lunedì 30 novembre 2020

“Venezuela, allontana da me questo calice”.

 “Difendeteci, voi che sapete scrivere!”, chiedeva un’anziana a Carpentier e agli intellettuali che lo accompagnavano, nel luglio del 1937, nel suo passaggio attraverso un piccolo paese castigliano, molto vicino alla capitale spagnola assediata. Lo scrittore cubano avrebbe riportato l’aneddoto nelle cronache sul Secondo Congresso Internazionale in Difesa della Cultura che avrebbe pubblicato sulla rivista Carteles [1].


Questa esigenza aveva un fondamento: il popolo spagnolo stava difendendo tutti noi con le armi in pugno.

Non c’è cultura senza uomini e donne in carne e ossa. Bertold Brecht lo aveva detto durante il Primo Congresso, tenuto due anni prima a Parigi: “Compiangiamoci per la cultura, ma prima di tutto compiangiamoci per gli uomini! La cultura sarà salva se gli uomini si salvano”. Quel primo incontro intravedeva il pericolo: il nazifascismo minacciava di straripare, mentre le borghesie “democratiche” d’Europa scommettevano che il colpo fosse diretto contro l’allora giovane Unione Sovietica.

Essere di sinistra, per gli intellettuali degli anni Trenta – come negli anni Sessanta o nel primo decennio del XXI secolo, dopo il sorgere della speranza della rivoluzione bolivariana – era una presa di posizione a favore della cultura, degli esseri umani, che si afferrava a progetti concreti. Ma a Parigi nel 1935 ancora un segmento della sinistra intellettuale divagava in rivendicazioni astratte e opponeva, o almeno non metteva in comunicazione, alla libertà degli esseri umani quella dei creatori.

Raccontava André Malraux, il grande romanziere che aveva raggiunto i gradi di tenente colonnello nell’Aviazione repubblicana – secondo il racconto di Carpentier – che vide un signore camminare con aria indifferente con un grande rotolo di carta sotto il braccio, mentre cadevano le bombe su Madrid, e volle sapere che aveva in mente, ma costui gli precisò: “È carta da parati per cambiare quella che riveste la mia stanza”; allora, appoggiandosi a questa metafora, sentenziava: in tempi decisivi per l’umanità, “ci sono troppi intellettuali che pensano soltanto a cambiare la carta da parati che riveste le loro abitazioni”.

Ma la sinistra aveva in effetti le proprie divisioni: comunisti, socialdemocratici (benché riformisti, rivendicavano ancora il marxismo come fondamento della loro analisi), stalinisti, trotzkisti, anarchici, liberi pensatori, surrealisti.

Ancora nel 1936 ci sarebbe stata una fallimentare conferenza intermedia a Londra, più incentrata su questioni corporative, che ebbe una conclusione tragicomica: il ricevimento in frac nella residenza della sua organizzatrice. Poche settimane dopo sparirono tutte le scuse per ogni diversivo: la sollevazione del generale Franco contro la Repubblica spagnola e l’apertura in Germania del campo di concentramento di Sachsenhausen posizionavano il conflitto morale su un punto critico[2].

Un poeta inglese del XVII secolo, John Donne, aveva esposto le ragioni più profonde:

  • Nessun uomo da solo è un’isola completa.
  • Ogni uomo è una zolla del continente, una parte del tutto.
  • Se il mare si porta via una porzione di terra, tutta l’Europa viene rimpicciolita, come se fosse un promontorio, o la casa di uno dei tuoi amici, o la tua stessa.
  • Nessuna persona è un’isola; la morte di chiunque mi colpisce, perché mi trovo a essere unito a tutta l’umanità; per questo, non chiedere mai per chi suonano le campane; suonano per te.

Ernest Hemingway avrebbe ripreso l’idea per difendere la causa repubblicana nel romanzo che raccoglie le sue esperienze nella cosiddetta guerra civile spagnola. Le alternative in Spagna erano, ciononostante, le più radicali: da un lato il fascismo, ovvero, la violenza capitalista più estrema; dall’altro il socialismo, la Repubblica dei lavoratori, con le sue contraddizioni e i vagiti della nascita recente. In Spagna non si lottava per la sopravvivenza, come si sarebbe lottato più avanti; lì si lottava per la vita, perché esisteva un progetto alternativo in costruzione.

Per questo furono uomini e donne di ogni luogo a difenderlo. Per questo andò César Vallejo, uno dei grandi poeti ispanoamericani che parteciparono al Congresso del 1937 – e andarono anche, tra gli altri, Nicolás Guillén, Pablo Neruda e Octavio Paz, sì, lo stesso Paz che più tardi ripudierà ogni causa popolare – parla simbolicamente ai bambini, al futuro, in una straordinaria poesia intitolata Spagna, allontana da me questo calice:

Bambini,

figli dei guerrieri, intanto,

abbassate la voce, che la Spagna proprio ora sta dividendo

l’energia nel regno animale,

tra i fiorellini, le comete e gli uomini.

[…]

Respirate piano, e se

L’avambraccio si abbassa,

se le canne suonano, se è notte,

se il cielo è contenuto tra due lembi di terra,

se le porte fanno un brutto rumore,

se arrivo tardi,

se non vedete nessuno, se vi spaventano

le matite senza punta; se la madre

Spagna cade – dico per dire –

Uscite, bambini del mondo; andate a cercarla!…

Erano appena passati poco più di tre decenni dall’essere terminata la grande e sanguinosa contesa per l’indipendenza dal giogo spagnolo – dopo secoli di colonizzazione – ma questo non importò: circa un migliaio di cubani accorsero a difendere la Spagna e l’umanità, come soldati della Repubblica. Alcuni, come Pablo de la Torriente Brau, caddero in combattimento.

Il fascismo schiacciò milioni di vite – disumanizzò i carnefici fino a limiti impensabili – ed entrò fisicamente e moralmente all’interno di ogni casa. Era impossibile ignorarlo, anche per la borghesia benpensante, che accettava come un “male inevitabile” la povertà e la morte altrui, sempre che non fosse fatta irruzione nel proprio ambiente asettico.

Quando la guerra finì, si instaurarono altre alleanze “più civili”, meno pubbliche – come l’Operazione Gladio in Europa, o l’Operazione Cóndor in America Latina, o l’Operazione Mangusta e gli attacchi biologici a Cuba – rese esecutive da sicari che non si dovevano conoscere, con i quali non era necessario pranzare o sorridere in pubblico, che venivano pagati in segreto.

Vale a dire che la violenza capitalista adottò altre forme: nel decennio seguente alla presunta vittoria furono assassinati decine di dirigenti comunisti e antifascisti in Europa. La “guerra fredda” transferì la violenza di Stato, il fascismo, una malattia indesiderabile nel barbaro mondo civilizzato – come la malaria, o il colera, quasi dimenticati lì, ma ancora presenti nel Sud, dove si portano via ogni anno centinaia di migliaia di vite – verso la sfera coloniale e neocoloniale: Africa, Asia, America Latina.

O per caso non furono, non sono espressioni di estrema violenza imperialista, le guerra coloniali in Africa, le armi chimiche, le bombe al napalm lanciate sopra il Vietnam, le dittature militari in America Latina con i loro desaparecidos, le guerre di missili e droni “intelligenti” in Medio Oriente, quella “di bassa intensità” in Venezuela?

Ciononostante, alcuni di coloro che sanno scrivere preferiscono conservare onori e premi, pubblicazioni e applausi. Capita anche, a volte, che ripetano soltanto quello che leggono da altri, intossicati dai pregiudizi e mancanti di sole sulla pelle.

La congiura mediatica nei paesi “democratici” – ancora senza l’estensione e la sofisticazione che raggiunge oggi, ma decisamente opposta a qualsiasi esperienza anticolonialista e socialista – ci spacciava una Spagna repubblicana inesistente. Come si suol dire, e questo ci ricorda il Venezuela, la prima vittima della guerra è la verità. Alejo Carpentier tenta di rivelarcela, descrivendo il suo passaggio nella città spagnola di Girona.

«Ci portano alla Cattedrale. (…) Un edificio laterale, trasformato in museo pubblico, custodisce i quadri e i pezzi di oreficeria del tesoro rituale. (…) Un restauratore lavora minuziosamente, con i suoi ori e le vernici, dedito all’obiettivo di far rivivere una testa di vergine scolorita a causa del tempo… Dove sarebbero qui le prove di quel vandalismo di masse impazzite del quale tanto parlano i giornali di destra di tutto il mondo?»[3]

In un’altra delle sue cronache, stavolta su Valencia, scrive:

«Fino a ora abbiamo trovato l’ordine e la pace dappertutto. Non abbiamo mai visto scene somiglianti a quelle che riempivano finanche in altri paesi innumerevoli rotocalchi scandalistici. (…)

E mi pare importante insistere su questo particolare, perché è incredibile fino a che punto certi racconti possano arrivare a fuorviare il giudizio di persone che non sono completamente sceme. In un articolo recente, Paul Claudel, nientemeno, affermava intrepidamente – senza essere stato in Spagna – che tutte le chiese, senza alcuna eccezione, erano state incendiate nel territorio repubblicano… Se io fossi membro del Governo di Valencia, inviterei il signor Claudel a concedersi un giro attraverso queste regioni. Si convincerebbe che l’unico crimine commesso rispetto a certe chiese – ben poche! – è consistito nel trasformarle in ospedali di campo e musei pubblici». [4]

Sempre ci sono stati e ci saranno intellettuali degni, che non negoziano il proprio impegno verso l’umanità. Ci sono stati quando la Spagna ne aveva bisogno, ci sono adesso che ne ha necessità il Venezuela.

Come non pensare al Venezuela, 80 anni dopo quel Congresso, effettuato successivamente a Valencia, Madrid, Barcellona e Parigi, nel luglio del 1937, sotto il frastuono delle bombe, in una Spagna che divorava la sua altra metà, e con questa ogni speranza, facendo da preambolo alla Seconda Guerra Mondiale.

Il cubano Alejo Carpentier, che aveva vissuto quei giorni intensi di guerra e solidarietà, per un capriccio della storia, si sarebbe stabilito a partire dal 1945 e fino al 1959 in Venezuela. Lì avrebbe incontrato, nella selva amazzonica, nel tempestoso Orinoco, nei suoi villaggi e città, come successe a José Martí, il cuore della Nuestra América.

Nei primi decenni del XIX secolo, il Libertador Simón Bolívar aveva condotto un esercito di liberatori, per fondare o aiutare a fondare repubbliche indipendenti. Sognò un solo e grande paese, dal Río Bravo alla Patagonia. Due secoli dopo, nei primi decenni del XXI secolo, il Venezuela sarebbe stato alla testa, una volta di più, di una crociata liberatrice.

Alí Primera, cantante popolare, avrebbe dato un altro significato al suono delle campane, negli anni più difficili prima del trionfo di Hugo Chavez:

Quelli che muoiono per la vita

Non si possono chiamare morti

E a partire da questo momento

È proibito piangerli

Che si tacciano i rintocchi

In tutti i campanili.

Oggi, come nella Spagna repubblicana, in Venezuela si difende la vita, vale a dire un progetto anticolonialista e antimperialista. Come in Spagna, il trionfo o la disfatta del Potere Popolare democraticamente eletto avrà conseguenze telluriche imprevedibili per tutti i latinoamericani, per l’umanità. La nostra Spagna oggi – la frontiera e anche la trincea che delimita il Passato e il Futuro – è il Venezuela.

Come in quegl’anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale, ci sono governi corrotti che – istruiti da Washington – stimolano, in nome della Democrazia, la creazione di gruppi fascisti, con l’irresponsabile speranza che questi facciano retrocedere il processo rivoluzionario. Da comodi punti di osservazione, alcuni saggi (come in Spagna) dettano ricette, criticano coloro che prendono le decisioni, stanno più a sinistra nelle proprie teorizzazioni di quanto lo sia la stessa Rivoluzione; tanto da marciare gomito a gomito con la destra. La sinistra continua a essere divisa: quelli che pensano di sì, quelli che pensano di no, gli eterodossi, gli ortodossi, i divini, i terrestri…

Le immagini che vengono diffuse mostrano un paese in guerra civile, ma gli incidenti, le cosiddette guarimbas – capaci di generare crimini d’odio, come gli omicidi di giovani chavisti – nei loro momenti di apice, avvenivano in 17 municipi dei 335 che compongono il paese (nel momento in cui scrivo queste righe[i], esistono solo in sette di questi municipi, e tre di questi sono i quartieri della borghesia capitolina, perché a Caracas esiste un Est e un Ovest, che sono come il Nord e il Sud).

Come ai tempi della Spagna insorgente, gli inviti a schierarsi a intellettuali e artisti si fanno in nome della cultura e dell’umanità. Ma non è sufficiente il fatto di dichiarare la nostra appartenenza alla “sinistra” e assistiamo in frac dall’interno di eventi di corporazione.

Bisogna scrivere per difendere il popolo venezuelano, bisogna denunciare la congiura, come chiedeva, come chiedeva a noi, quell’anziana spagnola, perché il popolo venezuelano oggi difende noi, ogni giorno. Se fosse necessario, ci sarà da rischiare la vita insieme a questo popolo.

Se un giorno, speriamo di no, si produrrà un’invasione imperialista o mercenaria – che lo scenario di violenza provocata ad arte e delle ripetute menzogne prepara – ci sarà da reinventarsi le Brigate internazionali. Quindi, chiedo di stare li.

Se la madre

Venezuela cade – dico, solo per dire –

Uscite, bambini del mondo, andate a cercarla!

Note dell’autore:

  1. Alejo Carpentier: “España bajo las bombas, I, II, III y IV” (revista Carteles, septiembre – octubre de 1937), en Crónicas, tomo II, La Habana, Editorial Arte y Literatura, 1976, pp. 205 – 244;
  2. Eliades Acosta Matos: Siglo XX: intelectuales militantes, La Habana, Casa Editora Abril, 2007, p. 153;
  3. Alejo Carpentier: Ob. cit., p. 210;
  4. ——————–: Idem, p. 226 – 227.

[i]               L’articolo è stato scritto nel 2017. Molti importanti avvenimenti si sono succeduti da quella data ad oggi: Vari tentativi di colpi di stato; un fallito attentato contro il presidente Nicolás Maduro, i vertici militari e membri del governo Bolivariano; ripetuti attacchi al sistema elettrico nazionale e altre infrastrutture strategiche del paese; sbarchi e aggressioni mercenarie; solo per citarne alcuni. Proprio alla luce di questi eventi, alla perenne aggressione dell’imperialismo statunitense contro la Rivoluzione Bolivariana, e con l’approssimarsi dell’importante passaggio elettorale del 6 di dicembre del 2020, questo articolo appare quanto mai attuale, (n.d.t.).

*saggista e ricercatore, ripreso da LaJiribilla e Cubadebate

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