In
altri termini: l’Italia è uno dei problemi dell’Europa. Infatti, il
titolo dell’ultimo report dell’agenzia Standard&Poor’s si intitola
«Ripresa superficiale dell’Italia».
Forse ci sono dei segnali di
controtendenza, ma nulla di comparabile a quanto accade nei paesi
di area euro. Ci domandiamo quale sia il segnale positivo che Renzi
continua a pubblicizzare. Inoltre, nell’ultimo periodo c’è stato
un declino nella formazione di capitale, aggiungiamo coerente con
la perdita del 20% della capacità produttiva. Se l’Italia esce dalla
crisi, occorre ricordare che il suo cammino sarà più lento
e fragile. Alla fine concordiamo con l’affermazione di Six: «Dalla
fine del 2014 si sono visti segni di un’economia che sta rinascendo ma
sarà una lunga strada per tornare a tassi di crescita del Pil
semplicemente superiori a 1,5%».
Nella lettura della situazione economico-sociale del paese, le proposte e gli interventi «preconcetti» del governo rischiano di creare una barriera-freno alla comprensione della crisi.
Nella lettura della situazione economico-sociale del paese, le proposte e gli interventi «preconcetti» del governo rischiano di creare una barriera-freno alla comprensione della crisi.
Un difetto che inibisce la soluzione
dei problemi, e si aggiunge ai tanti e già gravi problemi di
struttura. Vogliamo ricordare due questioni messe in evidenza anche
nel recente Def. La discussione sui decimali di crescita e la disputa
sull’uscita dalla recessione, che è solo una questione tecnica,
sembra fermarsi alla constatazione della variazione percentuale
del nostro Pil, come se vivere in questo mondo e, in particolare,
nell’Unione, fosse ininfluente, anche per quanto riguarda la
valutazione di questi decimali di crescita. In sostanza, si
vorrebbe far credere che un andamento (finalmente) positivo del
nostro Pil fosse l’uscita dal declino e, quindi, un successo di questo
Governo.
In realtà si ripete lo stesso errore di
valutazione e di luogo di osservazione. Se l’Italia cresce dello
0,9% mentre il resto dei paesi Ue dell’1, 4%, in realtà, si allarga il
nostro divario dai paesi europei, accrescendo il ritardo accumulato
in questi ultimi 15 anni. Ma immaginiamo per un momento di avare una
crescita del Pil uguale a quella della media europea. Il risultato
non sarebbe diverso. Infatti, dal 2002 il valore del Pil pro-capite
medio dei paesi Ue è molto più alto di quello nazionale. In altri
termini, la «crescita potenziale pro-capite» sarebbe comunque
inferiore a quella degli altri paesi.
Questi «cavilli» aritmetici hanno un
rilevo non solo per gli indicatori del Pil, ma registrano una
difficoltà di struttura che deve essere rimossa se vogliamo avere dei
reali andamenti positivi del Pil. Proviamo a guardare alle
esportazioni che, come per tutti i paesi, risentono della crisi
internazionale. All’interno di questo fenomeno, però, il
comportamento dei singoli paesi avanzati è tutt’altro che
omogeneo. Se l’euro area dal 1990 al 2015 ha perso quasi il 30% delle
proprie quote di esportazione, è altrettanto indiscutibile che
l’Italia ha perso più del 40% della propria quota. Ciò testimonia che
la struttura produttiva è debole e incapace di misurarsi con il
mercato internazionale.
Servirebbe una sana politica
industriale, ma il Def utilizza slogan che prevalgono sul merito
dei problemi, arrivando a sostenere che per migliorare «alla radice
le capacità competitive del Paese, servono nuovi in investimenti
privati, cruciali per irrobustire la ripresa». Il problema è che
questi investimenti privati hanno determinato una
specializzazione e una struttura produttiva pro-ciclica del
declino italiano.
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