I successi venezuelani contro il coronavirus vengono occultati dai media occidentali mentre l’emergenza sanitaria offre l’occasione agli Stati Uniti per tentare l’ennesimo colpo di Stato contro il socialismo bolivariano.
Ogni volta che i media sono obbligati a parlare in
positivo del Venezuela bolivariano, di sicuro ci sarà un titolo,
un’insinuazione, un inserto, teso a snaturare la notizia o a seminare
confusione. Il sottofondo è sempre lo stesso: in quanto socialista, il
governo è necessariamente una dittatura governata non da un presidente,
ma da un dittatore, quindi ogni notizia che arriva da lì dev’essere
considerata non vera, a dispetto della logica.
Un esempio concreto fra i tanti riguarda i dati sul coronavirus. Si dà il caso che, a dispetto delle catastrofiche previsioni diffuse a proposito di una presunta “crisi umanitaria”
in Venezuela, il paese bolivariano sia risultato il più efficace nel
prevenire, e quindi contenere, la pandemia, in tutta l’America Latina e
i Caraibi.
A oggi risultano così 10 morti, a fronte degli oltre
9.000 del Brasile di Bolsonaro. Un risultato ottenuto facendo tamponi a
raffica (e gratuiti), usando per la medicina territoriale e di
prossimità l’organizzazione capillare del Partito Socialista Unito del
Venezuela (PSUV), proteggendo rigorosamente la salute dei lavoratori e
delle lavoratrici, e tutelando quelli che il lavoro hanno dovuto
sospenderlo. Esattamente l’opposto di quel che sta accadendo nei paesi
capitalisti, ostaggio degli industriali e del “mercato”.
Eppure, nel commento di un grande giornale italiano
sul fatto che il Venezuela risulta al 9° posto al mondo per efficacia
contro il coronavirus, si deve insinuare il dubbio, anche se a produrre
i dati è l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha lodato il
modello venezuelano. E che dire delle migliaia di venezuelani che
tornano da tutti quei paesi capitalisti dove avevano creduto di trovare
l’Eldorado? Niente, appunto.
Quando non si può manipolare la notizia, la si occulta.
Il sottofondo è sempre il medesimo: essendo la democrazia borghese
occidentale l’unico sistema che garantisce il “pluralismo e la libertà
di espressione”, la democrazia partecipata e protagonista, governata
dal potere popolare organizzato nel suo partito che regge l’istituto
venezuelano, non è valida.
Che in 21 anni di rivoluzione bolivariana vi siano
state 25 elezioni, due delle quali vinte da quella stessa opposizione
che oggi non riconosce l’autorità elettorale, non importa. Che a queste
elezioni si presentino, raggruppati o distinti, tutti i numerosissimi
partiti di varie tendenze rappresentati sullo spettro politico
venezuelano, non importa. Quel che importa ai paesi capitalisti
pilotati dagli USA è riconoscere un manipolo di golpisti venezuelani,
che nessuno ha eletto e che la democrazia non sa neanche dove sta di
casa.
Basterebbero queste semplici considerazioni per
inquadrare nella giusta prospettiva quel che sta accadendo in questi
giorni in Venezuela: un nuovo tentativo destabilizzante guidato dagli Stati Uniti e messo in pratica dalle bande dell’autoproclamato “presidente ad interim”
del Venezuela, Juan Guaidó. Un lestofante che ha sottratto al popolo
venezuelano risorse preziose in questo tempo di pandemia e che il
governo avrebbe destinato, come fa annualmente con oltre il 70% dei suoi
introiti, ai piani sociali. Un prezzolato, ma che ha il sostegno di
tutti quei governi interessati a sostenere la fine del socialismo in
tutte le sue forme. Una retorica più che mai utile a fronte del
fallimento del modello capitalista, evidentissimo nell’ecatombe
provocata dal coronavirus. Così, anche dopo l’attacco via mare
organizzato da contractor nordamericani e sventato dal potere popolare
organizzato in Venezuela, i grandi media hanno insinuato che si sia
trattato di una montatura del governo bolivariano.
Un ritornello che sentiamo ripetere da oltre
vent’anni a ogni nuovo tentativo destabilizzante. Anche in questo caso,
oltre alle confessioni dei mercenari arrestati, varrebbe una semplice
considerazione: ma se fosse tutta un’invenzione, perché il Segretario
di Stato USA, Mike Pompeo, si sarebbe affrettato a dichiarare che
l’amministrazione nordamericana cercherà di portare a casa i due
contractor “con ogni mezzo”?
Durante la recente invasione di mercenari al soldo degli USA, chiamata Operazione Gedeone,
tentata via mare e respinta dalle forze bolivariane, il presidente
dell’Assemblea Nazionale Costituente, Diosdado Cabello ha deciso di
fare una puntata speciale del suo seguitissimo programma Con el Mazo Dando,
che chiunque può visionare in youtube. In quell’occasione, ha offerto
una primizia giornalistica e una retrospettiva storica delle
aggressioni organizzate contro la rivoluzione bolivariana in questi
ultimi anni. Rendendo noto il contenuto di un pendrive trovato
addosso a un mercenario catturato, Diosdado ha spiegato cosa avevano in
mente i golpisti in caso di vittoria. Si sarebbe creata una giunta di
transizione diretta dall’ex generale Raúl Isaías Baduel,
un tempo alleato di Hugo Chavez, poi fanatico oppositore, ora
detenuto. Suo figlio Adolfo è stato arrestato durante l’attacco via mare
e ha già confessato pubblicamente i nomi dei mandanti e dei
partecipanti.
Juan Guaidó, l’autoproclamato “presidente a interim”
che ha contrattato (e truffato) i mercenari che avrebbero dovuto
portare a termine l’operazione, sarebbe stato a capo del Potere
Legislativo. Altri ex-militari disertori, come il generale di Brigata
Héctor Armando Hernández Da Costa, il tenente colonnello Igbert Marín
Chaparro e Antonio José Sequea Torres avrebbero a loro volta fatto
parte dello schema, che conteneva moltissimi altri nomi, dettagli, “e
persino una lista di promozioni”.
Sarebbe stato il coronamento del “mantra” recitato da
Guaidó dal momento della sua autoproclamazione, a gennaio del 2019:
“fine dell’usurpazione e governo di transizione”. Un progetto che,
nonostante i ripetuti fallimenti intercorsi, aveva ricevuto nuovi
appoggi nel corso del viaggio compiuto in Europa e negli USA da
“Juanito Alimagna”, come lo definisce Diosdado alludendo al personaggio
di un noto ladrone.
I piani destabilizzanti guidati dall’“autoproclamato”
sono stati numerosi, a partire dal tentativo di invasione mascherato
da “aiuto umanitario” tentato alle frontiere del Venezuela con il
Brasile e la Colombia, il 23 febbraio del 2019. In quell’occasione, con
l’appoggio di miliardari nordamericani, l’opposizione venezuelana
aveva organizzato un mega-concerto alla frontiera con la Colombia, poi
rivelatosi un flop.
Era comparso allora uno dei protagonisti
dell’Operazione Gedeone, Jordan Goudreau, capo dell’impresa privata
della sicurezza Silvercorp, con sede nella Florida, nonché scorta del
presidente USA, Donald Trump. La determinazione a rimanere libero e
indipendente da parte del popolo venezuelano aveva respinto il
tentativo di invasione in quella che è passata alla storia come la
“battaglia dei ponti”, ma non aveva certo fermato i tentativi
destabilizzanti.
Trump disse allora che, contro il Venezuela bolivariano “tutte le opzioni erano sul tavolo”.
Diosdado ricapitola in che modo i burattini venezuelani abbiano
cercato di applicare quelle opzioni, dentro e fuori il paese. Il
presidente Maduro ha denunciato oltre 47 complotti diretti contro
l’Aviazione militare bolivariana, senza contare il micidiale sabotaggio
alla rete elettrica compiuto il 7 marzo del 2019.
Ma prima, il 30 aprile, Guaidó e il suo compare Leopoldo Lopez
avevano tentato un colpo di Stato, anche quello fallito. In
quell’occasione, erano ricomparsi vecchi golpisti attivi già ai tempi
di Chavez. Erano emerse le inequivocabili responsabilità di partiti
come Voluntad Popular e Primero Justicia, e la complicità dello stesso
arco di forze che aveva organizzato le violente “guarimbas” del 2017,
terminate solo dopo la proclamazione dell’Assemblea nazionale
Costituente.
Personaggi che si sono riaffacciati nel corso di
questi anni, durante i quali la rivoluzione bolivariana è stata messa
alla prova della “guerra ibrida” scatenata dagli USA e sostenuta dai
loro vassalli in America Latina e in Europa. Dal 2016 a oggi, Diosdado
ha contato e illustrato 14 tentativi destabilizzanti con il
coinvolgimento di agenti della CIA, di paramilitari colombiani,
israeliani e, recentemente, anche brasiliani (vedi infografica)
Il 4 agosto del 2018, un attacco con droni telecomandati avrebbe dovuto uccidere il presidente Maduro durante un atto pubblico,
che avrebbe provocato una strage di militari e di civili. Fu sventato,
come questa volta, dall’unione civico-militare e dalla intelligence
popolare, che consentì di evitare il peggio. Sempre lo stesso schema. A
tirare le fila, sempre gli stessi burattinai.
Diosdado ha ripercorso le tappe dell’Operazione
Gedeone, riprese poi con altri dettagli anche nella seguitissima
trasmissione di Mario Silva, La Hojilla. Ha spiegato che le
indagini hanno preso avvio da un arsenale di armi trovato in Colombia.
Secondo l’ex generale disertore Cliver Alcalá, facevano parte di un
carico comprato dall’autoproclamato “presidente a interim” Juan Guaidó
per rovesciare Maduro.
Alcalá, che viveva legalmente in Colombia grazie ai
suoi rapporti di alto livello con l’amministrazione USA, temendo di
essere ucciso aveva rilasciato dichiarazioni in un video, prima di
consegnarsi ai funzionari nordamericani antidroga della DEA, esprimendo
forte sconcerto per essere stato incluso nella lista dei
narcotrafficanti sanzionati da Trump.
Quel contratto per armi e mercenari era poi stato
mostrato da Jordan Goudreau durante il programma della giornalista di
opposizione Patricia Poleo, confermando le dichiarazioni di Alcalá.
Mario Silva aveva però notato come fossero stati mostrati solo 6 fogli,
contenenti le clausole conclusive della contrattazione, che recava
anche la firma di un noto avvocato, difensore di grandi
narcotrafficanti negli USA. Che cosa nascondevano gli altri fogli?
Probabilmente contenevano i micidiali compiti concreti che avrebbero
dovuto svolgere quei mercenari armati fino ai denti. E che non fossero
certo dei santarellini lo ha indicato lo stesso Goudreau, minacciando
di morte via twitter la giornalista Erika Sanoja, corrispondente di RT a
Caracas.
Servendosi dei militari disertori che avevano già
organizzato il golpe abortito il 30 aprile del 2019, l’Operazione
Gedeone prevedeva vari attacchi al territorio nazionale e alle
istituzioni bolivariane, in primo luogo alle sedi degli organismi di
sicurezza e di polizia, alle carceri per liberare altri golpisti
detenuti, omicidi mirati dei dirigenti chavisti e la cattura del
presidente onde riscuotere la taglia messa sulla sua testa da Trump.
I contractor avrebbero dovuto prendere il controllo
degli aeroporti, quello civile di Maiquetia-Simon Bolivar, e quello
militare della Carlota, aspettando l’ingresso degli aerei che avrebbero
portato gli ostaggi negli Stati Uniti. Ma com’è pensabile una simile
operazione aerea senza il sostegno degli Stati Uniti? È evidente che si è trattato di un tentativo di invasione in grande stile partorito dalle menti obnubilate dei cowboy del Pentagono.
Solo che il territorio venezuelano non è una prateria
hollywoodiana, ma un paese che ha deciso di difendere la propria
indipendenza, affidandosi al socialismo bolivariano. Ad accoglierli, i
contractor non hanno perciò trovato folle desiderose di essere liberate
dalla “dittatura”, o militari pronti a genuflettersi davanti alla
bandiera a stelle e strisce. Hanno incontrato invece la forte
determinazione dei pescatori di Chuao, che li hanno circondati a piedi scalzi, ma con le pistole in mano.
“Lavoro, salute, fucile”, aveva
detto il 1° Maggio il presidente Maduro, invitando la classe lavoratrice
a tenere a portata le armi, per la difesa integrale della nazione. Nel
paese vi sono 4 milioni di miliziani e miliziane, mossi – ripete
sempre Diosdado – non da interessi materiali, ma dagli ideali
collettivi, dalla difesa della pace con giustizia sociale.
Una determinazione, ha aggiunto Mario Silva nel suo
programma, che spinge i rivoluzionari a andare fino in fondo,
assumendosi le proprie responsabilità. Lo scontro è d’altronde senza
quartiere. Durante la Quarta Repubblica, durante le democrazie nate dal
Patto di Puntofijo che tanto piacevano agli USA e all’Europa,
i guerriglieri venivano torturati e fatti scomparire. Non andavano
però a piangere come stanno facendo ora i parenti dei mercenari
golpisti, ha detto ancora Mario Silva, ai quali il governo bolivariano
garantirà i loro diritti umani.
Se c’è uno scontro armato, questo provoca anche delle
conseguenze. Nel video diffuso durante la conferenza stampa
internazionale del presidente Maduro, un funzionario fa una domanda al
mercenario nordamericano Denman, appena catturato. Gliela pone “da
cittadino a soldato”. Gli chiede cosa penserebbe se un gruppo di
militari venezuelani andasse nel suo paese per ammazzare il presidente.
E lui risponde: “Non mi piacerebbe. Lo considererei un atto di
guerra”. In questo caso, un’aggressione coloniale organizzata per
denaro da un esercito potente e codardo che, dopo la batosta che ha ricevuto in Vietnam, che lo ha cacciato definitivamente il 30 aprile del 1975, non ha più osato invadere un territorio per paura di rimanerci impantanato.
Più “comodo” lanciare droni dall’alto o inviare
mercenari. Per questo, su suggerimento del dirigente chavista Roy Daza,
c’è ora una nuova versione della canzone Bella Ciao, in onore dei
pescatori-miliziani che hanno catturato i contractor: Bella Chuao.
10/05/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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