sabato 4 giugno 2016

2 giugno 1946: l'importanza di un voto.

Il 2 giugno del 1946 l’Italia è chiamata alle urne per scegliere la nuova forma istituzionale dello Stato. L’esperienza monarchica è archiviata e si offre un’apertura di credito al modello repubblicano. Per la prima volta si concede il diritto di voto alle donne e si elegge un’Assemblea Costituente il cui compito è redigere quella che di lì a poco sarebbe diventata, come direbbe Carlo Azeglio Ciampi, la nostra «Bibbia civile».



di Francesco Postorino, da libertaegiustizia.it

Nell’epoca del disincanto, della volgarità istituzionale e della crescente relativizzazione sui fatti della Resistenza è doveroso rievocare le conquiste culturali maturate nell’immediato dopoguerra. Specie quando nuove forme di apatia politica si alleano con la puntuale retorica del «Monarca», di colui che giura sul significato profondo della Costituzione ma poi non fa nulla per vivificarlo e anzi dà sfogo ad un cinismo travestito da Realpolitik.

Norberto Bobbio, in un bel Dialogo intorno alla repubblica con Maurizio Viroli di circa sedici anni fa, non vede l’urgenza di una grande riforma costituzionale, quanto il bisogno di applicare in maniera «rigida» il più importante testo normativo tenendo conto dello spirito repubblicano custodito in esso. Ai nuovi statisti mancherebbe, a suo parere, la rettitudine morale che guida le personalità del ’46.

Il voto, per il padre costituente Piero Calamandrei, è l’esito di un processo che annulla la «malattia giovanile»: l’indifferentismo. Se la Costituzione è un documento che polemizza contro il triste passato fascista e contro il male sociale dei tempi presenti, il linguaggio repubblicano e le consultazioni referendarie costituiscono il lievito della democrazia. Occorre tuttavia essere preparati. Il voto, in altri termini, deve essere il coronamento di una cittadinanza consapevole che senta le leggi come una sua intima creazione. La legalità fascista dà invece l’impressione di essere manovrata da un «invasore straniero». Il giurista fiorentino inoltre reputa insufficiente la libertà di fare quel che piace fin quando non si lede la sfera altrui. Serve una libertà più nobile che ci permetta, adottando appositi strumenti, di vigilare sul potente e di esprimere un contributo alla causa di tutti.

Una piena libertà che, parafrasando Guido de Ruggiero, ci consente di diventare uomini sui iuris, cioè alle dipendenze soltanto dei nostri principi morali.

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