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Anna Lombroso per il Simplicissimus
A poche cose ci si abitua subito come alle conquiste raggiunte da altri prima di noi e senza la nostra partecipazione. Diritti per i quali tanti hanno patito, sono morti, sono stati emarginati e perseguitati diventano come un arto del quale ci accorgiamo solo quando ci duole.
O almeno succedeva così perché da anni ha avuto la meglio una ideologia della rinuncia in virtù della quale sono doverose l’abdicazione e la cessione di prerogative come contrappasso per aver avuto troppo, o anche, in tempi recentissimi, la riduzione di libertà in cambio del bene supremo della salute.
Così pare abbia vinto chi ci vuol fare credere che alcune vittorie sofferte siano talmente inalienabili e consolidate che si può limitare l’opera di manutenzione, che si può riporle nell’archivio del secolo breve con la necessaria naftalina dell’oblio mentre ci si impegna per altre “aggiuntive”, che concernono sfere più personali e individuali.
Oggi togliamo le palline di canfora dal divorzio in occasione del cinquantenario, dopo anni nei quali sono diventati terreni di negoziato altri matrimoni o succedanei del sacro vincolo, altre forme di riconoscimento giuridico di un sodalizio affettivo, tanto che quella legge, della quale si è assunta la paternità o maternità un movimento-partito che ha fatto la sua fortuna con un emancipazionismo senza lotta di classe, promossa invece da un partito di tradizione laica e socialista, sembra il risultato di un naturale evolversi dei tempi, un obiettivo di carattere culturale.
Perché in pochi ricordano che battaglia sia stata contro stereotipi che non avevano soltanto una connotazione “sociale”, mettendo in discussione il concetto di famiglia, la subalternità e gregarietà del ruolo femminile contro la concezione patriarcale di quello maschile, la tutela dei minori, il contributo delle mogli alla costruzione dei fondamenti economici e culturali del consorzio famigliare, i valori del mutuo soccorso che traducono un legame in vincolo d’amore e senza i quali diventa una galera nella quale si è costretti a coabitare per ragioni di censo, reputazione o economiche.
Ecco a distanza di 50 anni e di questi tempi c’è da chiedersi se quella battaglia, oggi, la si vincerebbe come allora a come 4 anni dopo con un referendum popolare confermativo.
Oggi che sembra sia scemato quel “bisogno di diritti” dei quali ha tanto scritto Stefano Rodotà, visto che accettiamo vengano sottoposti a gerarchie e graduatorie.
Oggi che, per via di un incidente della storia che ha assunto un carattere di emergenza per via di una crisi creata e alimenta per adottare e applicare un ordine mondiale basato sulle disuguaglianze e la repressione, veniamo ammaestrati a isolarci in un lodevole solipsismo, a venir meno ai patti generazionali, di cura e gratitudine nei confronti di genitori e nonni.
Oggi che per alcune minoranze il riscatto sembra limitarsi al riconoscimento di status giuridico o nella celebrazione di rituali conformisti e consumisti con confetti e liste di nozze.
Oggi che alle coppie eterosessuali che non li desiderano, quel riconoscimento è negato, che tanto possono sposarsi come tutti. Oggi, soprattutto, che il matrimonio è un lusso per pochi, per carenza di un reddito che consenta autonomia dal nucleo famigliare di origine, di alloggi, di garanzie, quelle che negano la procreazione e la genitorialità matura e consapevole.
Oggi che, infine, si sta insieme per dividere le spese, perché separarsi è uno sfoggio di sfarzo proibito, perché l’amore extraconiugale, peraltro malvisto dagli epidemiologici, è una licenza sopportabile solo se resta nella clandestinità, magari conosciuta ma tollerata dall’offeso/a per motivi “aziendali” o per reciprocità.
E oggi che il bisogno porta a disconoscere la parità di diritti e di dignità di uomo e donna e dei coniugi, se uno dei due, lei abitualmente, è costretta concretamente e moralmente alla rinuncia di talento e vocazione professionale, in vista di una disparità di trattamento economico tra sessi che continua a sussistere, se quindi a uno dei due, lei abitualmente, viene concessa l’illusione convenzionale di poter scegliere tra lavoro e famiglia, quando in realtà come a conferma di un destino biologico e etico è richiesta la sua totale abnegazione in sostituzione di servizi sociali, se ancora di più uno dei due, lei abitualmente, “gode” recentemente dell’opportunità di svolgere le funzioni poliedriche di cura della casa, dei figli, degli anziani, del marito, quello della riproduzione e insieme quello della produzione, grazie a part time molto incentivate moralmente e poco commercialmente, grazie al lavoro agile, che, perfino il giornale di Confindustria lo denuncia, penalizza le lavoratrici.
D’altra parte anche questo fa parte della strategia messa in atto per nobilitare le mansioni e i ruoli servili dando loro un significato redentivo e edificante nella famiglia e nella società.
Tanto che in nove mesi funzioni penalizzate e mortificate hanno vissuto una temporanea apoteosi in qualità di “essenzialità” civile, come incarnazione di spirito di servizio e dunque condanna all’abnegazione e al sacrificio, comprese le donne, custodi del focolare nel quale siamo costretti a stare per amor nostro e degli altri, grazie alla tuta o divisa cucita addosso da un potere maschio, bianco, padrone e padre, che se il modo di produzione avvantaggia i capitalisti, il modo “domestico” va a beneficio dei maschi.
Da anni ormai si sta recuperando la triade un tempo oggetto di triplice culto quasi alla pari, Dio, Patria e Famiglia, con tutte le sfumature del caso: divinità promosse alla fede monoteista come il Mercato, Stato nella sua funzione di assistenzialismo di chi ha già e aspira ad avere di più o di severo irrogatore di pene, sanzioni, il più possibile discriminatrici e arbitrarie, aziende domestiche cui viene attribuito l’incarico di conservare e trasmettere valori, quell’ideologia e del pensiero unico e valute, quei risparmi che hanno finora costituito l’edificio sussidiario su cui si è tenuta in piedi la società.
Si tratta di concetti dai quali è stata estrapolata qualsiasi componente emotiva, sentimentale, affettiva e dunque sociale. La religione ha stabilito il primato della carità sulla solidarietà, riducendo i messaggi d’Amore alla pietas che accomuna le dame di San Vincenzo e Soros, la revisione della teologia della liberazione per modernizzarla e adattarla al dinamismo dello Ior e del Cardinale Becciu. E la Famiglia si è uniformata alle regole dettate dal marketing, dalla mercificazione di lavoro, corpi, aspettative, desideri, come un’azienda sofferente e considerata parassitaria, è vero, ma utile al mantenimento dello status quo.
A distanza di 50 anni sorprende come un prodigio che poco più di un ventennio dopo la sua adozione, la Costituzione avesse ripreso allora vita risorgendo dall’imbalsamazione già avviata, offrendo il modo al legislatore di dare concretezza ai bisogni etici, spirituali e affettivi delle persone comuni, modificando la gerarchia delle fonti giuridiche (per il Diritto l’amore non esiste, nel codice la parola non compare mai, segno di una insofferenza forse reciproca, di un’astrazione formale della regola giuridica che la rende remota dai cittadini), e ponendola al di sopra di tutte le altre, e di quelle confessionali, delle quali finalmente si contestavano il primato temporale e l’egemonia usurpata.
È stato un momento luminoso, spento dai “fantasmi della libertà” che, già dopo Piazza Fontana e prima del rapimento Moro, erano intenti a tacitare il dissenso, a reprimere le azioni di lotta dei lavoratori e a far intendere che il benessere capitalistico comprendesse la conquista e la tutela dei diritti, quando le licenze concesse dalle oligarchie costituiscono un ostacolo e una potenziale minaccia per tutte le libertà.
Non era bastato il ’68 a mettere in luce la qualità apocalittica e rivoluzionaria delle relazioni affettive nell’organizzazione sociale, a contestare il diritto nella sua veste di strumento di disciplinamento delle relazioni sentimentali che non lascia spazio all’amore.
Non è a tutt’oggi bastato il femminismo a mostrare come il rapporto di coppia, alla faccia delle riforme del diritto di famiglia, sia stato ed è riconosciuto in funzione di qualcosa che non ha nulla a che vedere con i sentimenti: la stabilità sociale, la procreazione, la prosecuzione della specie, la superiorità di un sesso sull’altro anche secondo un modello che stabilisce la proprietà e sancisce il “possesso” come romantica variabile dell’eros ma pure del bilancio familiare, secondo un format oggi in grande recupero grazie a quella logica di disciplinamento delle pulsioni, che combina regole sanitarie e leggi di mercato, avvertite come leggi di natura immodificabili, tutte assimilate ai cosiddetti “valori non negoziabili” a quei “temi eticamente sensibili”, che comprendono la salute diventata l’unico diritto superiore, la “produttività” e dunque il profitto che ne deriva.
Si, c’è davvero da chiedersi come utile esercizio civile, se il Paese oggi sopporterebbe quel benefico urto ai tabù catto-togliattiani oggi ripresi da fermenti che invece di rappresentare i margini, le periferie oltraggiate e umiliate, testimoniano della istanza di tutela dei privilegi dell’establishment. È probabile di no, se invece sopporta di buon grado il distanziamento sociale.
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