell’ordine. Di fronte a questo, ogni potere responsabile avrebbe un solo dovere: far calare la pressione, sottrarre le occasioni, prendere a monte misure preventive, negoziare con i servizi d’ordine dei manifestanti, controllare strettamente l’uso delle armi e dei gas da parte delle forze dell’ordine, evitare le provocazioni.
Proprio il contrario di quanto Bernard Cazeneuve e Manuel Valls hanno deciso di fare, assumendosi o addirittura organizzando una radicalizzazione nociva delle manifestazioni. Se la sono assunta scartando sistematicamente ogni interrogativo per dare via libera incondizionata alle forze dell’ordine Manuel Valls ha così potuto dichiarare il 19 maggio a RTL: «Non c’è nessuna direttiva riguardo al contenimento e ai fermi, nessuna direttiva di non andare sino in fondo per non catturare i casseurs».
«Nessuna direttiva»: il primo ministro (che è stato anche ministro dell’Interno) si rende conto dell’irresponsabilità di una simile affermazione, quando la sua funzione dovrebbe proprio obbligarlo a dire l’inverso, cioè ricordare alle forze dell’ordine il dovere di rispondere in modo controllato e proporzionato? Al culmine degli scontri del Maggio ‘68, il prefetto di polizia di Parigi, Maurice Grimaud, scriveva una lettera a tutti i poliziotti: «Mi rivolgo a tutta la Ditta (…) e voglio parlarvi di un argomento che non abbiano il diritto di passare sotto silenzio, quello degli eccessi nell’impiego della forza». «Colpire un manifestante caduto a terra è come colpire se stessi per di più sotto una luce che investe tutta la funzione della polizia. Ancora più grave colpire dei manifestanti dopo l’arresto e quando sono condotti in locali della polizia per esservi interrogati» – così scriveva.
Rémi Fraisse, ucciso nell’ottobre 2014 da una granata offensiva
Nessuna direttiva riguardo al contenimento»: ecco in quali termini Manuel Valls fa eco al prefetto Grimaud. Questo atteggiamento autoritario, già presente sin dall’inizio del quinquennio, quando Manuel Valls dichiarava prioritaria la lotta contro «il nemico interno», è la stessa tenuta al tempo degli eventi di Sivens. Le settimane precedenti la morte di Rémi Fraisse, il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve ha lasciato che agenti locali e gendarmi mobili se la prendessero violentemente con i militanti ecologisti e zadisti [da ZAD: zone à défendre] contrari al progetto di diga. Il 7 ottobre 2014, tre settimane prima della morte di Rémi Fraisse, una ragazza di 25 anni è stata gravemente ferita alla mano da una bomba di alleggerimento tirata da un gendarme. L’inchiesta giudiziaria è tuttora in alto mare.
Gli allarmi lanciati da eletti locali come Cécile Duflot e Noël Mamère, che si sono recati alla prefettura del Tarn per chiedere una gestione più elastica del mantenimento dell’ordine, sono stati ignorati. I due deputati si sono trovati davanti a un muro, preferendo il prefetto del Tarn e il suo capo di gabinetto insistere sulla presenza di elementi violenti in loco. Erano soltanto 5 giorni prima della morte di Rémi Fraisse, ucciso a 21 anni dalla granata offensiva di un gendarme mobile. Dopo questa morte scandalosa, il tenente colonnello responsabile delle operazioni dirà nel processo verbale di aver ricevuto dalla prefettura «direttive di estrema fermezza».
Quanto al gendarme mobile che ha lanciato la granata offensiva, né lui né i suoi superiori sono stati finora indagati. Tutto lascia pensare che questa faccenda, che secondo l’ispettorato generale della gendarmeria nazionale (IGGN) non ha evidenziato alcun reato, terminerà con un non luogo a procedere. Unica conseguenza a tal proposito: Bernard Cazeneuve ha vietato l’uso delle granate offensive.
Il dramma di Sivens s’iscrive anch’esso in un tempo più lungo, che ha visto svilupparsi le violenze poliziesche in un’impunità sistematica. Generalmente ignorate dai media, esse non hanno riguardato dapprima che certi margini della società. Dopo la morte di un tifoso del Paris Saint-Germain ucciso da un agente per legittima difesa nel 2006, poi di un altro in seguito a una zuffa interna nel 2010, è entrata in funzione una schedatura specifica e contraria alle raccomandazioni della Cnil [Autorità per la tutela dei dati personali] e sono stati attribuiti dei Daspo agli ultras del calcio, come oggi accade per i militanti. Anche degli ultras sono stati feriti o accecati da colpi di Flash-Ball, come a Montpellier o a Reims.
I quartieri popolari hanno avuto parimenti la loro quota di vittime. Di nuovo a essere in causa sono le tecniche poliziesche, come il soffocamento per “piegatura” [pliage, cioè fare pressione sulle anche per portare la testa della vittima sui ginocchi], nell’affare Ali Ziri o Wissam El-Yamni. Sul piano giudiziario gli agenti hanno goduto sempre dell’impunità, vedi i processi Zyed Benna e Bouna Traoré o Amine Bentounsi. È il caso di ricordare che il candidato François Hollande posava, 4 anni fa, con i militanti di Stop contrôle au faciès, lasciando intravedere la speranza di un embrione di sperimentazione di ricevuta dei controlli d’identità, saggio strumento di controllo contro gli abusi polizieschi? Dobbiamo ricordare che questa strategia di mantenimento dell’ordine era stata messa in discussione già in occasione delle manifestazioni di sostegno a Gaza nell’anno 2014? Allora Bernard Cazeneuve entrò nella storia, essendo il solo ministro dell’Interno al mondo a proibire manifestazioni di sostegno al popolo palestinese.
Assumersi la violenza, anzi organizzarla…
Quattro elementi permettono di sottolineare che la scelta dell'escalation è deliberata. Il primo è l’uso massiccio di nuove armi che moltiplicano le violenze: granate di alleggerimento, lanciarazzi, flash-ball, spray lacrimogeni. Il secondo è il contatto diretto tra forze dell’ordine e manifestanti in gran parte dei cortei. Il terzo è l’uso sistematico di bombe lacrimogene, in particolare per disperdere manifestazioni. Il quarto è la corsa ai fermi in seno stesso ai cortei: circa 1600 fermi, ogni volta scatenando mini-scontri fra manifestanti solidali e agenti…
Una politica fondata sulle cifre, generatrice di violenze, è duramente rivendicata dal ministro dell’Interno.«Dall’inizio di queste manifestazioni abbiamo effettuato circa 1600 fermi, da cui sono risultati 1000 arresti, 72 condanne in gran parte al carcere» – indicava Bernard Cazeneuve, il 20 maggio a TF1. Alle udienze per direttissima sfilano tuttavia molti semplici curiosi, restati sul luogo per vedere con i propri occhi come si esercitava la violenza. A volte riconoscevano di aver gettato un oggetto in direzione degli agenti o di aver mostrato loro le chiappe. In questo caso, le condanne sono pesanti, arrivando fino a parecchi mesi. La procura richiede sanzioni anche quando i fascicoli sono vuoti. E si appella pure, quando le condanne le sembrano troppo lievi in mancanza evidente di prove
. «Nessuna direttiva di contenimento», dice Manuel Valls.«Fra tutte le manifestazioni del potere, quella che più impressiona gli uomini è il contenimento». Questa frase di Tucidide, vecchia di 2500 anni, è quella che hanno scelto di mettere in esergo al loro studio due dei migliori specialisti di mantenimento dell’ordine, Olivier Fillieule e Fabien Jobard. In questo articolo intitolato Uno splendido isolamento, i due ricercatori sottolineano l’obsolescenza e l'impasses del mantenimento dell’ordine «alla francese».
Poiché per alcuni anni questo mantenimento dell’ordine «alla francese, in un primo tempo attento a evitare il decesso o le ferite gravi dei protestatari, è potuto sembrare un modello avanzato, esportabile. Constatazione condivisa ai più alti livelli politici e polizieschi, al punto che Michèle Alliot-Marie, allora ministro dell’Interno, aveva potuto proporre i suoi servizi alla Tunisia di Ben Ali, contestato dai manifestanti che finirono per cacciarlo dal potere, con la
motivazione che «il savoir-faire delle nostre forze di sicurezza, riconosciuto nel mondo intero, permette di risolvere situazioni securitarie di questo tipo».
Nondimeno, sottolineano Fabien Jobard e Olivier Fillieule, «questo forse vale per il passato, ma oggi non è più il caso». Al contrario, per i due autori, il mantenimento dell’ordine praticato in Francia è diventato «di retroguardia» e testimonia una «insularità» e un «abbarbicamento dottrinale» inquietanti in confronto alle pratiche dei vicini europei. In particolare gli autori mostrano come una «politica di de-escalation», mirante a evitare gli scontri, è stata messa in opera in vari paesi, a cominciare dalla Germania, ma anche in parecchi altri paesi europei.
Come spiegarsi quello che ormai è un ritardo francese? Una delle risposte rinvia alla debolezza della politica: «L’abbarbicamento dottrinale della polizia francese è raddoppiato dall’isolamento in cui la lascia la politica. Lasciandosi convincere dagli argomenti polizieschi sulla “violenza estreme" degli avversari, i ministri dell’Interno per questa sola postura evitano qualsiasi esame di fondo dell’azione poliziesca» – scrivono i ricercatori.
«Quando si è responsabili, non si dice: forza, buttatevi»
Piuttosto che atteggiarsi a gradassi da commissariato, Manuel Valls e Bernard Cazeneuve sarebbero più ispirati se studiassero i dibattiti parlamentari che seguirono la morte del giovane studente Malik Oussekine nella notte fra il 5 e il 6 dicembre 1986, in seguito a una delle manifestazioni contro la legge Devaquet. Sin dal 6 dicembre, Pierre Joxe, in nome del gruppo socialista, chiedeva «la creazione di una commissione d’inchiesta sulle direttive date dal ministro dell’Interno alle forze dell’ordine», mentre il RPR (gollista) Philippe Séguin evocava l’azione di «piccoli gruppi incontrollati».
Due giorni più tardi, l’8 dicembre, il deputato socialista Michel Sapin interpellava il suo avversario RPR Jacques Toubon chiedendogli il ritiro del progetto di legge Devaquet per contribuire «alla necessaria pacificazione». E il 10 dicembre, era la volta di Lionel Jospin a stendere una requisitoria contro l’azione del governo, requisitoria che risuona ancor oggi stranamente attuale. Prendendosela con «un governo sicuro di sé, categorico, imbevuto delle sue referenze ideologiche, sordo alle opinioni altrui», proseguiva in tali termini: «Voi avete aperto la crisi con un cattivo progetto, voi tentate di piazzarlo con una cattiva arringa, ma soprattutto l’avete affrontata con un metodo detestabile – con il rifiuto della discussione, la sottovalutazione del movimento, l’utilizzo della violenza e insieme la passività nei suoi confronti»!
In quegli stessi giorni Bernard Deleplace, un nome della FASP, sindacato all’epoca maggioritario della polizia in uniforme, membro del PS e vicino a François Mitterrand, ricordava egualmente al potere politico i suoi doveri e responsabilità con la seguente dichiarazione: «A coloro che ci governano dico che la responsabilità è anche loro ed è politica (...) Quando si è responsabili, non si dice: forza, buttatevi, io vi copro, salvo poi stupirsi dei disastri e che certi colleghi vi hanno preso troppo alla lettera. Il nostro mestiere è di per sé già abbastanza difficile perché gli uomini politici vi aggiungano le loro piccole frasi demagogiche. Non si gestisce la polizia come una campagna elettorale».
Trent’anni dopo, i ruoli si sono come invertiti. Michel Sapin è ministro di un governo che vuole criminalizzare un movimento sociale. Jacques Toubon è Difensore dei diritti e ha appena aperto un’inchiesta sulle condizioni in cui è stato gravemente ferito un giovane a Cours de Vincennes il 26 maggio. Lionel Jospin è membro del Consiglio costituzionale. Sosterrà una censura alla Loi travail?
Il 10 dicembre 1986, Lionel Jospin interrogava in questi termini Charles Pasqua, allora ministro dell’Interno: «Quali istruzioni avete dato? Quali sanzioni avete preso in seguito a certe operazioni di cui si conosce il prezzo in feriti, agenti come manifestanti?». Charles Pasqua si guardò bene dal rispondere direttamente alla domanda. Preferì allora prendersela con degli «individui violenti» armati di biglie di vetro, manici di badile e coltelli a serramanico … «La violenza dei manifestanti non può essere messa in dubbio», assicurava. Con la morte di Malik Oussekine, la destra perdeva il suo onore e, qualche mese dopo, il potere. A meno che si prestino a spiegarsi nel quadro di un ampio dibattito, l’attuale primo ministro e il suo ministro dell’Interno sono destinati alla medesima sorte.
* Articolo pubblicato su mediapart. Traduzione dal francese di DINAMOpress.
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