giovedì 24 aprile 2014

La polizia violenta non appartiene allo Stato.

Scontri con gli agenti e guerriglia urbana riportano all’attenzione pubblica un dibattito difficile, quello sui limiti delle Forze dell’ordine. Quali sono e perché vanno rispettati. Marco Preve, autore di “Il partito della polizia” (Chiarelettere), descrive il sistema trasversale che minaccia la democrazia.

micromega di Rossella Guadagnini

“Non sono contro la polizia, ne ho solo paura”. Parola di Alfred Hitchcock. E se lo diceva lui, riconosciuto maestro del brivido, qualcosa vorrà pur dire. Possiamo fidarci della polizia e di quella italiana in particolare? Vediamo come si può rispondere.

Versione A. “Quel poliziotto è un cretino, va punito”. A parlare è il capo della Polizia, Alessandro Pansa. Commenta l’immagine di un poliziotto in borghese che calpesta il fianco destro di una ragazza a terra, tenuta ferma da un altro agente insieme a un ragazzo. Deborah, 22 anni, era in corteo con Andrea, 20 anni, che l’ha difesa facendole scudo col suo corpo; dell’uomo che l’ha aggredita ha poi detto: “Non posso perdonarlo”. E riferisce che avrebbe detto: “Siete gente di merda”.

Versione B. “Azioni come quelle che portano al lancio di colli di bottiglie spaccate contro i poliziotti, di biglie e monetine, sampietrini e bulloni, sono molto più significative dell’eventuale errore di un poliziotto che si fa 10-12 ore di servizio continuativo e che diventa il capro espiatorio di una manifestazione”. Saturno Carbone, segretario generale del Siulp di Roma difende l’agente che scambiò la manifestante per uno zainetto.

Versione C. “E’ terribile. Gli agenti non possono picchiare così”. Filippo Bubbico viceministro dell’Interno con delega alla Pubblica sicurezza, commenta le immagini di “quel poveretto a terra con la maglietta bianca” preso a manganellate in testa e a calci. E’ un altro degli episodi clamorosi avvenuti sabato, 12 aprile, alla manifestazione romana dei Movimenti per la casa. Oltre a quello della ragazza calpestata da un artificiere di 45 anni, che si è presentato il lunedì seguente in questura autodenunciandosi e dicendo che non si era reso conto. “Sono io quello del filmato”, ha affermato, ma la sua identità rimane segreta. “La polizia deve agire diversamente – conclude Bubbico – Non può mai essere messa in discussione l’integrità fisica delle persone”.

Tre dichiarazioni a confronto sugli stessi fatti, espresse da tre rappresentanti delle istituzioni. Censura e condiscendenza; rabbia e difesa corporativa; sconcerto e meraviglia. Sono le emozioni che hanno scosso non solo i protagonisti di questi eventi, ma anche l’opinione pubblica stavolta in prima fila per via dei filmati resi pubblici. Forse senza nemmeno volerlo. Ma eravamo tutti là. Le immagini nitide ed esplicite sono passate e ripassate in tv, in rete, sui social network. La foto shock dei due ragazzi schiacciati per terra ha fatto il giro del mondo.

Come ci può essere una simile divergenza nel valutare gli avvenimenti? Perché “le cose” si sono viste, eccome. I pestaggi, la violenza, l’intimidazione, la forza, la rabbia, la paura. E’ stato un giorno di guerriglia urbana a Roma, durante il corteo dei 20mila, tra Movimenti per la Casa, No Tav, No Muos, antagonisti vari, ma anche Rifondazione, Cobas e sigle dell’estrema sinistra, che si erano dati appuntamento a Porta Pia per la prima manifestazione contro il governo Renzi. Poi la guerra è passata sui mezzi d’informazione. Non è andata molto diversamente il mercoledì seguente, 16 aprile, a causa dello sgombero di un edificio occupato in zona Montagnola, a seguito di un ordine della magistratura a cui la polizia dava esecuzione. Anche qui aggressioni, botte, feriti. Certo nessuno si aspettava un ‘un pranzo di gala’.

Versione D. Ma per qualcuno la manifestazione del 12 aprile è stata un successo. “Sì, un successo. Sfido chiunque a dimostrarmi il contrario. Davvero vogliamo giudicare quello che è accaduto in piazza da pochi fotogrammi?”. A parlare stavolta è il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, dopo gli scontri della Montagnola. “Ora basta, sono i poliziotti le vere vittime”. La sua posizione è: un agente prende 1200 euro al mese e si trova in balia dei manifestanti, che possono essere tali grazie alla presenza dei poliziotti, i quali sono lì a garantire proprio il diritto a manifestare.

Intanto, il presidente della Commissione parlamentare dei Diritti Umani, Luigi Manconi, chiede il codice di identificazione per carabinieri e poliziotti. “Sono troppe le illegalità commesse negli ultimi 15 anni da militari chiamati a gestire l’ordine pubblico”. E il 17 maggio si replica: è prevista nella capitale una manifestazione sull’acqua pubblica, a cui parteciperà anche il Movimento per la casa. Che accadrà allora, come andrà a finire?

Versione E. “Sto con la Polizia, stop a scontri e saccheggi o chiudo il centro di Roma”. Punta il dito contro i protestatari violenti il ministro dell’Interno Angelino Alfano, dichiarandosi contrario all’identificativo per le Forze dell’ordine. A lui si uniscono rappresentanti politici del centrodestra, i sindacati di polizia Siulp e Sap, i commercianti di Confesercenti. “La Polizia è un corpo sano, nel momento in cui c’è uno che sbaglia se ne occuperà chi se ne deve occupare”, precisa Alfano.

Ma è davvero così? I nomi di Giuliani, Uva, Sandri, Cucchi, Aldrovandi e Shalabayeva non dicono questo. Raccontano una storia diversa fatta di sopraffazioni, e violenze ingiustificate a opera di chi è chiamato a difenderci. Una storia di abusi coperti da falsità e bugie nel tentativo di nascondere e proteggere i veri colpevoli. Perché giustificare, tollerare, consentire tutto questo? Che accade alla nostra Polizia, corpo del quale dovremmo andare fieri, il cui motto storico è “sub lege libertas”, cioè qualcosa che suona come sotto il segno della legalità c’è la libertà?

Indossare una divisa non significa essere autorizzato a travestirsi da giustiziere armato. “La polizia ha sempre funzionato come termometro della democrazia” spiega Marco Preve, autore di un saggio appena uscito per Chiarelettere, intitolato “Il partito della Polizia”. “Più è presente in una società, meno quella società è libera e democratica. Nessuno Stato può fare a meno della polizia: ad essa è affidato l’ordine pubblico, la difesa della proprietà privata, l’incolumità delle persone. Il sacrificio di una piccola porzione di libertà individuale vale la pena se, in cambio, tutti si sentono più sicuri. A patto che, attraverso le istituzioni, la società sia in grado di controllare l’operato dei poliziotti e riesca a intervenire laddove emergano degli abusi”.

“Nessun abuso, infatti, può essere commesso contro cittadini inermi – prosegue il giornalista – Se non è così, i responsabili devono saltare. In Italia ciò non è avvenuto. E continua a non avvenire, dai tempi delle torture alle Br fino alle morti di Cucchi, Aldrovandi, Uva e molti altri: la polizia non garantisce la sicurezza, la politica non sorveglia, la stampa non sempre denuncia, la magistratura non sempre indaga”.

Perché questa anomalia lo rivela Filippo Bertolami, vicequestore e sindacalista di polizia. “Negli ultimi anni si è assistito al paradosso di un sistema capace da un lato di coprire e premiare i colpevoli di violenze e insabbiamenti, dall’altro di punire chi ha ‘osato’ mettersi di traverso”. Imputati. Condannati. Premiati. A vincere è la paura. Il partito della polizia è “troppo forte, troppe protezioni politiche a destra e a sinistra –ricorda Preve – da Berlusconi a Prodi, da Violante a Renzi. De Gennaro, ad esempio, è diventato presidente di Finmeccanica e i suoi collaboratori non si toccano. Troppe onorificenze, troppe amicizie, anche tra i media. Intanto le auto rimangono senza benzina e gli agenti continuano ad avere stipendi da fame, mentre vengono assegnati appalti miliardari”.

Il partito della polizia è anche il partito degli affari. “Se non c’è una cultura del diritto in chi orienta il pensiero collettivo – sostiene il criminologo Francesco Carrer – mi chiedo come possa nascere in un corpo di polizia i cui vertici sono più attenti ai desiderata dei politici che alle esigenze di chi è in prima linea”. Un ragionamento che, volenti o nolenti, non fa una piega.

“E’ successo che i gruppi che hanno controllato e controllano i vertici del Dipartimento della pubblica sicurezza hanno potuto permettersi o consentire ai loro fedelissimi, comportamenti al di sopra delle regole e delle istituzioni. E questo –riassume Preve – nonostante una ‘base’ sicuramente non collusa, in molti casi insofferente e addirittura vittima di questa gestione”. E fissa un discrimine: tutto questo è potuto accadere a partire dal 21 luglio 2001, la notte della macelleria messicana della scuola Diaz.

Il principale difetto della nostra polizia è la presunzione, secondo Carrer, che al tema ha dedicato numerosi studi, da “La polizia nel Terzo Millennio” (Franco Angeli, 2006) a “Le patologie della legge 121” (stesso editore 2013). “Se ci pensiamo bene sottolinea il criminologo – la presunzione spiega tutto. Ogni paese ha la polizia che si merita e, comunque, che è stato capace di darsi. Il che sarà democratico, ma garantisce risultati prevedibili”.

(22 aprile 2014)

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