Dopo gli attacchi del premier ai talk show e De Luca che ha definito "camorristico" il giornalismo della rete scende in campo il consigliere Pd in Vigilanza Rai: "Con Raitre c'è un problema ed è ufficiale. Non hanno capito che nel Pd è stato eletto un altro segretario, che è anche premier". Insorgono grilllini, minoranza dem, Fnsi e Usigrai.
L'Espresso di Susanna TurcoPareva la sparata animosa di un politico-imputato, e invece si sta rivelando lo sparo di Sarajevo che – con il dovuto spalleggiamento – annuncia il conflitto aperto tra il Pd renziano e la Raitre di Vianello. Vincenzo De Luca è infatti un renziano eccezionale, sui generis, si sa: si può candidare alla regione Campania nonostante una condanna in primo grado perché è lui, riesce a governare in regolare deroga alla legge Severino perché è lui. Perché lui sa come si fa. Così, anche la sua sortita sul giornalismo di Rai tre, che a suo avviso sarebbe non solo “depressivo” ma addirittura “camorristico”, è stata così eccezionale da produrre sulle prime un effetto paradossale: il Pd renziano si è schierato infatti, con il vicesegretario Lorenzo Guerini, a difesa del canale. Ma è durata poco. Poi, l’attacco ha prodotto il suo effetto autentico: quello dell’apparentemente occasionale scoppiare del conflitto. Lo sparo di Sarajevo appunto.
Parole che fanno deflagrare il maremoto. Grillo chiama “Goebbels-Anzaldi”, il bersaniano D’Attorre chiede che il Pd prenda le distanze, Nicola Fratoianni di Sel parla di “dichiarazione di guerra”, insorgono l’Fnsi e l’Usigrai, il cdr del Tg3 dice che “le sue parole sono inaccettabili e ricordano nei toni 'editti bulgari' di berlusconiana memoria". Vinicio Peluffo, commissario di Vigilanza e relatore del ddl Rai, prova con l’estintore: “Nessun problema con Raitre. Quella è l’opinione di Anzaldi. Ciò che il Pd aveva da dire sull’argomento lo ha già detto la settimana scorsa”. Già, perché la settimana scorsa la Vigilanza aveva convocato in audizione il direttore di Ratire Andrea Vianello, cui aveva chiesto fra l’altro di spiegare perché abbia invitato il grillino Luigi Di Maio nella prima puntata di Ballarò e il grillino Alessandro di Battista nella seconda. Un’audizione fatta “per ripicca”, diceva qualcuno. E che ora comunque diventa una prova a carico.
Comunque finisca, l’aria da editto ha fatto un passo in più. Già la settimana scorsa, richiamando appunto l’editto di Sofia pronunciato da Berlusconi contro Biagio, Santoro e Luttazzi, più di uno aveva definito “editto di Rambo” la più recente uscita di Renzi contro i talk show: “Se fanno meno share della 107esima replica di Rambo, vuol dire che, trama conosciuta per trama conosciuta, almeno si guarda la storia scritta meglio”, aveva detto il premier nell’ultima direzione di partito, riferendosi in particolare a Di Martedì (La7), Ballarò (Raitre, appunto), ma per estensione almeno anche all’invisa Presa diretta (Raitre), definiti autori di “un racconto pigro e mediocre, con il sottofondo le musichette di dieci anni fa”. C’è chi, vedasi il consigliere Rai Carlo Freccero, ha minacciato per questo già di dimettersi “se per caso il direttore generale o la presidente decidessero di prendere provvedimenti”, perché “non si può decidere di seguire la poetica di Renzi su come deve essere la Rai”. C’è chi ha ritirato fuori i ringhi del Massimo D’Alema premier contro le “iene dattilografe”, rimpiangendole ormai come le vestigia di un’epoca tutto sommato innocua.
Per quanto infatti, a dirla con le parole di Pietrangelo Buttafuoco sul Fatto, “l’happy regime vuole solo good news”, e nonostante magari il premier si ritrovi “spalleggiato” da un giornalismo più “smarrito” che “acritico”, certo può dirsi che Renzi ami i giornalisti ancor meno del lider Maximo. In particolare i giornalisti di Raitre, a quanto pare: ma mica per questioni di singole persone. Piuttosto si è che Raitre si trova ad essere contenitore di programmi che sono in posizione alte nella black list del premier. Una black list che giornalisti di primissimo piano e si direbbe di grido definiscono dietro anonimato “parecchio più stretta e rigorosa di quella dell’epoca berlusconiana”. Una black list nella quale figurano ovviamente, anche volti non talk tipo l’ex direttore del Corriere Ferruccio De Bortoli che gli diede del “maleducato di talento”, volti della terza rete come Iacona (ma certo De Luca suggerirebbe anche Gabanelli), ma anche di La7 anche Giovanni Floris, che ebbe a contraddire Renzi ormai agli albori del renzismo di governo, o Corrado Formigli, che a gennaio nel mezzo di una puntata di Piazza Pulita ebbe in dono il tweet renziano “trame, segreti, finti scoop, balle spaziali e retropensieri: basta una sera alla tv e capisci finalmente la crisi dei talk show in Italia”.
Che poi, da sindaco di Firenze, sui talk show Renzi abbia ballato col passo agile di Fred Astaire fino ad arrivare alla soglia di Palazzo Chigi, è ormai roba antiquata, da rottamare. Per l’oggi, si può giusto chiarire che i giornalisti “dal racconto noioso” non sono quelli da 20 per cento di share e milioni di spettatori come Santoro, ma appunto quelli del 4-6 per cento, quelli che si contendono il telecomando con la replica di Rambo. A questi presunti nemici già mezzo in crisi di loro, Renzi vuole che sia apposto per lo meno il chiaro cartello dei gufi, di quelli che “raccontano il solito paese in cui va tutto male”. Tanto è vero che tra i renziani è sempre in vigore non l’attacco, ma il mugugno anti-gufi: quell’atteggiamento da “voi non capite” “fate sempre le stesse domande” “ai giornalisti interessa sempre sapere…” che una vestale del renzismo come la ministra Maria Elena Boschi interpreta magnificamente. Nessuno, almeno a memoria, aveva mai bissato quella straordinaria gaffe che fece alla Leopolda di un anno fa la ministra Marianna Madia: “Non rispondo alla vostra domanda, ma non perché non voglio rispondere: perché secondo me questo non è giornalismo di rinnovamento”. Però adesso, pare si sia oltre le gaffe: dalle parti degli editti, piuttosto.
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