Si sarebbe potuto trattare, quasi, di una vendetta degli dei. Alla scoperta del Dieselgate, lo scandalo delle emissioni truccate in milioni di macchine diesel della Volkswagen, tutti speravano, ad Atene, che avesse partecipato una ricercatrice greca: si tratta di Anna Stefanopoulou, che da anni, ormai, lavora presso l’università americana del Michigan.
Per un paio di giorni la notizia è rimbalzata con entusiasmo incontenibile sul web, e su molti siti e giornali, finché la Stefanopoulou ha chiarito di non essersi occupata della vicenda (anche se sarebbe potuta essere di sua competenza), dal momento che l’analisi dei dati delle macchine della casa tedesca è stata fatta in un’altra università, quella della West Virginia.
Tutto ciò è indicativo, tuttavia, dell’atteggiamento che caratterizza molti greci riguardo alla ben nota vicenda delle emissioni di gas di scarico che sono state truccate.
E non è un caso che il portale di notizie tvxs.gr rilanci con enfasi la valutazione di molti economisti, secondo la quale «lo scandalo in questione minaccia il paese con conseguenze molto più pesanti della crisi greca, dal momento che la posta complessiva in palio è sicuramente più alta».
Sono praticamente inevitabili i riferimenti alla «supponenza della Germania», e alla figuraccia che ha fatto proprio uno dei fiori all’occhiello della sua industria. Ma non è tanto, o non è solo questo. Molti greci, nei loro discorsi, in questi giorni, fanno riferimento anche a qualcosa di più profondo: al fatto, cioè, che nei casi in cui vengono a galla responsabilità che coinvolgono la società, la politica o l’economia del paese, i tedeschi tendono a rimuovere, negare, o non accettare la realtà.
Una parte della stampa ha cercato di minimizzare lo scandalo, così come la grandissima parte della classe politica del paese si rifiuta di discutere delle richieste greche riguardanti le restituzioni della seconda guerra mondiale. Una questione che alla fine della guerra venne rinviata alla riunificazione della Germania, e che dopo il crollo del Muro, ovviamente, a Berlino non è stata mai affrontata.
Anche se si tratta di due vicende storicamente lontane, è chiaro che mettono entrambe in gioco la capacità di guardarsi dentro, di fare autocritica, di riconoscere i propri errori. E non solo quella di fustigare i popoli mediterranei che sono stati scelti come capri espiatorii per cercare di far passare regole e leggi (vedi l’abolizione dei contratti collettivi di lavoro e il depotenziamento drammatico dei sindacati) che a casa propria non si accetterebbero mai.
Quanto alle reazioni più leggere e spiritose, c’è da scommettere che per la prossima visita della cancelliera o di un suo stretto collaboratore ad Atene, ci sarà chi saprà ricordarle questa sorta di doppia morale. «Alla fine, forse è meglio truccare i conti che le emissioni dei gas di scarico», «In Europa nessuno è un santo, ma qualcuno voleva fare solo il furbo», si legge, in questi giorni, nei post di numerosi commentatori greci.
«Il conto alla rovescia per l’indebolimento del gigante che domina l’Europa attraverso la feroce austerità, sembra essere già iniziato» scrive sul sito altsantiri.gr l’analista politica greca Katerina Akrovopoulou, tra i volti televisivi più noti. «Tra poco ci sarà molto da ridere». Secondo la Akrivopoulou, «la Germania ha creato l’Euro per trarne essa stessa dei vantaggi» e «ha rovinato un paese — la Grecia — con memorandum, colpi di stato e un atteggiamento vendicativo nei confronti del governo di Syriza, perché ha osato risponderle».
La soddisfazione dei greci per le ultime vicende è quindi innegabile, se non altro perché è finita, o si è interrotta, la martellante colpevolizzazione di un intero popolo. Ma è un sorriso che, per forza di cose — visti i disastri combinati dell’austerità — non può che essere velato dall’amarezza.
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