L’economia sa di scienza fredda, è vero, o almeno
così l’abbiamo intesa finora, avendoci sempre capito poco. Il suo
ghiaccio astratto, con l’avvento del virus, si è sciolto in tante calde
lacrime di preoccupazioni: le stesse preoccupazioni che suscita l’ultimo
libro di Edoardo Nesi, “Economia sentimentale”, edito da La nave di
Teseo.
Ginevra Leganza
La traversata dello scrittore pratese fortifica un dubbio che con l’andare dei mesi si è fatto certezza. Sembra proprio che il virus, nemico invisibile, si sia speso invero solo nel mettere a nudo un’essenza. Ha rivelato storture latenti e installato sciagure che sono qui per restare. Basti pensare allo smart working che, a detta di Guido Brera, uomo di mondo in mezzo ai tanti intervistati da Nesi, non svanirà col vaccino. La malattia è un po’ come l’”evento” di Heidegger: l’esserino malevolo ha cambiato tutto e non ha cambiato niente, ha svelato la sostanza già malata del nostro tempo, accelerando dei processi già in atto, per poi ritrarsi nuovamente. Ha dato una spinta a chi era in aria di morte, certo, ma ha anche acuito il male sociale ed economico serpeggiante da decenni.
In molti, settimane addietro, hanno denunciato la sciatteria riservata dal governo agli artisti. Nesi, figlio dell’impresa, nostalgico dei ruggenti anni Ottanta, sa bene che anche gli imprenditori sono artisti, e al pari di attori, scrittori e registi, non godono di premure. Lo stato sussidificio, che nel mese di marzo decretò la chiusura delle fabbriche, ha solo esacerbato un umore clandestino. Smantellando il lavoro vero, sentimentale appunto, ha nutrito l’accidia di chi aspetta la manna di un sussidio dal cielo.
La copertina di “Economia sentimentale”, edito da La nave di Teseo. (Destra) L’autore del libro Edoardo Nesi, già vincitore del Premio Strega 2011 con il romanzo “Storia della mia gente” |
Nelle ultime pagine, sempre con Brera, si paventa la venuta di un reddito universale. Ipotesi convalidata dalla lucidità di Nesi quando dice che oggi l’innovazione non produce posti, ma toglie lavoro. È sempre un progressista Nesi, non c’è dubbio: si affida ai prometei del pensiero sostenibile pur di non abbandonare una volta per sempre il sogno di un paese un po’ più gaudente del nostro. Nesi lo sa che di feste, nel futuro prossimo, ce ne saranno poche, ma comunque non rinuncia a sperare: meglio un poco che niente.
Tuttavia la pandemia sta solo sferrando un calcio a un mondo sul ciglio dell’abisso. Il settore dell’industria tessile, cui Nesi rivolge i suoi teneri rimpianti, langue già dall’arrivo della fast fashion. La tessitura è un’arte (non è un caso che Platone l’assimili alla scienza regale della Politica), e per l’arte – l’abbiamo detto – di spazio ce n’è poco. Nesi lo sa da tempo che il prodotto di quell’arte, la moda, non esiste più. La moda è morta, o quasi morta, da quando si è preso a comprare “cenci da H&M”. Quelli stessi stracci cuciti per un salario da fame. Il tessile chiude a causa delle pezze usa e getta, chiude per via dei panni indossati dai tonti che poi vanno in piazza con Greta Thunberg, e non si curano della fine veloce dei loro stracci. E poi ora, come potrebbe la moda non essere morta se ci si è ridotti a una “vita in tuta”? È questa la formula offerta da Luciano Cimmino, proprietario di Yamamay, che si chiede con Nesi che vita sia quella di un mangiatore di surgelati in pigiama…
Nesi è di Prato, la cui popolazione consta di 21mila cinesi, i cui capannoni – dice – ricordano Los Angeles. Eppure la lingua di Nesi fugge la livella mortale del pensiero globalizzato. È una lingua vivissima, forse nostalgica come sono i suoi sogni, è la lingua pratese del padre, che dalla cima al fondo del libro guida il figlio, anzi guida il “figliolo” in cerca di verità.
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