Non è affatto facile liberarsi delle strutture di potere e rompere una relazione di dominio. Chi accetta la violenza e lo sfruttamento spesso ha paura di perdere tutto oppure teme per la propria incolumità.
jacobinitalia.it Dario Firenze Marie Moïse
C’è qualcosa che accomuna le relazioni oppressive, qualsiasi sia la loro natura. Le relazioni basate sulla violenza e lo sfruttamento, una volta intraprese, sembrano sancite da una promessa di matrimonio indissolubile – finchè morte non ci separi. Forse in origine le abbiamo scelte, o così ci è sembrato, ma una volta aperta la porta di una dinamica abusiva (un marito, un datore di lavoro, un genitore, un ministro di governo) ci si chiude alle spalle e la maniglia sparisce. Si trasforma in un muro, come se fosse sempre stato lì a segnare l’inizio di tutto.
Quando la porta si chiude non ce ne accorgiamo. Le relazioni oppressive non sono un’eccezione in questo mondo, ma la norma, la struttura. Ecco perché l’abuso non somiglia a qualcuno che ti scaraventa in una pentola d’acqua bollente, ma a chi riscalda l’acqua a fuoco lento mentre sei immersa in tranquillità. Il caldo a poco a poco ti raggiunge, ti porta via le forze una per volta, e mentre la temperatura si alza gradualmente le energie si consumano adeguandosi alle nuove condizioni di quiete apparente.
Io desideravo solo un sguardo gioioso, un’armonia delicata, un abbraccio sincero, un orizzonte sull’oceano dove trovare non soltanto illusioni.
L’oppressione ci accerchia lentamente, tracciando spire sempre più strette. Le fasi si susseguono ciclicamente e maggiore è la frequenza con cui si presentano, minore è la distanza di tempo tra una e l’altra: (1) crescita della tensione, (2) apice del maltrattamento, (3) riconciliazione (Giuliana Ponzio, Crimini segreti, Baldini Castoldi Dalai, 2004).
1. Crescita della tensione
In una relazione asimmetrica, in cui il potere è sbilanciato dalla parte opposta alla nostra, si cammina sulle uova: ogni passo di chi è senza potere può romperne una. Devi far contento l’altro. La moneta di scambio è la tranquillità. Eppure si registra un lento peggioramento della situazione, si intensifica un’atmosfera di tensione, le forme di prevaricazione passano dalle intimidazioni alle minacce, prima in tono apparentemente scherzoso poi sempre più serio. I ritmi accelerano, le aspettative aumentano, i rischi di deludere pure. Si evitano le mosse che rischiano di compromettere il precario equilibrio e si cerca di disinnescare la tensione anticipandone l’innesco.
Non gli chiedevo mai quando avrei ricevuto lo stipendio, non volevo sembrare poco coinvolta dal lavoro; ho rinunciato alle pause, alle ferie, alle amiche, al tempo libero; ho iniziato a segnare solo la metà delle ore che facevo: volevo farlo contento di me. Per evitare le sue urla appena entrato in casa gli facevo trovare tutto pronto in tavola, e dopo che mi ha messo a fare il turno di notte, ho sempre accettato col sorriso ogni sua richiesta di fare gli straordinari. Quando per scherzo diceva davanti a tutti i suoi amici che non valevo niente, mi sentivo così piccola; ho provato a stupirlo davanti a loro per farlo smettere, ma quando mi ha vista truccata si è inalberato, ha pensato che volessi piacere ai suoi amici e non a lui. Se la produzione era troppo bassa non eravamo abbastanza competitivi, allora alzavo la leva di sicurezza e lavoravo senza, ma quella volta che ho rischiato di perdere un dito mi ha urlato addosso così forte che mi son sentita in colpa, e in ospedale ho raccontato di un incidente domestico. Quando mi ha spinto giù per scale di casa, ho raccontato di un incidente per strada.
2. Apice del maltrattamento
Quando la tensione scoppia, non è mai un fulmine a ciel sereno. Le continue strategie di sopravvivenza messe in atto da chi subisce orientano il dominante verso nuove vie per aggirarle. L’esplosione della tensione le svuota di senso, disorienta, rende evidente la vanità degli sforzi fatti. Eppure è raro che in questa fase si delinei l’opzione di fuoriuscire dalla relazione oppressiva. L’oppressore è di fronte alla spietatezza del suo agire e proprio qui prende forma l’illusoria speranza che possa finalmente cambiare.
Mi ha sentito urlare come non avevo mai fatto prima, si sono affacciati anche i vicini. Mi ha raccolto da terra in una pozza di sangue e per la prima volta mi ha chiesto scusa. Ci ha riuniti tutti davanti al suo ufficio, si è detto addolorato di dover lasciare a casa la metà di noi, eravamo un pezzo della sua famiglia. Ha espresso pubblicamente la sua costernazione per la morte del nostro collega, ci ha detto che, parola sua, non sarebbe accaduto mai più. Ho avuto paura che ci arrestassero tutti appena ho visto la polizia, lui ci ha fatto scappare dal retro, mentre in sala è rimasto solo chi aveva il contratto. Avevo il cuore in gola e l’umiliazione a fior di pelle. L’ho pregato di mettermi in regola e in quell’attimo prima di tornare alla routine, ho visto i suoi occhi luccicare. E ho ricordato i giorni della nostra prima estate insieme, quando mi sentivo la persona più fortunata del mondo a ricevere le sue parole d’amore. Son tornata a vederlo piangere, sembrava che fossimo tornati in sintonia nel capire che non poteva più andare avanti così. Abbiamo pianto abbracciati. E l’ho visto soffrire come noi, da dietro quello schermo, per averci chiesto quel sacrificio. Se dentro quel cuore ancora batte umanità, ho pensato, questa è l’ultima volta che accade. Ho sperato, desiderato con tutta me stessa che finalmente potesse cambiare.
3. Riconciliazione
Dopo l’apice di tensione, il dominante assume, anche se per poco, un atteggiamento premuroso e attento. In quel breve lasso di tempo, tornare a sperimentare la serenità e la tenerezza nella relazione alimenta nella persona oppressa la percezione di un cambiamento. Il sollievo che ne deriva ha un effetto compensativo sulle esperienze negative appena trascorse. L’oppressa allora si mette in discussione per aver dubitato del suo oppressore. Riattiva le energie per contribuire al rapporto, fino a sentirsi di nuovo l’artefice, o meglio la responsabile. L’aver sopportato conferma la principale virtù della persona che subisce: la disponibilità e la sollecitudine di cui è capace nella relazione che la opprime.
Io ci ho sperato a lungo, e la speranza mi ha tenuta in piedi. Ci ho sperato la volta dopo, e quella dopo ancora e ancora. Più mi ha spossessato, più mi son sentita sola, più ho avuto paura di perdere tutto e più sono rimasta.
Può capitare a chiunque. Se non nasci con tutti i mezzi per non dover dipendere da qualcuno è probabile che ti sia già capitato. Se invece nasci con le risorse per la tua indipendenza è probabile che qualcuno dipenda da te e dalla tua scelta di abusarne o meno. Ma il vero problema non è l’abuso di violenza o di sfruttamento: se c’è un abuso, vuol dire che un uso in dosi «limitate» è già stato consentito e che tutti, oppressori e oppressi per ragioni diverse, lo hanno legittimato.
Questi rapporti di dominio hanno conseguenze sulla vita psichica delle persone oppresse: disturbi d’ansia, depressione, fobie non si sviluppano in modo slegato dalle relazioni sociali, ma sono i sintomi del loro carattere oppressivo. Esiste un’ansia sociale di possedere creata dall’esperienza di spossessamento e dunque dal terrore di perdere tutto. Quest’ansia alimenta una tensione al controllo e ad avere potere almeno su una parte della propria vita: ciò che si riesce faticosamente ad acquistare, i propri figli, il proprio piccolo ruolo lavorativo. L’isolamento delle persone oppresse alimenta un vortice di paure che alla lunga, con l’aggravarsi delle esperienze vissute, conduce a episodi paranoici, sfiducia verso la percezione di sé e verso la realtà.
Nessuno mi credeva, nessuno. Tutti i giorni mi svegliavo e mi addormentavo con un groppo in gola, un’ansia soffocante che nessuno avrebbe capito e che, prima o poi, tutto sarebbe crollato.
Perché non dire basta, allora? Perché non ribellarsi a delle esperienze così dolorose? La paura di ribellarsi ha radici profonde e complesse, non liquidabili con la «mancanza di volontà». Ribellarsi fa paura perché si ha paura di morire nel farlo. La paura della morte deriva dall’esperienza del dominio come trauma. La prima necessità di chi subisce tale trauma è fare di tutto per non riviverlo. Il «contratto di scambio» proposto dall’oppressore, tranquillità in cambio di subordinazione, non è posto soltanto dall’alto, ma co-costruito e ricercato anche da chi lo subisce: una situazione di tranquillità per non toccare nuovamente con mano la violenza di cui è capace il dominante.
All’idea che finisse, mi sentivo morire, di non contare più niente. Avevo dato la vita per quel progetto, non mi rimaneva più vita senza di lui.
Il timore di mettere in discussione la relazione di dominio è dovuto alla sua dimensione totalizzante: non c’è nulla al di fuori di quel rapporto e se viene meno pare di venir meno noi stesse. Il rapporto di dominio permea l’identità: la sensazione è che l’abuso sia parte del proprio Sé. Ammettere di aver scelto un rapporto che procura dolore e può ledere fino alla morte è un’opzione inaccettabile e conduce a negarne la pericolosità. Ristabilire ciclicamente la tranquillità serve, oltre che per sfuggire alla violenza, per confermare a sé stessi di aver fatto la scelta giusta.
La paura della morte che domina la fantasia di ribellione si fonda sulla valutazione di non avere forze sufficienti per reggere il conflitto. Il rischio è affrontare una guerra ad armi impari e perderla. L’analisi dei rapporti di forza, cioè la valutazione strategica delle risorse distribuite ai due poli del rapporto, fa optare per una tattica di non intervento. La paura della morte porta a preferire quella che lo psichiatra martinicano Frantz Fanon ha definito morte nella vita: centrare la propria vita su un’esperienza di vuoto e di disconoscimento, come unica alternativa al morire. La morte nella vita diviene una tecnica di difesa e sopravvivenza in assenza di alternative praticabili. La paura della morte non può essere esplicitata. Non è socialmente ammessa, e chi la prova deve vergognarsene. Ma è anche il proprio Sé traumatizzato che non la ammette, perché non vuole ricordare ciò che è troppo doloroso. Questo meccanismo innesca un processo di dissociazione dalla realtà delle nostre vite (Cesare Albasi, Attaccamenti traumatici, Utet, 2006). La dissociazione nasconde alla razionalità non solo il trauma, ma anche quella parte di Sé che non vorrebbe accettare il sopruso: quella parte che vorrebbe ribellarsi. È difficile mettere in discussione queste strutture dissociate, perché rappresentano il nostro modo di sopravvivere, dentro cui si è costruito il senso del Sè, degli affetti, dell’identità.
Lo so che è difficile, lo so che fa male, ma a ben vedere la paura di stare in una relazione di oppressione è la precondizione per uscirne. Ogni stato di alienazione contiene al suo interno le spinte per la propria disalienazione.
La parte del Sé rimasta dissociata non ha mai smesso di opporsi e agire. La paura di ribellarsi infatti non impedisce piccole e grandi ribellioni quotidiane, le strategie di sopravvivenza sono elementi di resistenza che intralciano il dominio dell’oppressore, che per questo intensifica gli abusi. La speranza «che lui cambi», che la situazione cambi, dimostra che il desiderio di cambiamento è sempre stato presente nella persona oppressa.
E allora prova a chiederti dentro, e da dentro questa relazione che vorresti cambiare e non cambia mai: possiamo davvero cambiare gli altri o possiamo iniziare a cambiare noi stesse e le nostre strategie?
La paura di ribellarsi mette radici nella solitudine. Se altri vivono la mia stessa paura, non sono più sola. Questa consapevolezza mette in moto energie psichiche nuove: se siamo in tante ad aver paura, non fa più così paura.
Ti ho ascoltato a lungo, e sono stata dentro le tue parole e quello che mi facevano risuonare. Ed erano suoni che conoscevo così bene. Non si trovano le forze per uscirne da un giorno all’altro, tu sei sempre stata fortissima. Ci vuole forza a non crollare, sai? A provare tutta quella paura e ad affrontarla giorno dopo giorno. Eri già forte prima di diventarlo ai miei occhi, piena di risorse e vitalità per contrastare chi voleva farti morire di paura. Volevi solo una vita tranquilla, un tetto sopra la testa, amare ed essere amata. Hai imparato fin da piccola a dare per gli altri, occuparti degli altri è stata la tua condanna e la tua capacità di sopravvivere. La chiamano «agency», capacità di agire. È il tuo potere di soggetto. Se guardi a te stessa a partire da quella, cosa vedi? Sei capace di agire in ogni circostanza, sai resistere e prenderti cura, anche di te. I soggetti del proprio agire sono sempre soggetti strategici. Ora si tratta di vedere la tua forza e rivolgerla verso di te. Posso prestarti i miei occhi se vorrai.
Neanche io volevo più rivivere quella sensazione di morte, ho accolto la paura pur di non sentirla. Avevo imparato a lavorare, a sorridere, a dormire, nonostante la paura, e non era di certo svanita quando sono scappata, ho protestato e chiesto aiuto.
Non hai superato la paura per uscire da quell’incubo?
L’ho attraversata fino in fondo. Se oggi posso riconoscerlo è perché qualcuno mi ha restituito la luce che emettevo e che tu emetti adesso. Scoprirmi forte negli occhi altrui mi ha dato la forza di tornare a guardarmi, e adesso che ti vedo tremare, tu chiamalo terrore, io vedo la forza luminosa che non vede l’ora di esondare. Non è coscienza quella che ti manca per agire, è coscienza piuttosto quella che manca a me per capire fino in fondo le condizioni in cui ti trovi e come starti accanto. Sono pronta ad ascoltarti e a prendere coscienza di te.
Mi ha fatto paura, così paura, che mi sembra che non passerà mai.
Sorella, io ti credo.
Quando le nostre mani, le nostre storie, si collegano, le nostre ombre emanano una luce nuova. Questo inedito «noi», questo soggetto imprevisto, si fa comunità per chi non ha mai sentito di averne una. Da dentro questo «noi», i rapporti di forza si modificano e le valutazioni strategiche non sono più elaborazioni solitarie. Prenderci cura a vicenda della nostra paura di cambiare mostra che il cambiamento è possibile. Ed è in corso.
*Marie Moïse, attivista, è dottoranda in filosofia politica all’Università di Padova e Tolosa II, scrive di razzismo, femminismo e relazioni di cura. È co-autrice di Future. Il domani narrato dalle voci di oggi (Effequ 2019) e co-traduttrice di Donne, razza e classe di Angela Davis (Alegre, 2018). Dario Firenze è un educatore precario, membro del laboratorio di psicologia clinica He.Co.Psy. all’Università di Milano-Bicocca, attivista dello spazio di mutuo soccorso Ri-Make.
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