Voglio partire da un’osservazione che mi è venuta spontanea leggendo un passo del volantino dei sindacati confederali in cui si dice che nelle giornate del voto del 1946 tutto avvenne senza tensioni.
micromega a. saniNon c’era, ovviamente, in quegli anni, l’invasione dei mezzi di comunicazione di oggi, ma la tensione serpeggiava. Non era tutto liscio, come si legge in quel volantino… La tensione era cominciata già nei mesi precedenti il voto del 2 giugno, quando ci furono le prime elezioni amministrative dopo la caduta del fascismo, precedute da comizi di piazza in tutte le città e nei piccoli comuni. Elezioni alle quali, oltre ai partiti, per la prima volta partecipavano le donne.
Era il marzo-aprile del 1946. Il famoso “salto nel buio” – così aveva definito Giolitti l’allargamento del voto alle donne –, scongiurato, dopo le promesse mussoliniane del '23 e la presentazione di un pur limitatissimo testo di legge nel ‘25, dal corso stesso degli eventi (leggi fascistissime del 1926), prendeva finalmente corpo, e senza le precedenti limitazioni (voto alle donne solo alle amministrative e solo per certe categorie di donne: madri, vedove della prima guerra mondiale, donne insignite di onorificenze...). Fu il decreto luogotenenziale n. 23 dell’1 febbraio 1945 a riaprire per le donne quella speranza seguita alla cocente delusione delle leggi fascistissime. Nella Condorelli, nel suo documentario sulle donne del Novecento, registra il più alto numero di suicidi tra le donne nell’anno in cui quella legge di morte delle democrazia fu promulgata…
Va però ricordato che il primo passo compiuto da quel decreto poneva sì pari condizioni per il voto femminile, ma si trattava solo di elettorato attivo, e l’elenco delle donne doveva essere distinto da quello degli uomini. Furono le donne dell’Udi, con una pressante richiesta al capo del Governo Ivanoe Bonomi, ad ottenere un tempestivo allargamento del diritto delle donne anche all’elettorato passivo, a partire dalle imminenti elezioni amministrative (decreto luogotenenziale n.74 del 10 marzo 1946). Fu grazie a quel decreto che 21 donne poterono essere elette all’Assemblea Costituente, e tante altre nei consigli comunali di quegli anni.
Ma non era tanto il voto alle donne a rendere l’atmosfera incandescente, era il dramma di un passato rovente ancora troppo recente, col suo groviglio di odi cocenti, divisioni, risentimenti, distruzioni, rancori, sete di vendette. Io lo ricordo bene, perché ero una bambina non troppo piccola… C’erano i fascisti “epurati” cui era stato interdetto il voto, che venivano derisi e insultati, le mogli e madri dei tanti prigionieri non ancora tornati di cui non si avevano più notizie, i rari amici ebrei che tornavano come delle ombre dai campi di sterminio e non volevano parlare, le comunità giuliano-dalmate, altoatesine, libiche, pur residenti da un paio d’anni in comuni italiani, non ammesse al voto. Pesava l’assenza di donne deportate, considerate dal regime fascista “espatriate volontarie”, la condizione delle prostitute…
L’aspirazione, pure irrinunciabile, alla rinascita non può celare la verità storica di questo clima… L’unità antifascista negli anni in cui nacque la Costituzione suggellò sì quel patto per la pace in cui tutte le donne della Costituente, pur appartenenti a partiti diversi, si misero in circolo prendendosi per mano (testimonianza di Teresa Mattei) nel momento in cui fu votato l’articolo 11, ma non valse a scongiurare la “guerra fredda” che di lì a poco avrebbe fatto sentire in Italia i suoi mortiferi effetti.
Così come il voto delle donne, nelle case, doveva necessariamente fare i conti con”l’uomo di casa” o con la predica del Parroco alla Messa domenicale. Ma quel voto fu l’occasione splendida per molte donne di assaporare per la prima volta nella cabina elettorale l’emozione di un’autodeterminazione non solo “lecita” ma “doverosa”. (Il Corriere della Sera del 2 giugno 1946 non mancava di considerare l’evento in relazione allo stereotipo femminile: “Il rossetto lo si porti con sé per ravvivare le labbra fuori dal seggio”; all’interno, poteva costituire segno di riconoscimento sulla scheda…). Tutto questo lo dobbiamo ascrivere al lavoro instancabile di quelle donne che avevano tenuto il filo coi movimenti del passato, con le idee che potevano cambiare il mondo, con il coraggio che aveva animato le lotte per l’emancipazione in altre parti del mondo.
Ricordate il viso della protagonista del film Le suffragette della regista Sarah Gavron quando non sa distogliere lo sguardo estasiato dalla figura di Emmeline Pankhurst che apriva a tante donne, lavoratrici senza diritti, succubi del padrone e del compagno, orizzonti imprevisti, un riscatto che poteva diventare realtà per cui valeva la pena battersi mettendo in gioco un'esistenza senza sogni, come fece Emily Davinson che si avventò contro il cavallo del re alle corse nel 1913 a Londra,morendo per quel voto che era stato promesso e negato?
Sono state determinanti quelle donne, capaci di infondere speranza, costanza, coraggio: da Olympe de Gouges a Anna Kuliscioff, da Anna Maria Mozzoni a Jane Addams, premio Nobel e prima presidente della Women’s International League for Peace and Freedom (Wilpf). Esse hanno dimostrato coi fatti che solo “cultura è libertà”. Il riconoscimento del diritto al voto rappresentava l’uscita formale dall’emarginazione, da quell’onta sancita nell’Italia unita dal R.D. del 1895 n. 83: “Non sono elettori né eleggibili gli analfabeti, le donne, gli interdetti, gli inabilitati”…
Quando Rosa Genoni, unica italiana, partecipò al Congresso de L’Aia del 1915 – al quale presero parte 1.136 donne provenienti da oltre 20 paesi, già unite nell'International Woman Suffrage Alliance fondata a Washington nel 1902 con l’obiettivo di “ottenere strumenti politici per condividere il potere che determina il destino delle nazioni” –, il voto alle donne era già realtà in Nuova Zelanda, Australia, Finlandia, Norvegia, in sei Stati degli Usa, e di lì a breve sarebbe divenuto realtà in Danimarca. Svezia, Austria, Germania e Cecoslovacchia avrebbero seguito a ruota alla fine del primo conflitto mondiale.
Ma in quel momento fu la centralità della guerra a prendere il sopravvento. Le donne dell’Alliance avevano già fatto sentire la loro voce alle ambasciate dei governi presenti a Londra nel 1914 “affinché venisse allontanata da tutti i paesi una catastrofe che non avrà paragone”.
A L’Aia maturò una prima divisione tra le donne che fino a quel momento avevano marciato unite nella rivendicazione del diritto al voto. Le francesi non parteciparono a quel Congresso (benché l’Olanda fosse stata scelta in quanto paese neutrale) per non incontrare “donne nemiche”; non poche italiane avevano abbandonato l’Alliance ritenendo l’internazionalismo in contrasto col patriottismo, inaccettabile in tempo di guerra. Il sostegno allo sforzo bellico delle nazioni fu anche considerato come un veicolo per l’affermazione dell’emancipazionismo, come l’apertura di nuove possibilità in termini di auto-affermazione; si fece strada anche la convinzione che l’adesione alle scelte dei governi avrebbe accelerato l’iter per il riconoscimento del diritto di voto… Fu un’esigua minoranza , ma l’espressione più avanzata di quel Congresso, a comprendere che la causa del voto non poteva essere perseguita efficacemente se disgiunta dalla causa della pace.
A L’Aia, su questi presupposti nacque la Wilpf, che a Zurigo nel 1919 decise di adottare una Costituzione. “Il mutamento di prospettiva” scrive Maria Grazia Suriano, studiosa di Storia della Wilpf dalle origini agli anni Quaranta del Novecento, “presentò un passaggio cruciale per la Lega. In questo solco va a collocarsi anche l’esperienza della prima sezione italiana della Wilpf. La scarsa documentazione disponibile – per lo più lettere conservate negli archivi della Lega – permette di effettuare una prima ricostruzione delle vicende riguardanti questo piccolo gruppo di pacifiste, che sin dalla tarda estate del 1914, per simpatie socialiste o per precedente adesione ai gruppi suffragisti internazionali, decise di manifestare la propria opposizione alla guerra, continuando a sostenere le proprie idee anche quando l’Italia, dopo una prima fase di neutralità, entrò in guerra”.
Le dirigenti italiane Rosa Genoni, Anita Debelli-Zampetti, Enrichetta Chiaraviglio-Giolitti e, più tardi, Virginia Tango Piatti e Ida Vassalini – tutte ricordate, insieme a loro dirette discendenti, in un seminario tenutosi l’anno scorso presso l'Università di Roma Tre – impossibilitate sia per ragioni economiche che per divieti di polizia (erano considerate filosocialiste e perfino filoaustriache per la loro posizione non interventista) a partecipare attivamente alle riunioni internazionali, non presero di fatto parte al dibattito che vide coinvolte le altre socie europee.
Prima dell’avvento del fascismo, la loro iniziativa in ambito locale nei due centri di Milano e di Roma non fu sostenuta neppure dal Psi nel quale la maggior parte delle socie si riconosceva. Il gruppo dirigente socialista si era infatti opposto alla costituzione di una sezione italiana della Wilpf, ritenendo che l’impegno del partito per la pace fosse più che rappresentativo…
Le lettere conservate negli archivi sono una testimonianza della persecuzione subita dalle donne della Wilpf in Italia dai servizi segreti fascisti. L’Ufficio internazionale del Comitato Esecutivo (Iec) non ne era del tutto all’oscuro, ma le intimidazioni, le perquisizioni delle sedi, non furono valutate in tutta la loro gravità. L’Iec vedeva come proprio unico referente la Società delle Nazioni, e si dimostrava poco interessato ai governi dei vari paesi, in un'ottica di internazionalismo in cui si collocavano la revisione dei Trattati di pace, la Riforma del sistema economico, Disarmo, Educazione…
Ad esempio, la chiusura della Scuola Estiva Internazionale a Varese (iniziativa prestigiosa che annoverò tra i partecipanti lo stesso Bertand Russell e, a Londra, in esilio, Gaetano Salvemini), provocata dalle violenze squadriste, e perfino l’appello di solidarietà inviato in inglese alla vedova di Matteotti, non ebbero alcun commento dall’Iec.
Distanti furono anche in quegli anni gli obiettivi politici. In Italia la campagna per il voto alle donne rappresentò l’apice dell’iniziativa della sezione, quando per l’Iec la questione del suffragio non era ormai più un tema in agenda. Ad eccezione di Francia e Italia il voto era stato ottenuto nei restanti paesi rappresentati nella Wilpf, quindi quella del suffragio fu una questione delegata alla Società delle Nazioni per tutti i paesi membri.
Il rapporto si interruppe quasi bruscamente nel 1932, quando Virginia Piatti chiese se la si considerasse ancora rappresentante della sezione italiana al congresso internazionale di Grenoble. La lettera rimase senza risposta.
Le relazioni vennero riallacciate soltanto negli anni del secondo dopoguerra ad opera di Maria Bajocco Remiddi e delle sue collaboratrici, che a Roma avevano dato vita all’Aimu, Associazione Internazionale Madri Unite per la Pace. L’associazione aveva come impegno prioritario l’educazione alla pace, tema alla base dell’attività della Wilpf, che tuttavia non amò mai definirsi “pacifista”, ma protesa piuttosto a contribuire allo sviluppo della cooperazione politica, sociale ed economica tra i popoli, a studiare e identificare le possibili cause di guerra, ad adoperarsi per la loro eliminazione e a promuovere e appoggiare ogni forma di pacifico accordo in sostituzione della risoluzione violenta dei conflitti…
I punti comuni con l’Aimu apparvero subito evidenti. La vocazione internazionalista dell’Aimu aveva peraltro necessità di una forte organizzazione apartitica diffusa in tutti i continenti, come si era andata configurando la Wilpf, fondata nell'ormai lontano 1915 anche da donne italiane. La frequentazione delle due associazioni fu assidua in numerosi incontri internazionali negli anni tra il ‘48 e il ‘57, finché nel 1959 al Congresso di Stoccolma l’Aimu confluì nella Wilpf e si formò la sezione italiana con Maria Remiddi, Anna Garofalo e Marina della Seta.
Erano gli anni della guerra fredda, e sembrava impossibile trattare il tema della pace senza una precisa scelta di campo, senza far riferimento agli interessi attuali delle singole nazioni. La storia dell’Aimu e della Wilpf di quegli anni, scritta da Anna Scarantino, dà conto delle controverse questioni e anche delle lacerazioni che associazioni non legate ad alcun partito si trovavano ad affrontare nei vari paesi.
Fu indubbiamente una stagione segnata da grandi passioni politiche e civili. In un periodo in cui nell’opinione pubblica al desiderio di una pace stabile si accompagnava il timore di una nuova guerra, le manifestazioni dei “partigiani della pace” raccoglievano migliaia di persone e la questione della Pace divenne assai più strumento di lotta partitica che occasione di dialogo e di riflessione diventando anzi una componente del consolidarsi dei blocchi e del duro confronto ideologico e politico che questo generò in Italia. La controversia tra Maria Remiddi e Nina Ruffini, allora presidente del Cndi, ci offre una testimonianza di questo clima.
A Maria Remiddi che si era pronunciata per una pace senza condizioni né condizionamenti, Nina Ruffina opponeva un documento del Cndi in cui si ribadiva la necessità della sicurezza dei confini nazionali e del rispetto dei trattati sottoscritti dagli Stati. Maria Remiddi veniva definita “non comunista, ma ingenua, utile strumento di cui servirsi…”.
Nel corso degli anni Settanta anche questa seconda esperienza della sezione italiana della Wilpf si esaurì, non essendo in grado di reggere un respiro internazionale, sia pure nutrito di prospettive culturali, sociali e umanitarie, a fronte delle associazioni di massa che avevano nei partiti politici un forte punto di riferimento.
La terza Wilpf Italia si ricostituì alla fine degli anni Ottanta per iniziativa di un gruppo lombardo guidato da Giovanna Pagani. Siamo noi, oggi, sempre portatrici di un’idea di pace ma in un mondo globalizzato dove le grandi ideologie sono sostituite dalla corsa alla conquista dei mercati, e dove i diritti dei più deboli contano sempre meno, dove accade a volte di sentirsi impotenti a rivendicare le trasformazioni per le quali l’associazione è nata. Siamo trenta sezioni diffuse in tutti i continenti: la presidente è una giovane donna giapponese eletta lo scorso anno. Siamo unite nel dire No al Trattato commerciale intercontinentale (Ttip), No al rinnovo delle sanzioni alla Siria, No a una sicurezza alimentare che sovrasti la sovranità alimentare dei popoli, No al perdurare del Veto nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, No a un’Onu (presso le cui agenzie la Wilpf gode dello stato consultivo) schiacciato sulla Nato…
Ma è proprio grazie al conquistato diritto di voto che possiamo pretendere il rispetto della delibera dell’Onu 1325 che come Wilpf abbiamo contribuito ad elaborare, ed è in base ad essa che chiediamo, in una rete con altre associazioni italiane – cosa impossibile in passato –, la presenza di donne siriane al tavolo dei negoziati di pace, la presenza riconosciuta di donne come forza di interposizione nelle zone di conflitto.
In particolare come Wilpf-Italia chiediamo un’interlocuzione con le nostre istituzioni sul prossimo Nap (Nuovo Piano Antiviolenza), sulla difesa e attuazione della Legge 194/78 per un’accoglienza dei migranti “senza reti né recinti”. Non ci stanchiamo di rivendicarla, quella delibera dell’Onu, come non ci stanchiamo di sostenere la vecchia ma sempre nuova lotta contro gli armamenti e perché venga ascoltata la parola dei paesi non nucleari, che si stanno finalmente unendo in un comune percorso partito poche settimane fa da Ginevra e di cui nessun governo parla.
E, sempre in testa a ogni nostra azione, c’è l’articolo 3 della Costituzione di Zurigo del 1919, oggi più che mai attuale: “vogliamo una pace costruita sul soddisfacimento dei bisogni di tutti, non sul privilegio di pochi”.
Antonia Sani
(1 giugno 2016)
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