MicroMega ricorda Pietro Ingrao, storico dirigente comunista scomparso ieri all'età di 100 anni, ripubblicando il suo dialogo con Norberto Bobbio uscito sul numero 1/1986 di MicroMega.
DIALOGO SULLE ISTITUZIONI
di Norberto Bobbio e Pietro Ingrao, da MicroMega 1/1986
Il dirigente comunista spiega come è possibile e perché è necessario formare il governo costituente. Le obiezioni del filosofo socialista, e la sua radicale critica delle categorie marxiste di egemonia e massa, inconciliabili con la democrazia occidentale.
Bobbio: Impossibile una nuova Costituente
Torino, 12 novembre 1985
Caro Ingrao,
la proposta, da te fatta nel recente convegno del Centro per la riforma dello Stato, di un’assemblea costituente per la riforma della Costituzione, fondata su un nuovo compromesso istituzionale (così leggo nell’Unità del 30 ottobre) ha destato incredulità e sorpresa. Condivido l’incredulità ma non la sorpresa. Che oggi esistano le condizioni per una politica di alleanze indirizzata principalmente alla riforma costituzionale, direi proprio di no. Però è certo, e per questo non sono sorpreso, che se la riforma della Costituzione si dovesse fare, non potrebbe farsi se non attraverso un ampio e durevole compromesso politico. Su questo punto hai perfettamente ragione. Ma proprio perché hai ragione la riforma non si farà: la condizione che tu poni, la creazione di una sorta di nuova Assemblea costituente, è una condizione impossibile, almeno per ora.
Non sono sorpreso anche per un’altra ragione. In questa tua proposta intravedo, lo dico un po’ provocatoriamente, una certa nostalgia per una unità perduta, poi sempre di nuovo perseguita, quasi raggiunta, quindi riperduta. Ricorderai forse che quando ci trovammo a Torino qualche mese fa a rievocare la politica di Togliatti e la fondazione dell’Italia democratica, in un convegno organizzato dall’Istituto Gramsci torinese, commentando i discorsi di Togliatti all’Assemblea costituente, dissi che ero stato colpito, rileggendoli dopo tanti anni, dal forte e continuo accento messo sul principio dell’unità, sia dell’unità nazionale, sia dell’unità della classe operaia, sia dell’unità delle forze che avrebbero dovuto marciare insieme per avviare il paese verso il socialismo. Parlando dell’indissolubilità di democrazia e socialismo disse che non proponeva il modello sovietico al popolo italiano, ma gli proponeva di «restare unito allo scopo di trovare la propria strada per la conciliazione dell’ideale democratico e dell’ideale di rinnovamento sociale». Lodò il compromesso costituzionale che altri aveva inteso in senso deteriore dicendo: «Signori, se questa confluenza di due diverse concezioni su un terreno ad esse comune volete qualificarlo come compromesso, fatelo pure. Per me si tratta, invece, di qualcosa di molto più nobile ed elevato, della ricerca di quella unità che è necessaria per poter fare non la Costituzione dell’uno o dell’altro partito, ma di tutta la nazione (i corsivi sono miei).
Confesso che non sono mai riuscito a darmi una piena ragione di questo ricorrente appello all’unità, fatto dal Partito comunista in tutti questi anni. Anche quando è stata abbandonata la strategia del compromesso storico, la nuova strategia ha preso il nome di «alternativa democratica», quasi a far capire che non sarebbe stata un’alternativa come tutte le altre, di destra, di sinistra, di centro-destra, di centro-sinistra, ma sarebbe stata un’alternativa sui generis, contraddistinta da una tendenza a superare le divisioni abituali di un sistema politico democratico, di un sistema, voglio dire, che viene chiamato democratico nel suo insieme e non può essere chiamato democratico in una delle sue parti (l’alternativa) se non a costo di creare una notevole confusione. Se una di queste parti viene chiamata «democratica» è segno che la si considera una parte che tende a identificarsi col tutto. Anche su questo punto ebbi occasione di manifestare pubblicamente le mie perplessità e di avanzare una richiesta di spiegazione in un dibattito al Festival nazionale dell’Unità a Torino alcuni anni fa, dedicato al tema dell’unità delle sinistre, in cui tu traesti le conclusioni rispondendo anche alla mia obiezione.
Non sono mai riuscito a capire le precise ragioni di questa corsa affannosa verso una non raggiunta e irraggiungibile unità, perché, se è vero che la nostra Costituzione è nata da uno sforzo unitario delle varie parti politiche che avevano combattuto il fascismo, la forma di governo che ne è derivata è la democrazia parlamentare, e il governo parlamentare si regge non sull’unità ma sulla distinzione, non su una fittizia unanimità ma sulla regola della maggioranza, e sulla conseguente contrapposizione tra maggioranza e minoranza. Probabilmente quarant’anni fa non era così chiaro come ora che la democrazia realizzata è la sovrastruttura istituzionale (scusami questo innocuo civettamento con concetti marxisti) di una struttura economica e sociale pluralistica. Senza pluralismo non è possibile alcuna forma di governo democratico e nessun governo democratico può permettersi di ridurre, limitare, comprimere il pluralismo senza trasformarsi nel suo contrario.
Pluralismo significa non soltanto che vi sono (debbono esservi) molte forze in gioco, ma anche che tra queste forze vi è (deve esserci) concorrenza e quindi conflitto, e pertanto ogni compromesso è sempre parziale e provvisorio, e l’unità non è facilmente perseguibile e nemmeno benefica. In un celebre discorso alla Costituente Togliatti chiamò governo della discordia il governo con cui De Gasperi aveva rotto l’alleanza coi partiti della sinistra. Dal suo punto di vista in quel momento storico aveva perfettamente ragione: ciò non toglie che la discordia sia il sale della democrazia, o più precisamente della dottrina liberale che sta alla base della democrazia moderna (per distinguerla dalla democrazia degli antichi). Resta sempre a fondamento del pensiero liberale e democratico moderno il famoso detto di Kant: «L’uomo vuole la concordia; ma la natura sa meglio di lui ciò che è buono per la sua specie: essa vuole la discordia».
Sul nesso tra democrazia e pluralismo consentimi la citazione di questa bella frase di Salvemini: «Durante il mezzo secolo in cui ci fu in Italia un governo libero, sorsero associazioni d’ogni genere, circoli politici, religiosi, sportivi, ricreativi, educativi, filantropici, società di mutuo soccorso, cooperative di consumo, associazioni d’industriali, proprietari terrieri. Alcune di queste associazioni erano riunite in organismi nazionali, altre erano prive di legami, ma tutte vivevano in libera concorrenza tra loro sotto l’egida delle più svariate etichette politiche e religiose. Oggi Mussolini e i fascisti possono dire, come Sganarello: “Nous avons changé tout cela”».
Lungi da me l’idea che tu non sia d’accordo con Salvemini su questo punto, anche se la tua insistenza nella critica alla «corporativizzazione» della nostra società potrebbe essere ancora una volta la spia di una incontenibile vocazione all’unità. Forzo un po’ la mia argomentazione perché mi preme sapere, e penso prema anche a te, se siamo d’accordo sul modo d’intendere la democrazia. Non da oggi, sono convinto che una delle «peculiarità» dei comunisti, sulle quali abbiamo consumato montagne di carta stampata, sia proprio il modo d’intendere la democrazia. Del resto è su questo tema che ci siamo incontrati e scontrati altre volte. La prima volta, se ben ricordo, al convegno su «La sinistra davanti al parlamento», del maggio 1966, in cui tu, difendendo la funzione essenziale di fronte a tentazioni rinnovate di spostare il potere normativo verso il governo, sostenevi la tesi che ti è cara, e su cui tornerò, che identifica la democrazia con la partecipazione e la partecipazione con la «partecipazione delle masse». La seconda volta, quando in un saggio su Rinascita del febbraio 1976 presentasti punto per punto il tuo dissenso nei riguardi della mia definizione della democrazia rappresentativa. Questo tuo saggio era intitolato, non a caso, Risposta a Bobbio: democrazia di massa.
Sono passati tanti anni, ma siamo ancora lì, sempre lì. Per quel che riguarda la comprensione della democrazia reale, di quella democrazia che si svolge tutti i giorni sotto i nostri occhi, ho spesso l’impressione che non solo non abbiamo fatto molti passi avanti, ma ne abbiamo fatti alcuni indietro.
Pensa un po’: davamo per scontato il nesso fra democrazia e socialismo. La rivoluzione d’ottobre aveva dato origine a uno Stato socialista non democratico? Ebbene, si trattava di perseguire lo stesso fine, il socialismo, mediante il metodo democratico. Tu stesso sei tornato più volte sul tema. Ricordo, ad esempio, la tua risposta a Riccardo Lombardi, apparsa su Rinascita, nel 1964, intitolata «Sul rapporto tra democrazia e socialismo», nella quale appariva molto chiaro (e non soltanto a te, allora) che una battaglia per l’allargamento della base democratica fosse il punto di partenza della battaglia per il socialismo, e si dovesse costruire una democrazia «aperta al socialismo» che fosse in grado «non solo d’intervenire nell’economia a fini perequativi e solidaristici, ma anche di mutare i rapporti di produzione». Allora, ripeto, non soltanto a te ma a tutta la sinistra, sembrava che la costruzione di questa democrazia «aperta al socialismo» fosse la cosa più naturale del mondo.
Ci siamo accorti che il problema è un po’ più complicato di quel che avevamo immaginato. Sinora nessun regime democratico si è aperto al socialismo, se per socialismo s’intende, com’è giusto s’intenda, secondo la tradizione ormai più che secolare del pensiero socialista, il mutamento della forma di produzione. Anzi si è manifestata in questi anni una tendenza contraria delle democrazie reali ad aprirsi o a riaprirsi… al capitalismo. È risultato sempre più evidente che la politica dei partiti socialdemocratici quando sono andati al governo è stata una politica di compromesso tra il movimento operaio e il sistema capitalistico nel suo complesso su manovre redistributive. Un compromesso, fra l’altro, che sta per rompersi, e già in alcuni paesi si è rotto, nella direzione non di una «fuoriuscita dal capitalismo», ma, piaccia o non piaccia, di una sua «rientrata».
Non faccio queste osservazioni nello stato d’animo di chi se ne compiace, ma unicamente per invitare tutti coloro che non se ne compiacciono a riflettere su quel che è accaduto, a discutere i nostri presupposti (sbagliati) e trarne le conseguenze.
La prima riflessione che dovremmo fare riguarda quelli che io ho chiamato altrove i «vincoli» della democrazia. Abbiamo creduto che con la democrazia si potesse fare tutto. No, con la democrazia non si può fare tutto. È già accaduto che, volendo tutto, non si è ottenuto niente, e per giunta si è perduta anche la democrazia. Quali sono questi vincoli? Anzitutto ci sono alcuni princìpi che vengono dalla tradizione del pensiero liberale, e che abbiamo convenuto di considerare irreversibili, quali i diritti di libertà, in generale i diritti civili: sono i princìpi senza i quali le stesse regole del gioco non possono essere applicate. Poi ci sono appunto le regole del gioco, le regole in base alle quali vengono prese le decisioni collettive in un certo modo piuttosto che in un altro: regole del gioco democratico sono quelle che presiedono alle trattative che si concludono, quando si concludono, con un accordo, e quella che stabilisce che quando un accordo non è possibile (il che vuol dire che la decisione non può essere presa all’unanimità) s’intende per decisione collettiva quella presa a maggioranza.
Non ho nulla da obiettare all’osservazione da te fatta nell’articolo testé citato, secondo cui non c’è parità reale di voto fra il padrone della Fiat e un operaio. Ma si può replicare che l’unico rimedio alla diseguaglianza sostanziale è l’eguaglianza formale, per cui il padrone della Fiat ha un solo voto come l’operaio (e lui è uno solo e gli operai sono mille). L’eguaglianza formale non è gran che, d’accordo. Ma ha sempre dato un terribile fastidio ai potenti. Tu sai benissimo quanto scalpitino i grandi Stati per il fatto di avere nell’Assemblea delle Nazioni Unite lo stesso voto che compete ai piccoli e piccolissimi Stati, tanto che qualcuno si agita per proporre il cosiddetto voto ponderato. E poi c’è altro rimedio? Voglio dire: c’è un altro rimedio che possa gettar via l’acqua sporca della diseguaglianza sostanziale senza buttar via il fantolino del voto per testa, senza il quale tutto il sistema democratico che si regge sul presupposto individualistico che ogni uomo conta per uno andrebbe a farsi benedire?
Mi rendo perfettamente conto anch’io che il restare dentro questi princìpi e queste regole del gioco ha impedito sinora non solo in Italia ma in tutti gli Stati in cui questi princìpi e queste regole esistono e vengono rispettate, di fare della democrazia rappresentativa, per riprendere tue parole, «la possibile forma politica di transizione dall’una all’altra forma economico-sociale», anche se dobbiamo lealmente riconoscere che di «transizioni» nei regimi democratici ce ne sono state tante e il capitalismo di oggi è irriconoscibile rispetto a quello di ieri e dell’altro ieri. Ma che vogliamo fare? Cambiare quelle regole? Ma ciò non significherebbe tornare ai governi assoluti? Inventare nuove regole? Quali? La domanda è facile. È la risposta che è difficile.
Un rimedio sul quale tu richiami giustamente l’attenzione nei tuoi scritti, e che nel nostro paese ha pur avuto qualche timido tentativo di attuazione, è quello che tu chiami «estensione capillare delle assemblee rappresentative», e costituisce la cosiddetta «democrazia di base». Non discuto quali ne siano stati gli effetti: per quel che riguarda la «transizione» sono stati irrilevanti. E anche questo è un bel tema di meditazione. Ma mi ammetterai che in questo caso non è avvenuto altro che un’estensione delle stesse regole del gioco a spazi diversi da quelli in cui si sono applicate normalmente sinora.
Mi è accaduto altre volte di dire che per un certo periodo di tempo l’estensione della pratica democratica era consistita nell’accrescere il numero delle persone che hanno diritto di votare, e che ora si tratta di accrescere il numero dei luoghi in cui si vota. Non è un salto di qualità ma soltanto di quantità. La definizione procedurale di democrazia, che per quanto minima mi pare la sola corretta, e sulla quale tu sembri avere dei dubbi, non ha bisogno di essere cambiata di una virgola quando si voglia far capire in che cosa consiste la democrazia di base. Voglio dire che non abbiam altro rimedio da proporre che la democrazia di base contrapposta alla democrazia di vertice, la definizione di democrazia, come insieme di procedure per prendere decisioni collettive, siano queste quelle dell’Assemblea dell’Onu o quelle dell’assemblea di quartiere, è sempre la stessa.
Inoltre c’è la democrazia diretta. Ma anche questa non è una invenzione: sotto forma di referendum ce l’abbiamo anche nella nostra Costituzione. Il guaio è che sinora nessuno dei referendum che si sono svolti in Italia è riuscito a correggere le decisioni, prese attraverso il metodo della democrazia rappresentativa. Neppure, pare incredibile, iI referendum popolare, popolarissimo, che avrebbe dovuto punire il parlamento per aver decurtato il salario operaio. Posso benissimo non rallegrarmi di questo risultato. Ma questo risultato non è tale da illuminarci in una maniera addirittura spettacolare su ciò che si può ottenere e ciò che non si può ottenere con l’osservanza delle regole della democrazia? Di fronte a questa lezione dei fatti, come ci comportiamo? O perdiamo la pazienza e sbattiamo via insieme con le regole la democrazia, ma questa è certamente la via che tu e io non saremmo disposti a seguire, oppure ci rassegnamo a questi mediocri e deludenti risultati pur di salvare la democrazia con le sue regole e coi suoi vincoli, e allora dobbiamo rivedere molte delle nostre idee sulla possibilità di passare da una forma di produzione a un’altra, dal capitalismo al socialismo, col metodo democratico, almeno in questa fase storica di sviluppo del capitalismo, in cui il rapporto tra paesi capitalistici e paesi socialisti è, rispetto alle illusioni di quarant’anni fa, completamente invertito. Allora si poteva sostenere che il capitalismo era chiamato a sostenere la sfida dei paesi socialisti oggi sono i paesi socialisti che si trovano nella condizione sempre più onerosa di far fronte alla sfida del capitalismo.
Non vorrei sbagliare, anche perché adesso penetro entro una rete di concetti che mi è meno familiare, ciò che nei tuoi scritti sul tema della democrazia integra la definizione puramente formale è l’introduzione e la combinazione di due concetti che non appartengono al sistema concettuale del pensiero liberal-democratico, e che invece sono propri della tradizione del pensiero marxista. Questi due concetti, su cui vorrei ancora soffermarmi prima di concludere questa prima battuta del nostro dialogo, sono «egemonia» e «massa».
Un’analisi del concetto di egemonia su cui, specie in Italia si è scritto molto sarebbe del tutto fuori luogo. Mi domando soltanto se, intesa come il momento della conquista del consenso ottenuto attraverso la capacità di convincere anziché di costringere, vi possa essere in un regime democratico altra verifica dell’egemonia che il numero dei voti. Mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse in che cosa consista l’egemonia in un sistema democratico se non nella capacità di ottenere il maggior numero di voti. Prova ne sia che in tutti questi anni si è detto che in Italia il partito egemone è stato la Democrazia cristiana ed è diventato espressione del linguaggio politico corrente il parlare dell’egemonia del partito di maggioranza relativa. Se qualcuno mi sa dire che cosa significhi in democrazia, entro il sistema di certe regole del gioco, conquistare l’egemonia, oltre al conquistare il consenso degli elettori, lo prego di farsi avanti.
Il linguaggio politico è pieno, come si sa, di parole al cui significato emotivo fortissimo corrisponde un significato descrittivo debolissimo. A me pare che una di queste parole sia «massa». Il suo significato emotivo non è soltanto forte ma è anche contraddittorio: secondo i diversi orientamenti, questa parola ora ha un significato estremamente negativo, quando è usata da pensatori reazionari, ora ha un significato estremamente positivo, quando è usata dagli scrittori rivoluzionari. Purtroppo in entrambi i significati emotivi serve a descrivere molto poco. Se mai, ha un maggiore valore descrittivo nel suo significato emotivo negativo, in quanto comprende tutto ciò che non appartiene alle élite, che non nel significato emotivo positivo, di cui sarebbe difficile indicare i connotati.
Sempre restando entro l’ambito della definizione procedurale di democrazia, sarei curioso di sapere che cosa si possa mai intendere per democrazia di massa di diverso da quel che s’intende per democrazia fondata sul suffragio universale, in buona sostanza che cosa si dica di più e di meglio quando si parla di democrazia di massa rispetto a quel che si intende quando si parla di un sistema politico in cui tutti i cittadini maggiorenni hanno il diritto di voto. È vero che un’espressione che tu usi frequentemente come «irruzione delle masse nello Stato» fa pensare a un fiume tumultuoso che rompe gli argini e spazza e travolge tutto ciò che trova nel suo corso, ma si tratta di un’espressione figurata con la quale non si vuol dire altro, a mio vedere, se non che i cittadini, oltre al diritto di voto, hanno anche quello di fare manifestazioni sulle pubbliche piazze. Ma che cosa sono queste manifestazioni se non la naturale conseguenza del diritto di riunione sancito da qualsiasi Costituzione liberal-democratica, e anche dalla nostra? Prima che fosse riconosciuto il diritto di riunione una manifestazione di massa sarebbe stata condannata come tumulto e la folla ivi radunata sarebbe stata considerata una turba.
Sai come sarebbe stata chiamata la manifestazione civilissima del marzo 1984 a Roma in occasione della protesta per i tagli alla scala mobile? Agere per turbas. Che bisogno c’è di scomodare la massa quando scende in piazza una moltitudine di cittadini che esercitano un loro diritto, si badi un diritto individuale, riconosciuto all’individuo singolo, un diritto che appartiene all’individuo in quanto cittadino? Passi l’espressione «partito di massa», che non significa nient’altro che un partito con moltissimi iscritti e un’organizzazione permanente contrapposto al vecchio partito di quadri. Ma ha ancora un qualche senso parlare di democrazia di massa?
Il concetto di democrazia, nel suo senso storicamente più corretto, a me pare sia incompatibile col concetto di massa che fa pensare a un corpo collettivo insieme amorfo e indifferenziato, mentre il soggetto principe di un regime democratico è il singolo individuo che nella sua essenza o sostanza personale si distingue da tutti gli altri. La democrazia moderna nasce dalla teoria contrattualistica secondo cui la società politica è il prodotto artificiale di un accordo tra individui responsabili (proprio l’opposto delle membra di un corpo organico e ancora peggio delle parti di una massa informe). In una democrazia non ci possono essere masse: ci sono, o individui, oppure associazioni volontarie composte da individui come i sindacati e i partiti.
Mi domando, insomma, se il termine «massa», oltre il significato emotivo che, come ho detto, è ambiguo, possa avere anche un significato descrittivo che serva a fare capire meglio che cosa sia la democrazia e a contraddistinguere un tipo di democrazia (la democrazia di massa) dal tipo di democrazia tramandato dal pensiero liberale e democratico che chiamerei semplicemente «democrazia dei cittadini». L’unico significato di democrazia di massa, che traspare anche dai tuoi scritti è quello di democrazia senza «delega», una parola che ha quasi sempre nel linguaggio della sinistra estrema un significato peggiorativo. Ma che cosa è la democrazia senza delega se non la democrazia diretta o la democrazia assembleare o quella in cui tra elettori ed eletti vien meno il divieto di mandato imperativo? Vogliamo allora sostituire alla rappresentanza politica la rappresentanza degl’interessi? Discutiamone pure ma non copriamo un problema di diritto costituzionale tutt’altro che nuovo d’altronde, con un linguaggio che non lascia capire di che cosa esattamente stiamo parlando.
Sia ben chiaro: queste mie osservazioni nei riguardi di un modo di parlare di democrazia in cui non mi riconosco, non debbono essere interpretate come un rifiuto di vedere i difetti della nostra convivenza democratica e i problemi non risolti. Tu stesso in questi ultimi anni ti sei occupato con passione e lucidità del problema della pace, e hai messo il dito sulla piaga del potere militare che sfugge al controllo democratico. Ma altro è riconoscere i limiti intrinseci dovuti alle regole del gioco democratico che sono quelle che sono, su cui mi sono soffermato altro denunciare la violazione di queste regole. In tal caso non sono in questione i limiti della democrazia ma i limiti o gli errori o le colpe di coloro che dovrebbero sovraintendere alla loro corretta applicazione. Ritengo però che per cominciare un dialogo fruttuoso su questi errori e su queste colpe occorra prima di tutto sgombrare il campo dai falsi problemi, dai possibili malintesi, dalle risposte illusorie, e prendere la democrazia per quello che è e non per quello che abbiamo creduto che fosse da neofiti con molte speranze, fortissimi desideri e scarsa conoscenza del mondo.
Con rispetto e con la più viva cordialità
Norberto Bobbio
Ingrao: Le vecchie regole ci soffocano
Roma, 20 dicembre 1985
Caro Bobbio,
seguo l’ordine della tua lettera. E parto dalla proposta di un «governo costituente», che mi è capitato di fare prima in un recente convegno romano del «Gramsci» e del Centro per la riforma dello Stato, e poi nel Comitato centrale del mio partito (è chiaro che «governo costituente» pretende di essere solo un’immagine: non mi sogno mica di proporre che sia il governo a fare la Costituzione…).
So che tu in proposito sei, più che incredulo, «miscredente». Ma non mi è chiaro un punto. Ricorderai che nel nostro dialogo pubblico a Torino sull’interessante libro di Pasquino Restituire lo scettro al principe, Zagrebelsky mise in campo le due categorie di «desiderabilità» e di «fattibilità»: dichiarò la riforma istituzionale altamente desiderabile, ma espresse molti dubbi sulla sua praticabilità, io non ho ancora compreso: tu consideri la riforma desiderabile, ma non fattibile; oppure ritieni che si debbano lasciare le cose come stanno, perché così stanno bene (o almeno piuttosto bene), o perché – pur stando parecchio male – non vedi strada per cambiarle? Ti pongo questa domanda perché, ancora nel nostro dialogo pubblico a Torino, tu sollecitasti molto caldamente una riforma non piccola: il cambiamento del sistema elettorale, come problema di oggi, tema concreto e attuale di questo momento.
So bene che il sistema elettorale non sta nella Costituzione, e non ha bisogno perciò di procedure straordinarie per il suo cambiamento. Ma questo non toglie nulla al peso costitutivo che esso ha nel sistema politico generale. E nessuno – mi sembra – potrebbe ragionare su quella riforma senza fare riferimento subito al tipo di parlamento, o al rapporto tra parlamento ed esecutivo, o al nesso (oppure no) con sistemi di democrazia diretta, o all’incidenza sul sistema dei partiti che il cambiamento proposto comporta.
Ecco allora la mia domanda. Sollecitando, con la passione e l’urgenza con cui l’hai fatto a Torino, una riforma elettorale, tu davvero pensi che sia possibile oggi scorporare questa delicatissima e così intrigante questione dall’insieme della riforma istituzionale? Ritieni che ci sia una forza politica oggi in Italia disponibile ad accettare di discutere una riforma elettorale così scorporata, e fuori dal contesto? Insomma a me sembra che tu stesso – sia pure da «miscredente» – al momento in cui poni sul tappeto la questione della riforma elettorale, dai conferma dell’attualità di una riforma delle istituzioni.
Qualche volta ho l’impressione di muovermi in un mondo strano. Appena non molto tempo fa il presidente del Consiglio parlò di Grande Riforma con la maiuscola, e il segretario politico del maggior partito di governo pose anche lui la questione di una riforma elettorale, che spostava l’asse del sistema di rappresentanza. Parole? Ecco allora i fatti. Si è costituita, più di un anno e mezzo fa, una commissione bicamerale composta di 41 membri, designati da tutti i partiti rappresentati nel parlamento nazionale. La commissione ha avuto come esplicito mandato non solo di studiare, ma di formulare proposte di revisione istituzionale. E ha spaziato, nella sua indagine e nelle sue proposte dal parlamento alla struttura del governo, dalla pubblica amministrazione agli statuti dei partiti e dei sindacati, dal sistema dell’informazione all’ordinamento giudiziario, ai diritti di libertà.
Sono stati confrontati programmi. Sono state delineate soluzioni. È vero che le conclusioni hanno ottenuto un magrissimo consenso: sedici voti su quarantuno membri. Ma è anche un fatto che le rappresentanze di tutti i partiti hanno presentato la loro gamma di proposte, su un arco vastissimo. Ed è vero che ancora oggi si discute dell’esito da dare a quel confronto.
E allora bisogna pensare che o quei quarantuno della commissione Bozzi erano impazziti e si divertivano a un gioco senza senso; oppure è vero che la riforma istituzionale, piaccia o no, è entrata nell’agenda politica.
Essa si è bloccata – a mio avviso – anche e proprio per la difficoltà di procedere per «tavoli separati»: con un governo che sul suo tavolo tendeva a procedere a una riforma di fatto, a mutare, per colpi di forza almeno alcuni dei delicatissimi equilibri fra esecutivo e assemblee. E allora ecco la questione: si può discutere e decidere di riforma istituzionale, mancando un quadro politico che crei le precondizioni della sua realizzabilità e dia alle diverse parti le garanzie politiche perché quel compito possa essere assolto? lo non lo credo.
Qui è la ragione, il senso del «governo costituente». Tu vedi in esso l’ossessione dell’unità ad ogni costo, e in ogni momento. Al contrario io ho parlato di un’iniziativa a termine, che ha il dichiarato obiettivo di superare il blocco della democrazia esistente oggi in Italia e di aprire la strada a un processo di alternanza e a strategie alternative.
Si può soprassedere? Consentimi un cenno a un avvenimento che si è svolto nella tua città, a Torino, al Lingotto, un luogo classico della storia dell’Italia industriale moderna e dei suoi conflitti. Confesso di essere rimasto colpito dalla tranquilla (ma si potrebbe dire anche: «rozza») arroganza con cui la crema del grande padronato italiano ha teorizzato in quella sede l’assolutismo dell’impresa, la sua supremazia affidata a una innovazione tecnologica, al tempo stesso presentata come fatto oggettivo e come fiore esclusivo dell’iniziativa imprenditoriale.
Mi è parso di sentire, nei discorsi pronunciati, l’eco di processi profondi aperti su scala mondiale – e al tempo stesso – la manifestazione di un vuoto impressionante. I processi in atto li abbiamo sotto gli occhi: la mondializzazione dell’economia, l’avanzata della società dell’informazione, la concentrazione dell’intelletto scientifico mondiale e i correlativi processi di militarizzazione. Mi domando se è possibile che il nostro paese possa reggere all’onda di questi processi senza una riforma della macchina pubblica, e un rilancio dell’iniziativa politica in senso grande. Quei processi hanno già colpito molta parte dell’edificio degli Stati nazionali, che hanno avuto la loro culla in Europa. Tutto un modo di mettere in circolo l’innovazione culturale, economica sociale tramite il veicolo degli Stati nazionali, e dei mercati nazionali che alla loro ombra sorgevano, è già per larga parte in frantumi. Perciò parliamo dell’urgenza di un’Europa politica. Perciò le diseguaglianze di sviluppo – mi sembra – investono ormai in modo impetuoso la stessa fascia dei paesi industrializzati. Le multinazionali hanno sfondato frontiere, sconvolto società e processi formativi, drenato e riordinato forze culturali.
Al Lingotto predicavano l’autosufficienza. Io invece mi domando come è possibile rispondere alla sfida delle cose senza ripensare la trama delle istituzioni e delle loro funzioni. La ragione della riforma dello Stato la colloco lì: non solo e non tanto nelle distorsioni del passato, quanto nella sfida di domani. Proprio perché l’innovazione non è più la grande ciminiera, ma una rete di competenze, una diffusione di cultura, una articolazione di servizi, una complessità di figure sociali, abbiamo bisogno di ripensare il «pubblico» e il privato, il loro rapporto.
Spesso mi sono sentito dire: «Ma perché riforme istituzionali? Ci sono tante cose da fare». Io rovescio il ragionamento: come fare tante cose urgenti, senza riforme istituzionali? Come affrontare il tema del tutto inedito di una disoccupazione massiccia connessa all’innovazione e allo sviluppo, senza dare una dimensione sovranazionale a tutta una serie di funzioni, e al tempo stesso decentrarne con audacia tante altre all’interno degli Stati nazionali, riformando da due parti la macchina dello Stato? Come gestire la trasformazione dell’economia senza ripensare la struttura del governo? Rischiare di stare fermi persino sulle questioni ultramature: perché raddoppiare inutilmente il tempo di elaborazione delle leggi (con i connessi giochi trasformistici), in un bicameralismo parlamentare che non sta più in piedi?
Non credo insomma a una possibilità dell’ordinaria amministrazione, della gestione dell’esistente. Non è questa la fase. E se il problema è posto, temo che iniziative da altre sponde possano risolverlo in modo sbagliato: il che può voler dire anche una lenta, sepolta degradazione che muta però il senso delle regole e il tessuto della convivenza. E c’è modo e modo. Ci sono crisi di regime che precipitano convulsamente; ci sono invece occulti spostamenti del potere che scavano caverne.
Credo che in questo mio ragionamento stia anche la risposta a tutta una serie di questioni importanti poste nella tua lettera. Sostengo che il farsi così urgente della riforma istituzionale, dice quanto poco basti l’affermazione, pure così importante, dell’uguaglianza dei cittadini nel voto.
Tu mi ricordi quanto è essenziale che Agnelli conti nel voto allo stesso modo di un operaio. Eppure questo non ci è bastato e non ci basta. E non solo a te e a me. Alludo a come sono andate le cose, alla storia di questo secolo. Giustamente non ci è bastato. Perché subito è emersa la questione del come si vota, del per che cosa si vota, di ciò che accade dopo il voto: in quali condizioni di conoscenza, di rapporti sociali reciproci, di controllo sulla stampa, sull’informazione, sugli apparati di governo, sui mezzi materiali. E su che cosa si vota: su quali poteri, strutturati come, affidati a chi, secondo che formule e regole. E che succede dopo il voto, per ciò che riguarda la decisione o le decisioni (al plurale), gli organi stessi della decisione, gli apparati di attuazione, le competenze. Non parlo qui degli «errori» e delle «violazioni» a cui tu alludi alla fine della tua lettera. Parlo delle forme articolate e storiche delle istituzioni, che ne definiscono la sostanza.
Del resto ti prendo in parola. Tu stesso dici di individui che si raccolgono in associazioni volontarie quali i partiti e i sindacati. E perché allora mi chiedi spiegazioni circa la democrazia di massa? Questa è la moderna democrazia di massa, se poco poco mettiamo mente a ciò che è diventata, in un insieme sempre più vasto di paesi, la trama dei partiti, la rete dei sindacati, lo sviluppo di movimenti sociali nettamente diversi anche da partiti e sindacati: i Verdi, le donne, i pacifisti, i movimenti giovanili. E si dà anche una rete di associazioni che non hanno un volto di rivendicazione generale, ma un proclamato carattere corporativo, o addirittura di lobby. Si discute molto sulle vicende di questi così articolati e complessi tipi di associazioni. Possiamo noi oggi ragionare sugli «individui», senza vedere le loro connessioni con questa trama associativa che fa la storia politica moderna?
E non so proprio vedere i partiti solo come una somma di individui: altrimenti sarebbero solo un elenco di elettori. E invece noi abbiamo conosciuto partiti che prevedono attività continue, che si strutturano organizzativamente, che si danno ideologie e progetti, e discutono di strategie politiche per realizzarli. Abbiamo visto gli stessi sindacati ambire e rivendicare il volto di «soggetto politico». Di questi processi facciamo la storia: proprio in quanto partiti, sindacati, movimenti, non in quanto «elenco» di elettori.
E la ragione di questo cammino – lo sai cento volte meglio di me – sta nel fatto che determinati individui hanno sentito che non bastava il certificato elettorale né la regola di maggioranza, e nemmeno il diritto di presentare insieme liste di candidati. E hanno pensato insieme al durare di un programma, di iniziative comuni, di vincoli reciproci, che si prolungavano prima e dopo il voto. E ognuno di noi conosce bene la storia dell’intreccio (e anche delle disgiunzioni) fra diritto di voto e diritti di associazione, e le forme inedite e straordinarie che l’associazionismo ha preso nel corso del nostro tempo, sino anche a cristallizzazioni burocratiche, e partitocratiche, dove la stessa fisionomia individuale si è trovata a essere spenta o scavalcata. Perché allora non dovremmo parlare di società di massa, al di là del significato valutativo che si voglia dare a questo termine?
No, non sono d’accordo con la definizione che dai del concetto di egemonia: non mi pare riducibile alla semplice acquisizione del consenso degli elettori che si esprime attraverso il voto. L’egemonia suppone ben di più. Suppone un consenso attivo che può andare anche oltre l’immediatezza del programma: un agire oltre il voto, un agire con gli altri e verso gli altri per ottenere l’adesione dell’intiera lettura di uno stato di cose. E suppone anche che chi ha l’egemonia si presenti come fautore di interessi generali, che vanno oltre i singoli e i gruppi, e che molto spesso ambiscono a un sistema di valori. La Dc la sua egemonia l’ha realizzata non solo chiedendo l’appoggio alla lista dei suoi candidati e promettendo determinate elargizioni, ma presentandosi come partito dirigente di tutta una fase dello sviluppo nazionale, richiamandosi a una ideologia, mobilitando forze, creando alleanze internazionali. Tanto ciò è vero che essa si è rapportata per un lungo tempo a una trama di associazioni collaterali, alcune delle quali (e niente affatto minori) non erano né sindacati né partiti. E per un breve tratto del suo cammino si è collegata direttamente con la Chiesa stessa.
Non mi pare si tratti solo di una storia nostra italiana. La storia europea, in forme diverse, ci dà la trama di altre presenze egemoniche. Non parlo delle dittature dell’Est. Parlo delle vicende del movimento operaio occidentale, delle sue strutture e delle sue varianti, in Germania, in Inghilterra, Francia, Svezia, Austria, Olanda, Belgio.
Insomma, il problema di un’espansività della democrazia mi sembra dominare il secolo, e non è riducibile alla questione del suffragio universale e del principio di maggioranza, ma va oltre di essi. Si tratta dei contenuti della democrazia e della storicità delle sue forme. Altrimenti perché sarebbe stato scritto l’articolo 3 della nostra Costituzione e quel capoverso sugli ostacoli all’accesso dei lavoratori alla direzione politica del paese?
Tu dici che non è stato risolto in alcun modo il problema dell’estensione della democrazia al modo di produzione. Ed è vero. Ma il problema è lungi dall’essere cancellato. Anzi. Tutti gli sviluppi del processo produttivo, di cui parlavo prima, nella misura in cui mostrano i limiti e il consumarsi delle strategie redistributive dello Stato sociale, riacutizzano il problema anche in Occidente. Il secolo si chiude sulla fine dell’equazione fra sviluppo industriale e occupazione: lo sviluppo industriale sembra addirittura, nell’immediato, scandire l’espulsione di forza lavoro, e insieme con essa produrre un’impressionante ristrutturazione dei ruoli, delle competenze, delle figure sociali. Non sono convinto che questo non apra problemi al capitalismo. Certo ne apre per ciò che riguarda il rapporto storico tra capitalismo e democrazia politica.
Quanto alle nostre illusioni o delusioni, io sto all’immagine che tu adoperi. Tu dici che oggi la democrazia sembra «riaprire» al capitalismo. E intendi riferirti, credo, al rilancio di politiche neoconservatrici, che sono tuttora sul campo (anche se con un certo affanno rispetto all’immediato ieri). Ma allora vuoi dire che c’è stata tutta una fase in cui la democrazia si era «chiusa» al capitalismo: aveva insomma intaccato poteri, spostato regole, instaurato compromessi dinamici. È quanto mi basta per concludere che siamo dunque dinanzi a sviluppi storicamente determinati dalla democrazia, che storicamente via via la ridefiniscono nelle sue forme e nei suoi contenuti. E vuoi dire anche che, in questo farsi della democrazia, si ridefinisce dinamicamente e continuamente il rapporto con strutture sociali date, le quali subiscono modifiche, varianti, spostamenti. C’è conflitto.
E però lasciami dire che trovo un po’ forzata e deviante la tua imputazione ai comunisti di una ossessione unitaria. Non nego per nulla che la parola unità ricorra assai spesso nel vocabolario politico dei comunisti italiani: ma non solo dei comunisti italiani. In definitiva è un richiamo a quel momento associativo e aggregante, che si presenta come la principale «risorsa di potere» (per adoperare una densa definizione del socialdemocratico svedese Korpi) per incidere nelle strutture in atto e nei rapporti sociali e politici sfavorevoli. In fondo non facciamo che imparare dai borghesi, e dal modo con cui essi hanno costruito una egemonia non solo sommando voti, ma esercitando una funzione dirigente nazionale. O meglio sommando (raccogliendo) voti attraverso l’immagine di una funzione dirigente nazionale: almeno sino a dove l’hanno saputa assolvere.
L’assillo unitario è una ragione dell’egemonia. Ma il quadro è conflittuale: anzi parte dalla convinzione di contraddizioni antagonistiche. Togliatti quando parla dell’unità lo fa in ragione di un conflitto, che a suo vedere spacca il mondo e le cose: è l’unità in funzione di una lotta. E il compromesso stesso, come accordo, è visto come parte di una lotta. Ma qui vengo a parlare di cose di casa mia; e può darsi che io prenda abbagli.
Caro amico, se non ti dispiace questo dialogo a distanza (che segue ad altri, in altri momenti), ti sarò grato di una risposta.
Con l’antica stima.
Pietro Ingrao
Bobbio: È il cittadino che deve decidere
Torino, 15 gennaio 1986
Caro Ingrao,
questo dialogo a distanza non mi dispiace affatto, ti rassicuro, anzi lo trovo molto eccitante e lo preferisco senz’altro al colloquio immediato, alla conversazione estemporanea, a tutte le forme di comunicazione orale, tra le quali diventano sempre più frequenti nella civiltà dei mass media, con mio fastidio e dispetto (ma io sono all’antica, anche se non come uno dei miei maestri, Piero Martinetti, che si vantava di non aver mai telefonato in vita sua) l’intervista, specie quando è a caldo, e il dibattito, specie quando è a briglia sciolta. Il dialogo epistolare permette di riflettere sulle cose che si debbono dire e serve egregiamente a dissipare equivoci, naturalmente quando i due interlocutori sono mossi dal desiderio di capirsi e di arricchirsi a vicenda, e non dal piacere di ferirsi come in un duello che deve finire necessariamente con la vittoria dell’uno e la sconfitta dell’altro. Di equivoci, invece, sono di solito fonte inesauribile l’intervista e il dibattito.
Prova ne sia che la prima parte della tua lettera è un seguito, o uno strascico, del dibattito torinese sulla riforma della Costituzione, in cui non abbiamo potuto chiarire reciprocamente il nostro pensiero, proprio per la natura stessa del dibattito, mentre il mio pensiero era già meglio chiarito – verba volant, scripta manent – nelle prime righe della prima lettera, ove dicevo che non contestavo affatto la tua proposta di un governo di unità nazionale per la riforma della Costituzione ma traevo da questa tua stessa convinzione la conclusione che la riforma per ora sarebbe stata rinviata sine die. Giacché tu poni il problema anche dal punto di vista della desiderabilità della riforma non credo che nei gruppi di maggioranza il desiderio della riforma sia tanto forte da rendere appetibile a breve scadenza un nuovo governo di unità nazionale. Ma se cade la condizione cade la conseguenza.
Infine, per porre il problema anche dal punto di vista della possibilità, come tu chiedi, non mi domando neppure se la riforma sia possibile o non. Mi limito a dire che non è credibile quella condizione che secondo te (e anche secondo me) la renderebbe possibile. Nel dibattito ho semmai aggiunto un altro argomento che mi pare non di poco conto e che dovrebbe toccarti personalmente: se non mi sbaglio, tu ti sei mosso sinora in una direzione diametralmente opposta a quella verso cui si sono mossi coloro, in primo luogo i socialisti, che hanno per primi sollevato il problema della riforma. Tu ti sei sempre battuto per la centralità del parlamento, i riformatori invece si sono posti il problema della riforma costituzionale allo scopo di rafforzare l’esecutivo. Si tratta del resto di un contrasto più che naturale tra chi sta permanentemente al governo e chi sta permanentemente all’opposizione: ognuna delle due parti tende a rafforzare la sede in cui può esercitare meglio la propria autorità. Un contrasto così grave dei punti di partenza non costituisce forse un ostacolo insormontabile a un’intesa per la nuova Costituzione?
Non ho neppure detto che si debbano lasciare le cose come stanno, tanto è vero che ho toccato il tema, come tu stesso riconosci, della riforma elettorale. Ho manifestato, questo sì, due gravi preoccupazioni che vorrei fossero prese in considerazione più di quel che si sia soliti fare. La prima: tutto quello che sinora è stato detto sul tema della riforma costituzionale ha avuto l’unico effetto di screditare o addirittura di delegittimare la nostra Carta costituzionale prima ancora che si avessero idee chiare e concordi su quali fossero gli errori da correggere e quali dovessero essere le linee di una Costituzione migliore; ne abbiamo avuto una prova quella sera stessa quando tutti gli interventi, tranne quello di Zagrebelsky, hanno trattato la nostra Costituzione come un pezzo di carta da buttare nel cestino, senza che peraltro ne sia venuta fuori una sola proposta da prendere sul serio.
La seconda: si sta creando nella gente l’illusione che, fatta la riforma, il nostro paese sarebbe risanato, e diventerebbe, come avrebbe detto Petrolini, «più grande e più bello di pria», mentre è certo che gran parte delle nostre magagne sono o fatti di costume (di malcostume) o hanno radici profonde nella storia e nel nostro (cattivo) carattere nazionale, e che gran parte dei cosiddetti vizi del sistema, dall’instabilità governativa al pessimo funzionamento della nostra burocrazia che invece di essere al servizio dei cittadini sembra talora essere al servizio soprattutto di se stessa, dipendono dal modo con cui si è venuto formando il nostro sistema dei partiti ed è venuto crescendo il nostro apparato amministrativo, della cui riforma si è sempre parlato senza che peraltro si sia rimosso un solo mattone del «castello». Per inciso: il processo di decisione e quello di esecuzione sono strettamente connessi: perfettamente inutile prendere decisioni se poi queste non vengono eseguite, o vengono eseguite male. Nella relazione Bozzi c’è addirittura un accenno alla «copertura amministrativa», problema tremendo, di cui non si offre però alcuna soluzione.
Ho parlato della riforma elettorale non perché creda sia più facile su di essa un accordo (sinora almeno tot capita tot sententiae) ma prima di tutto perché si stava discutendo il libro di Gianfranco Pasquino nel quale uno dei capitoli più provocanti e più originali è quello sul sistema elettorale e poi perché volevo far capire che, se sinora su questo tema i pareri sono discordissimi, è difficile aspettarsi un facile accordo sul resto. Se si può sperare in una riforma del sistema partitico e insieme in un espediente per il rafforzamento dell’esecutivo, il duplice effetto può essere soltanto il risultato di un cambiamento del sistema elettorale nel duplice senso di ridurre il numero dei partiti oppure di rendere più stabili le coalizioni. E allora, dicevo, cominciamo a riunire una commissione di esperti che faccia un bel repertorio di tutte le proposte avanzate sinora, e sono molte, e a tastare il terreno per cercare di capire qual vento spira e in quale direzione. Ho anche aggiunto che oggi l’estrema difficoltà di un discorso sul sistema elettorale dipende dal fatto che i partiti non possono più prendere le loro decisioni sotto quel «velo d’ignoranza» al riparo del quale si furono trovati al momento in cui il nuovo sistema si era messo in moto, e la soluzione più naturale era il sistema proporzionale che permetteva a ognuno di fare il proprio gioco e a tutti di misurare le proprie forze in una situazione di eguaglianza dei punti di partenza. Tanto è vero che non appena i risultati furono noti, e il velo d’ignoranza fu tolto, venne varata l’unica grande riforma elettorale di questi anni, la famigerata legge del 1953 sugli apparentamenti col premio di maggioranza, detta volgarmente ma non senza ragione «legge truffa».
Nonostante tutto, anche allora le previsioni sulla base delle quali la nuova legge era stata approvata si dimostrarono sbagliate e coloro che erano andati per suonare furono suonati. In una situazione ove i punti di partenza sono già di fatto diseguali e ognuno dei partner sa con una certa esattezza qual è la sua collocazione nel sistema, se riforma deve essere, ognuna delle parti sarà disposta ad appoggiare soltanto quella proposta dalla quale ha qualche probabilità di trarre vantaggio o di non essere svantaggiata. Ma siccome il calcolo dei vantaggi e degli svantaggi ognuno lo fa a modo suo, è prevedibile che ne verranno fuori tante proposte quanti sono i partiti.
Detto questo, e così ancora una volta si dimostra l’utilità del dialogo a distanza in confronto alle rapide battute di una discussione orale, non sono affatto contrario a prendere in considerazione qualche riforma essenziale, tra le quali, concordo pienamente con te e del resto io stesso ne avevo parlato in una intervista di qualche mese fa, mi pare urgente quella che riguarda il nostro assurdo bicameralismo.
Mi libero rapidamente del contrasto sorto tra noi sul tema della Costituzione perché, rispetto ai temi di fondo sul modo d’intendere la democrazia, è inessenziale per non dire accidentale. È un contrasto nel quale intervengono giudizi di opportunità, mentre il contrasto che aveva provocato le mie domande e alle quali tu rispondi nella seconda parte della tua lettera è di natura concettuale, ed è proprio quello che merita di essere sopra ogni altro chiarito avendo sinora diviso chi come te è nato alla politica in seno al Partito comunista e chi, come me, si riallaccia alla tradizione di pensiero liberaldemocratico.
Quali sono i termini di questo contrasto essenziale? A me pare che si possa presentare con le parole stesse con cui io lo avevo proposto nella mia lettera come contrasto tra democrazia di massa e democrazia di cittadini. Si tratta di due formule alternative che hanno conseguenze pratiche rilevanti oppure di due espressioni verbali il cui uso dipende unicamente dall’ambiguità e dalla mancanza di rigore del linguaggio politico? Rivelano queste due formule un’opposizione di principi oppure soltanto abitudini linguistiche in un universo in cui il linguaggio ha anche una forte funzione emotiva? Rappresentano un diverso modo di pensare o soltanto un diverso modo di dire? Ebbene, non c’è miglior modo per chiarire la natura di un contrasto che quello di affrontarlo con il proposito non già di avere ragione a tutti i costi ma con quello di dissipare, se ci sono, e ce ne sono sempre, gli equivoci. Con la tua lettera ci siamo messi su questa strada e te ne sono grato.
Una volta fissati i termini del contrasto principale, credo di poter dire che i tre punti su cui si è venuto svolgendo, a giudicare anche dalle tue risposte, sono i concetti di massa e di egemonia, e il principio di unità. Dico subito che rispetto ai due concetti un osservatore neutrale, come dovrebbe essere un giudice che si pone al di fuori e al di sopra delle parti, sarebbe tentato di osservare che del concetto di egemonia io ho dato un’interpretazione troppo riduttiva rispetto al significato positivo che ad esso viene attribuito nell’ambito della cultura comunista italiana, mentre del concetto di massa tu hai dato un’interpretazione troppo riduttiva rispetto al significato negativo che ad esso viene attribuito dalla cultura liberaldemocratica.
Che io abbia dato un’interpretazione eccessivamente riduttiva di egemonia, hai ragione. Però ciò che volevo dire e far capire era abbastanza chiaro all’interno di un discorso sulla natura della democrazia. All’interno di questo discorso mi premeva richiamare la tua attenzione sul fatto che in ultima istanza la prova del fuoco dell’egemonia è il consenso che si esprime in un sistema democratico attraverso l’esercizio del diritto di voto. Ho se mai dimenticato di dire, o l’ho detto solo di sfuggita, che, affinchè si possa parlare di egemonia in un sistema democratico, il consenso degli elettori deve essere confermato per un periodo relativamente lungo. Un partito che sia in grado di ottenere il suffragio della maggioranza assoluta o relativa, si dice nel linguaggio tecnico abituale non egemone ma a vocazione maggioritaria.
Però il punto di partenza è sempre il calcolo dei voti. Il giorno in cui la Democrazia cristiana perdesse la maggioranza relativa sta pur tranquillo che si direbbe che ha perso l’egemonia. Che la Democrazia cristiana abbia acquistato e mantenuto questa posizione egemonica mobilitando forze cattoliche al di fuori del partito o combinando alleanze con movimenti e istituzioni della società civile non toglie che la caratteristica che ne ha fatto il partito egemone sia esclusivamente la straordinaria continuità della sua forza elettorale. Non confonderei le cause per cui ha raggiunto quel risultato con il risultato, il modo con cui un partito cerca di ottenere il massimo consenso col consenso effettivamente ottenuto, che è quello soltanto che permette di distinguere il partito egemone in una determinata situazione storica dagli altri partiti, di cui alcuni si sforzano di sostituire la Democrazia cristiana nella conquista dell’egemonia, e ritengono che i loro sforzi siano da considerarsi riusciti se e quando avranno ottenuto di rovesciare i risultati elettorali in loro favore.
L’uso corrente nel linguaggio dei libri di scienza politica (di qua forse la mia interpretazione che può sembrare riduttiva) è di chiamare partito egemone quello che gode per un lungo periodo di tempo di un eccezionale consenso degli elettori. Con questo non voglio assolutamente attribuire un privilegio o una priorità all’uso linguistico della scienza politica, ma unicamente far osservare che quando si dice che la Democrazia cristiana è il partito egemone questo giudizio acquista un senso comprensibile se lo si pronuncia dando alle parole il significato che hanno ormai comunemente. Un discorso di scienza politica o che pretenda di essere scientifico (una pretesa che per quel che riguarda la scienza politica non ho alcuna difficoltà ad ammettere che è ben lungi dall’essere soddisfatta) deve appoggiarsi in ultima istanza a qualche dato verificabile, tanto meglio se è anche, come è il conteggio dei voti, misurabile. Quando Gramsci parlava di egemonia ne parlava nello stesso senso di conquista del consenso necessario alla conquista del potere, con la differenza che essendo un pensatore rivoluzionario non escludeva che il potere potesse essere conquistato, almeno in un primo tempo, con la forza, indipendentemente dal conteggio dei voti (uno di quei vincoli della democrazia di cui ho parlato nella lettera precedente e che il rivoluzionario può, dal suo punto di vista, non tenere in alcun conto).
Forse il punto più dolente è il concetto di massa. Chi si è formato principalmente sui classici del pensiero liberale e democratico recalcitra all’idea di una democrazia di massa, che fa pensare al demos esecrato di tutti gli scrittori reazionari, e richiama l’immagine della «piazza», su cui mi sono intrattenuto brevemente in un recente articolo sulla Stampa, contro il parlamento, in genere contro le istituzioni della democrazia rappresentativa. Se questo non è il significato che tu attribuisci all’espressione, non ho che da prenderne atto. Ma allora il contrasto rischia di essere soltanto verbale. Di fatto quello che tu descrivi come democrazia di massa quando parli della «trama dei partiti o della «rete dei sindacati», o dello «sviluppo di movimenti sociali», corrisponde esattamente a quello che nel mio linguaggio e nel linguaggio corrente si suole ormai chiamare democrazia pluralistica, ovvero quella forma di democrazia reale (non idealizzata) in cui i soggetti principali dell’azione politica sono i gruppi, organizzati e non.
Pur non comprendendo la necessità di chiamare democrazia di massa la democrazia pluralistica, la cosiddetta «poliarchia», mi limito a constatare che se questo è il significato che dai all’espressione, nulla quaestio. Non ho alcuna ragione di sollevare obiezioni anche quando subito dopo metti l’accento sul fatto che i partiti di oggi non sono soltanto una somma d’individui ma sono un insieme d’individui organizzati. Nell’idea di organizzazione a me pare che non ci sia nulla più di questo: un ordinamento, fatto di norme primarie e secondarie, che permette a più individui che vogliono stare insieme per raggiungere in modo coordinato un fine comune di prendere decisioni collettive vincolanti ovvero decisioni che vincolano tutta la collettività. Che sia necessario organizzare il consenso là dove gli elettori non sono più poche migliaia di cittadini privilegiati ma milioni di cittadini di tutti i ceti è evidente. Che questa organizzazione abbia trasformato i partiti da comitati elettorali in grandi e potenti organizzazioni permanenti è noto. Che questi grandi partiti organizzati siano stati chiamati partiti di massa in contrapposizione ai partiti di notabili, è corretto. Ciò che non mi pare né evidente, né noto, né corretto è il vedere in queste trasformazioni l’avvento di una democrazia di massa diversa dalla democrazia dei cittadini, ovvero da quel regime in cui i cittadini hanno acquistato il diritto di partecipare direttamente o indirettamente alla presa delle decisioni collettive, anche attraverso l’esercizio del diritto di associazione che è uno dei diritti riconosciuti in un sistema democratico o che fanno della democrazia una forma di governo diversa da tutte le altre, e anche, a nostro comune giudizio, preferibile.
In una democrazia rappresentativa il governo è fatto di rappresentanti dei cittadini anche attraverso l’organizzazione dei partiti. Non c’è posto in una democrazia correttamente funzionante per quella entità indistinta, informe e inafferrabile che è la massa o le masse, un’entità che fa pensare se mai proprio al contrario di un ente collettivo organizzato Lo stesso vale per le varie forme di democrazia diretta. Sconsiglierei di chiamare democrazia di massa quella che si esercita attraverso il referendum, il cui modo di decidere consiste nel sommare le preferenze individuali, in cui ciò che conta per il risultato finale è la somma aritmetica delle preferenze di ogni votante singolarmente preso.
Per quel che riguarda infine il tema dell’unità ho voluto mettere in particolare evidenza la tua proposta di governo unitario proprio perché credo che il periodo dell’«ossessione unitaria», per usare una tua espressione, sia da parte del Partito comunista conchiuso. E si capisce anche perché. Questa ossessione ha avuto, dagli anni della Costituente in poi (anzi, dalla fine del governo dei Comitati di liberazione nazionale), la sua principale ragion d’essere nella storica necessità in cui si è venuto a trovare il Partito comunista, di avere una legittimazione di partito democratico, dato che aveva avuto origine (un origine del resto non mai smentita) da un partito rivoluzionario, di non essere trattato da partito anti-sistema, come veniva considerato da accreditati politologi. Ora di questa legittimazione non avete più bisogno. Chi vi considera ancora un partito anti-sistema? Fate parte a pieno diritto da anni di quell’insieme di partiti che vengono chiamati dell’arco costituzionale.
Partito anti-sistema è di fatto quello i cui voti non vengono cercati per formare una maggioranza e quando vengono dati sono rifiutati o non vengono conteggiati. Sotto questo aspetto parlare del Partito comunista come di un partito anti-sistema sarebbe ridicolo. Voi costituite a pieno diritto un partito cui è riconosciuta la possibilità di far parte di una coalizione di governo qualora vi fossero le condizioni, indispensabili in un regime democratico, per tale evento, vale a dire che i risultati elettorali e una fortunata politica di alleanze vi permettano e permettano solo a voi e non ad altri, di formare una coalizione che goda della fiducia in parlamento. Se questo momento non è ancora avvenuto dipende dalle preferenze sinora dimostrate dagli elettori che vi hanno concesso un largo consenso ma non tale da darvi la maggioranza assoluta, oppure dal fatto che la vostra politica di alleanze non ha dato sinora risultati paragonabili a quelli raggiunti dalla politica di alleanze della Democrazia cristiana, che via via che perdeva voti riusciva (è sempre riuscita) a trovare un alleato in più (addirittura adesso ne ha quattro) e non ha avuto bisogno di allargare le proprie alleanze sino al Partito comunista, bastandole per governare quelle che ha.
Per governare non basta la maggioranza relativa che sembrava nelle ultime elezioni la vostra meta. Occorre una capacità di attrazione che oggi il Partito comunista non ha ancora. Rispetto agli altri partiti europei siete un partito molto forte, ma rispetto ai maggiori partiti socialisti e socialdemocratici, siete ancora un partito debole: un partito socialista o socialdemocratico che abbia il 30 per cento dei voti è considerato altrove un mediocre, mediocrissimo, partito di sinistra. Insomma ciò di cui il Partito comunista ha bisogno è sia di aumentare i voti sia di avere buoni alleati. Si tratta di due obiettivi che non hanno niente a che fare con la politica dell’unità.
Egemonia, società di massa, unità, tutto si tiene. Tutto si tiene in una concezione della democrazia che non è quella dell’universo politico in cui ci muoviamo. Sono concetti che a mio giudizio servono ormai poco a far capire e a orientare la pratica di un Partito comunista, come quello italiano, che non può essere che l’alternativa di sinistra; un’alternativa nell’unico senso in cui se ne può parlare in un regime democratico cioè come momento reversibile della dialettica tra maggioranza e minoranza.
Ho l’impressione che il Partito comunista abbia stentato a rendersi conto di questa elementare verità, soprattutto della reversibilità. È entrato, se pure con la grande forza popolare e il grande prestigio che gli veniva dalla partecipazione alla guerra di liberazione, in un sistema politico che non era il suo, la cui piena accettazione presupponeva una cultura, una tradizione, una dottrina che non erano le sue, con le quali non aveva mai avuto alcuna familiarità e verso le quali aveva mostrato diffidenza e ostilità, spesso anche un ostentato disprezzo durante gli anni della sua crescita come partito costituzionale. Non dubito che già da tempo si sia reso perfettamente conto che fra le tante peculiarità di cui trae vanto per considerarsi un partito diverso, questa è una peculiarità negativa: eppure ciò che affiora alla coscienza non è detto diventi parola pubblica. Non dubito che il prossimo congresso segnerà sotto questo aspetto, nel passaggio dalla coscienza alla parola pubblica, un passo avanti.
L’alternativa di sinistra non si può fare in Italia senza il Partito comunista, questo è certo. Ma il Partito comunista non può fare l’alternativa senza diventare sempre più simile ai partiti che hanno consentito nei regimi democratici europei alternative di sinistra. Per questo ritengo fermamente, e non da ora, che debbano essere dissipati tutti quegli equivoci che inducono ancora qualcuno a pensare che il Partito comunista abbia un’idea della democrazia diversa da quella che si è venuta formando in una tradizione di pensiero cui è stato estraneo e che anzi, irrompendo impetuosamente sulla scena della politica tradizionale di democrazia, di quella che io ho chiamato la definizione minima di democrazia in cui non trovano posto né il principio dell’egemonia né il culto delle masse né la strategia dell’unità a tutti i costi, vi sono tali e tanti problemi da affrontare e da risolvere che possiamo benissimo mettere da parte le nostre divergenze sui massimi sistemi e cominciare a discutere su quello che ci unisce e che unisce tutti coloro che guardano al di là della distinzione storica tra comunisti e socialisti, che ha fatto il suo tempo e non ha più alcuna ragione di essere, e ritengono si debba preparare la strada a una nuova alleanza.
Norberto Bobbio
Ingrao: Ma il voto da solo non basta
Roma, 30 gennaio 1986
Caro Bobbio,
tu parli di una scarsa desiderabilità della riforma istituzionale da parte dei partiti. Scusami se insisto: ma tu la ritieni desiderabile o no? Lo chiedo, perché mi pare di avvertire una contraddizione. Tu parli di un profondo degrado – al limite dell’insostenibilità – della pubblica amministrazione; convieni con me sull’assurdità dell’attuale sistema bicamerale e sull’opportunità di una riforma; sostieni che l’attuale sistema elettorale moltiplica eccessivamente i partiti e rende difficili le decisioni. Chiami in campo dunque il sistema di rappresentanza; l’organizzazione del parlamento; gli apparati di decisione. Ti pare poco? Vedo che proponi, a scopo di conoscenza e di ricerca, di incaricare una commissione di esperti per censire l’opinione dei diversi partiti sulla riforma del sistema elettorale. Ma il censimento è già stato fatto. È stata la commissione Bozzi. E il risultato è stato deludente, perché legato a quel metodo dei «due tavoli» che è del tutto incongruo ai fini della riforma, e rispetto al quale nessuno si sentiva garantito, nessuno si scopriva. La riforma non era assunta come il soggetto centrale dell’iniziativa politica e posta come la condizione per sbloccare la dialettica democratica, e per dare vita reale a un confronto alternativo, e alla possibilità stessa di una alternativa.
A conclusione della tua lettera, tu ti auguri che proceda la ricerca fra di noi per dare vita, se capisco bene, a una alternativa di sinistra. Ma come è possibile un tale sbocco, se mancano le condizioni strutturali non solo per rompere la conventio ad excludendum, ma per far passare strategie politiche alternative? Ammettiamo per un istante che il Partito comunista riesca a superare la soglia che gli preclude la strada e con altri partiti riesca a far parte del governo del paese. Dico con tutta franchezza che – per quanto nuovo possa essere un tale esito – per me esso non è sufficiente, da sé e di per sé, a dar vita a uno sbocco alternativo, se difettano le istituzioni e le strutture per avviare una innovazione reale di contenuti rispetto alle politiche seguite sinora.
Ecco perché il problema è attuale, di oggi, e condizionante. E mi chiedo: come, senza questa iniziativa?
In un passo della tua lettera, tu dai come causa del degrado attuale (non hai parlato tu stesso, giorni or sono, di abbrunare la bandiera nazionale dinanzi alla vergogna della mafia, dell’esistenza di uno Stato nello Stato?) il malcostume e il carattere nazionale, e il modo con cui si è venuto formando il nostro sistema dei partiti. E non sarò io a contestare cause di questo tipo. Direi però che esse sono fonte della nostra debolezza dinanzi a processi che sono del tutto nuovi, e che stanno investendo, per esempio nel cuore della stessa Europa, strutture, edifizi nazionali ben più robusti di quello italiano. È un vento internazionale quello che soffia sulle piazze, sulle darsene, sulle roccaforti industriali, sui santuari finanziari dell’antichissima Europa.
Discutendo sul passato e sull’avvenire del Partito comunista italiano, sembri anche tu augurare che si compia presto e finalmente la sua omologazione al volto e alle pratiche dei partiti socialisti e socialdemocratici occidentali.
Fosse così semplice! In realtà quei partiti stanno vivendo tutti un travaglio profondo: dalla Spd tedesca al Labour Party, a Mitterrand, alla socialdemocrazia svedese, ai più giovani partiti di Papandreu e di Felipe Gonzales. E si sono trovati a fare i conti con un mutamento sociale e con un’offensiva neoconservatrice, che ha dato una dura, pesante spallata alle strategie di Stato sociale e alle politiche neocorporativiste, su cui quei partiti socialdemocratici avevano tessuto la loro tela per un trentennio (e anche oltre il trentennio). E consentimi di dire che le politiche di welfare già guardavano al di là della cultura liberaldemocratica, a cui tu ci solleciti a omologarci.
Quando mi ostino a porre il tema della riforma istituzionale, io guardo a questo presente di crisi. Cerco di immaginare le strutture, le regole, i metodi con cui fronteggiare le trasformazioni di scala mondiale che stanno scardinando prerogative e recinti sacri degli Stati nazionali, e omologando – esse sì – intere fasce del mondo. Tu dici cose suggestive sulla «democrazia dei cittadini». Ma che cosa ne è di questa democrazia, nel momento in cui l’ospite televisivo, con la parola, con l’immagine, con la grazia della musica, entra chiamato da noi e messo al posto d’onore nelle nostre case, e incide fin dall’età più tenera sul nostro sapere, sul nostro costume, sulle nostre convinzioni politiche, sulla nostra sete di fantastico? Che succede dei nostri diritti di conoscenza, di libertà, di cittadinanza se un ospite così suggestivo è lo strumento di potenti oligopoli operanti e dominanti su scala mondiale? E parlo di problemi inediti, perché, mentre non ci piacciono affatto le soluzioni attuali del nostro paese, abbiamo imparato dalle esperienze dell’Est quali altre pesanti questioni di libertà, di efficienza, di iniziativa si troverebbero a derivare da una risposta semplificante e totalizzante, che volesse mettere tutto nelle mani accentratrici degli apparati di Stato.
Perché dovrei pensare che processi così profondi e sconvolgenti non pongano questioni di riforma e di aggiornamento della Costituzione? E perché dovrei credere che tali questioni siano indifferenti a forze politiche che sono diverse sì da me ma che sono chiamate a misurarsi con le domande del paese, con i traumi e gli sconvolgimenti di questa così assillante mutazione di fase? lo non sono molto generoso nel giudizio verso le forze politiche che vedo sulla scena, ma non posso pensarle inerti di fronte a mutazioni che hanno questa portata. Devo, voglio scommettere su una loro capacità di reazione. Altrimenti, se dovessi vederli solo come rami secchi, o gruppi chiusi in un gioco partitocratico al di fuori e al di sopra delle vicende della nazione, dovrei giungere a conclusioni assai più drastiche.
Forse alcune differenze di giudizio fra noi due dipendono dal fatto che io non so vedere questi anni prossimi come un’epoca di stabilizzazione. E anche la riforma istituzionale non mi pare una questione eventuale del futuro, ma un processo già in atto, un conflitto già aperto, dove rilevanti, massicce redistribuzioni di potere stanno già avendo luogo. Ho parlato prima di ciò che accade nel campo dell’informazione. Potrei ricordare le inedite concentrazioni di cultura e di potere che stanno determinandosi nel campo degli apparati militari. E già nella mia lettera precedente alludevo alle teorizzazioni e strategie di autocrazia della grande impresa, che stanno chiaramente profilandosi nel nostro paese, lacerando tutto un tessuto di relazioni industriali.
Vengo qui allora alla nostra discussione sulla democrazia di massa (questo termine che ti suscita quasi una repulsione). Per me è già importante l’affermazione che tu fai, quando consenti che i partiti di oggi non sono soltanto una somma di individui ma un insieme di individui «organizzati», «al fine comune», come tu scrivi, «di prendere decisioni collettive vincolanti, ovvero decisioni che vincolano tutta la collettività». Dove questo associarsi politico collettivo avviene in modo democratico, e non autoritario, io lo chiamo «democrazia di massa», a sottolineare l’espansione enorme – non solo come quantità, ma come qualità dell’iniziativa che sollecita – che ha avuto questo tipo di aggregazione sociale. Non piace la parola «massa»? È un fatto che essa oggi è un termine di larghissimo uso in tutta una letteratura imponente, che non saprei escludere dalla scienza politica.
Ma non conta il nome. Conta il processo che esso indica: il fatto che nel nostro tempo l’individuo, per essere individuo, e persino per contare come elettore ha dovuto costituirsi in associazione, ed è attraverso questo associarsi che ha potuto – a partire da un certo tempo – affermare la sua individualità politica. E noi oggi se vogliamo cogliere questo farsi cittadini siamo sempre più chiamati ad analizzare e conoscere la trama di queste associazioni, il loro intreccio e le loro specifiche peculiarità, il loro sorgere e il loro decadere, e le interrelazioni che corrono tra di loro. È impossibile fare la storia della politica nel nostro tempo senza fare la storia di questi rapporti: e la dimensione che questa trama assume, ne segna le peculiarità. Se mettessimo tali dimensioni in parentesi, per così dire, ci sfuggirebbe la fonte e la forma di processi fondamentali.
Temo che il problema torni, quando veniamo a discutere sul concetto di egemonia. Non vedo come questo concetto possa essere ridotto al l’acquisizione di un consenso elettorale sia pure di lunga durata. Il consenso elettorale è un momento importantissimo dell’egemonia, ne segnala la presa e la forza, ma non la esaurisce. L’egemonia non si esprime solo nel votare. E chiede molto di più (non solo quantitativamente) del voto: domanda una convinzione generale. Comporta resistenza di una trama di influenze sociali e culturali, che esigono apparati, strutture, relazioni di lunga prospettiva. In Gramsci la conquista del potere comportava rapporti e nessi ben più ampi e complessi di un consenso elettorale: sia come visione generale, sia come strumentazione di relazioni, e incontro su obiettivi concernenti l’insieme del quadro e del processo sociale e politico, almeno per tutta una fase.
Insisto su questo punto, perché qui sento che emerge una differenza non piccola, che forse ha carattere generale. Rileggendo la prima e la seconda lettera tue, mi pare di cogliere un’enfasi su l’identificazione tra democrazia e fatto del voto: fatto quantificabile, misurabile (come tu dici) che permette al principio di maggioranza di funzionare, io comprendo anche lo spirito – lasciamelo dire – «pedagogico», che tu probabilmente senti, parlando a chi come me viene da una sponda che ha qualche peccato quanto alla valutazione data (o non data) della libertà di voto. «Democrazia minima»: dici tu. Ma anche quel livello minimo (eguaglianza formale nella libertà di voto) può realizzarsi, senza chiamare in causa tutta una serie di condizioni, che riguardano libertà di voto, modalità di voto, contenuti del voto, conseguenze del voto, attuazione del voto?
L’atto è quello. Ma il quadro – sociale, politico, statuale – entro cui esso si svolge è decisivo, perché esso possa essere non dico esaustivo, ma significante. Per «minima» che sia la democrazia, quel voto ha bisogno di un «prima» e di un «poi» che gli diano verità. Altrimenti la forma dell’uguaglianza rivela il suo limite, la sua debolezza di contenuto.
Vorrei essere inteso bene. Per essere nato sotto il fascismo, ho imparato per esperienza il valore che ha quel dato: voto libero, per fragile e limitato che esso possa essere. Ma quanta varietà e complessità di contenuti, di condizioni, di sfumature hanno quelle due parole: voto libero; e in particolare quell’aggettivo «libero»! Soprattutto nel momento in cui esse diventano esperienza concreta di milioni di esseri umani, quale latitudine prende la questione delle condizioni materiali, dell’organizzazione dei saperi, della mediazione degli interessi, delle strutture organizzative!
Allora, quel dato «voto libero» si presenta non come un qualcosa di conchiuso ma come un terreno espansivo e fluttuante, dove si misurano e si differenziano le dinamiche di concrete organizzazioni collettive, e – sì – la loro capacità di relazione ed egemonica. L’uguaglianza formale nel voto, prima di essere un dato, si presenta come un obiettivo, che – a seconda dei luoghi e dei tempi – si definisce in modo diverso, e si articola progressivamente. C’entra insomma tutto lo spessore della politica. Si apre tutto lo spettro largo dell’espansione della democrazia in democrazia sociale. E se no, perché staremmo, ancora oggi, ad adoperare quella parola: «socialismo»?
Altrimenti, credimi, la questione del Partito comunista italiano diventa un rebus. E lasciami dire che qualche cosa di inspiegato, resta anche nelle righe di questa seconda lettera, in cui tu – pure così amichevolmente – ne parli. Cito testualmente le tue parole: «È entrato (il Partito comunista), seppure con la grande forza popolare e con il grande prestigio che gli veniva dalla partecipazione alla guerra di liberazione, in un sistema politico che non era il suo, la cui piena accettazione presupponeva una cultura, una tradizione, una dottrina che non erano le sue, con le quali non aveva mai avuto alcuna familiarità e verso le quali aveva mostrato diffidenza e ostilità, spesso ostentato disprezzo durante gli anni della sua crescita come partito costituzionale».
So quanto è difficile riassumere in poche righe tutta una fase della storia di un partito. Eppure in queste righe resta un che di assolutamente «misterioso»: com’è possibile che un partito entri improvvisamente in un sistema che gli è così radicalmente estraneo, con la forza, l’autorevolezza, la ricchezza di contributi che sono stati propri del Partito comunista? E si può dire che il Partito comunista «è entrato» in questo sistema, o non piuttosto che ne è stato uno dei coautori, protagonista delle pagine che compongono la Costituzione repubblicana?
Com’è possibile questa immissione, così brusca e incongrua? Si può spiegare solo con il grande prestigio conquistato dal Pci nella guerra di liberazione? Ma si può presentare la stessa guerra di liberazione come un fatto a parte ed estraneo alla costruzione del regime democratico che poi si formò? Sarebbe assurdo.
E allora – mi sembra – se non vogliamo andare a spiegazioni bizzarre e meccaniche, dobbiamo ammettere che il Partito comunista non era estraneo alla questione democratica. A guardar bene, il suo stesso ruolo nella guerra di liberazione era stato così forte perché già il Pci dava una lettura incisiva e originale della questione democratica, e del nesso fra questione democratica e questione nazionale: per intenderci non in termini di restaurazione del passato liberal-democratico, ma di innovazione («antifascista», si diceva allora) di strutture, e di apparati, di culture, in una prospettiva espansiva della democrazia.
Vorrei essere inteso bene. Mi conosci e sai che non sono incline a forme apologetiche; e non voglio affatto mettere la sordina alle aporie di un cammino che è stato lungo e tormentato. Voglio solo affermare che il contributo concreto, vorrei dire pratico, dato dai comunisti alla costruzione dello Stato democratico italiano non è spiegabile fuori da un impegno di reinvenzione della questione democratica, in quell’Europa in cui, a cavallo fra due guerre mondiali, si erano dispiegate la crisi terribile del mondo e della cultura liberal-democratica, e la catastrofe del cedimento dinanzi al fascismo. Si trattò della vita di milioni di esseri umani, della sorte di interi continenti, della nuova struttura del mondo. Perciò non poteva trattarsi di restaurazione liberal-democratica, ma di una rifondazione dove entravano in campo movimenti e culture emersi dai bagliori di quelle catastrofi.
Può essere strano, ma non è forse un fatto significativo che la Costituzione repubblicana abbia avuto come protagonisti principali il Partito comunista e la Democrazia cristiana, cioè due soggetti che non venivano dalla sponda e dalla cultura liberal-democratica? Perciò non può trattarsi oggi di un’omologazione a modelli del passato, ma di una ricerca creativa comune. E io raccolgo volentieri le parole aperte con cui tu chiami a questa ricerca comune oggi.
Pietro Ingrao
(28 settembre 2015)
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