lunedì 11 maggio 2020

Pastori sardi a un anno dalla rivolta.

A poco più di dodici mesi dalla «guerra del latte» i problemi di fondo sono gli stessi e i lavoratori delle campagne sarde continuano a soffrire. In questa lunga analisi della filiera, tra squilibri e ingiustizie emergono inedite possibilità.



jacobinitalia.it Danilo Lampis
Nella memoria restano impresse le immagini dei tanti blocchi, cortei e presìdi che restituivano la percezione di poter imporre finalmente una necessità di cambiamento generale che andava oltre il problema del basso prezzo del latte, estendendosi a una miriade di questioni sul futuro dell’isola, soprattutto delle sue aree rurali. Ma purtroppo, oltre al ricordo, a più di un anno di distanza dalla tregua, i pastori si ritrovano con un accordo sul prezzo del latte non rispettato e con un migliaio di loro alle prese delle denunce per gli effetti della legge sulla sicurezza firmata da Matteo Salvini, lo stesso che all’inizio delle mobilitazioni, in piena campagna elettorale, aveva promesso la risoluzione della vertenza nell’arco di 48 ore
Oggi, nonostante l’aumento dei prezzi del Pecorino Romano, dovuto alla crisi dei formaggi molli e a ridotta stagionatura quale effetto della chiusura di alcuni canali commerciali a seguito della crisi epidemiologica, da un migliore equilibrio tra produzione e domanda delle forme del formaggio, nonché dall’aver scampato i dazi di Trump, il latte continua a essere pagato al di sotto dei costi medi di produzione, in media dai 0,70 ai 0,82 euro iva inclusa. Non a caso, chi può sta vendendo il latte oltremare, dove arriva a essere pagato dai 10 ai 14 centesimi in più. Se si pensa che al problema del prezzo si aggiungono da sempre i cronici ritardi del Premio unico (primo pilastro della Pac, la Politica agricola comunitaria), e delle provvidenze a capo e superficie del Psr (Piano di Sviluppo Rurale), che costituiscono una parte del reddito in molti casi indispensabile per una buona pianificazione aziendale, la situazione del mondo delle campagne è di diffusa sofferenza.

Nel frattempo, dalla maggioranza di centro-destra al governo della Regione Sardegna, sono giunte sostanzialmente due proposte.
La prima proposta di legge, proveniente da Forza Italia, prevede un contributo dai 50 ai 71,50 euro per ogni capo sottratto alla produzione di latte e alla fecondazione. L’obiettivo è diminuire la produzione per portare, teoricamente, a un aumento del prezzo della materia prima capace di coprire i costi di produzione. Se dovesse diventare legge, la Regione dovrebbe investire 60 milioni di euro in tre anni non per avviare una reale riforma della filiera, ma per rimborsare chi non produce. Una conferma di una politica che propone esclusivamente strumenti di assistenzialismo passivizzante per non intaccare problemi strutturali e squilibri consolidati.
La seconda proposta, proveniente dall’assessore all’Agricoltura, prevede l’istituzione di un nuovo Ente per la Pastorizia al quale delegare politiche di sviluppo e programmazione della filiera. Infine, dalla Ministra Bellanova, oltre alle promesse di velocizzare l’erogazione delle risorse previste dal Mipaaft lo scorso anno per il ritiro delle eccedenze produttive, sono giunte solo pacche sulle spalle, con la «rassicurazione» che il prezzo del latte non salirà mai a un euro.
Tra incompetenza e paura di intaccare rendite e poteri, la politica al governo regionale e nazionale prova a tergiversare di fronte alle richieste provenienti dalle campagne dell’isola che vanno oltre il problema del prezzo del latte, toccando la questione del potere di decidere come, quanto e cosa produrre.

Il capro espiatorio dell’eccedenza di latte

La Sardegna detiene il 45% dell’intero patrimonio ovino italiano, con un totale di 3.103.762 capi ovini allevati (censimento al 31/12/2018) in circa 12 mila aziende pastorali.
Nel 2017 l’isola ha prodotto il 67% del latte ovino nazionale e il 14% di quello dell’Ue a 28 paesi (in cui l’Italia è terzo produttore, dopo Grecia e Spagna, con una quota del 21%).
Una tale quantità di latte, specchio di una più che centenaria monocoltura ovina cresciuta con la stabilizzazione del modello di pastoralismo semi-estensivo ed estensivo e con il consolidarsi dell’industria di trasformazione lattiero-casearia, rende dipendente l’isola dalle strategie per l’esportazione.

Il problema, però, non è tanto l’alta produzione di latte ma il cosa se ne fa.
Circa il 70% del latte conferito è infatti destinato alla produzione del Pecorino Romano.
Esso rappresenta circa il 60% circa della produzione complessiva di formaggi da latte di pecora della Sardegna, in Italia il 48% del totale.
Il 52% delle forme viene mandata negli Stati uniti e più della metà di queste viene trasformata in formaggio da grattugia da miscelare con altri formaggi.
Il problema di questo sbocco di mercato, oltre l’assoluta predominanza quantitativa che si trasforma evidentemente in una dipendenza, risiede nella sua progressiva contrazione per via dell’alta competitività di altri prodotti.
Gli statunitensi non consumano meno formaggio, ma aumentano le importazioni di formaggi simili per nome e qualità dalla Bulgaria, dalla Romania, dalla Francia e dalla Spagna.
È il pegno che si paga se per decenni si è perseguito un modello basato unicamente sulla realizzazione di economie di scala attraverso l’elevata produzione di Pecorino Romano, fortemente standardizzato e a basso costo.

Un modello, dunque, dove i margini di profitto non si realizzano sulla base di differenze qualitative, ma sulla concorrenza sul costo che implica, a sua volta, un aumento dei volumi produttivi. 
Così, di fronte ai periodici eccessi di offerta che fanno abbassare il prezzo del formaggio, si attiva un circolo vizioso dove, soprattutto le aziende private o cooperative più deboli, sono portate a incrementare ulteriormente la produzione e a svenderla al mercato per contrastare l’erosione del reddito.
Sebbene si stia tentando da tempo di diversificare almeno una parte del prodotto, rendendolo anche un formaggio da tavola appetibile per nuovi mercati e nuovi stili di consumo, il Romano resta una commodity, ossia un bene che è offerto senza particolari differenze qualitative e indipendentemente da chi lo produce, cosa che favorisce un continuo variare del prezzo che viene scaricato sempre sulla parte bassa della filiera, i pastori.
Il problema non è tanto l’eccedenza di latte dunque, ma soprattutto la monoproduzione standardizzata, il monomercato statunitense, controllato da pochi intermediari, e i rapporti interni alla filiera dove i pastori non hanno potere di decidere cosa e come produrre.
È questa esclusione sostanziale che permette a pochi trasformatori e distributori di concentrare il valore aggiunto nelle proprie mani, scaricando sui pastori le tensioni del prezzo.

Una filiera da rovesciare perché specula sul lavoro dei pastori

L’esclusione è il prodotto di un intero sistema che si basa sul mantenimento del pastore in una condizione di precarietà e dipendenza economica. 
Vediamo riassuntivamente come.
In Sardegna ci sono 35 caseifici trasformatori di cui 12 industriali e 23 cooperative. Il latte viene pagato in base al prezzo delle quotazioni mensili del Pecorino Romano, anche quando i grandi caseifici che diversificano producono con quel latte un formaggio con un valore maggiore.
I pastori ricevono un acconto per ogni litro acquistato, con un conguaglio a fine anno sulla base dei dati di produzione.
Mentre ai pastori che conferiscono presso le cooperative viene sempre ritirato il latte e vengono distribuiti a fine anno gli utili derivanti dalla vendita del formaggio, sotto forma di un aumento del prezzo del latte conferito.
Per chi conferisce presso gli industriali la situazione è più dura, perché totalmente dipendente dalle fluttuazioni del prezzo e dalle decisioni dei gruppi privati che possono anche scegliere di non ritirare il prodotto.

Le cooperative, i cui soci sono gli allevatori stessi, sono nate originariamente per affrontare lo strapotere degli industriali.
Oggi, per una parte sono esplicitamente subalterne ai più forti di questi (isolani e non), vendendo loro il prodotto in conto terzi, non riuscendo ad arrivare ai mercati finali con una propria commercializzazione.
In generale, la maggioranza del sistema cooperativo è strutturato per produrre unicamente Pecorino Romano, ed è dunque succube alle dinamiche del prezzo e ai trasformatori privati più forti.

Infine, c’è la grande distribuzione organizzata, che impone ai trasformatori una forte competizione per assicurarsi il contratto, proponendo talvolta aste al doppio ribasso. 
In poche parole, le centrali d’acquisto della Gdo chiedono tramite e-mail di avanzare un’offerta per la vendita di uno stock di prodotto.
Raccolte le proposte, lanciano una seconda asta, nuovamente al ribasso, partendo dal prezzo inferiore raggiunto durante la prima.
In pochi minuti, su un portale web, il fornitore è chiamato a competere selvaggiamente con altri che non conosce, per aggiudicarsi la commessa.
Il meccanismo porta i gruppi della trasformazione a rivalersi, ovviamente, sui pastori.
In seguito alla mobilitazione di Terra!, daSud e della Flai Cgil, si discute da un anno una proposta di legge per limitare fortemente le aste al ribasso sui prodotti alimentari.
Un passaggio importante per procedere verso una giusta valorizzazione del prodotto.

È da circa un ventennio che il prezzo del latte è diventato sempre più fluttuante per via delle periodiche crisi del Pecorino Romano. Il ruolo del Consorzio di Tutela, che doveva essere la salvaguardia della produzione e della commercializzazione del formaggio, la tutela della sua denominazione in Italia e all’estero, l’incremento del consumo e il miglioramento qualitativo del prodotto, si è rivelato sempre insufficiente e poco trasparente.
Al tavolo del Consorzio vi siedono anche i presidenti di 20 cooperative ma, come già detto, non hanno la forza per poter imporre un cambio di direzione a una monoproduzione di cui sono diventati compartecipi, anche perché in larga misura succubi ai caseifici privati maggiori.
Ciclicamente, quando arriva la crisi, la politica sopperisce in maniera emergenziale alle mancanze del Consorzio, stanziando risorse per il ritiro delle eccedenze dai magazzini al fine di risollevare il prezzo.
Una scelta funzionale a mantenere lo squilibrio nei rapporti di potere (dunque di creazione di valore) interni alla filiera, a favore di chi intasca i milioni per la mancata vendita del prodotto.

Lo scorso anno, all’apice della vertenza, i pastori presentarono una controproposta a quella della Regione e del Governo, rivendicando principalmente: un immediato aumento del prezzo del latte ovino a 80 centesimi fino ad 1 euro + iva, chiedendo che fosse legato a una griglia di calcolo trasparente all’interno della quale rientrassero anche i prezzi degli altri formaggi e non solo quello del Pecorino; una distribuzione più equa dei profitti all’interno della filiera dei prodotti lattiero caseari, richiedendo che i centri della trasformazione, all’atto della vendita del formaggio, firmassero delle clausole nelle quali si dichiarava che il livello di remunerazione della materia prima utilizzata era tale da coprire i costi di produzione; una riforma della filiera in direzione di una maggiore partecipazione dei produttori primari e una trasparenza nei loro confronti, prevedendo la nomina di un prefetto con compiti di analisi, sorveglianza e monitoraggio delle attività di filiera stessa. Infine, denunciarono una complessiva mancanza di trasparenza e incapacità di tutelare e vigilare sulla produzione da parte dei Consorzi di tutela delle tre Dop, chiedendo contestualmente la dimissione dei vertici.
Rivendicazioni da vedere, in larga misura, sul solco di leggi esistenti.
Per gli aspetti riguardanti la formazione del prezzo, sostanzialmente chiedevano l’applicazione dell’articolo 62 della legge n. 27/2012, che disciplina le relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari, imponendo che le negoziazioni siano improntate ai criteri di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni.
Per quanto riguarda la riorganizzazione della filiera, invece, chiedevano sostanzialmente il rispetto delle disposizioni del regolamento Ue n. 1308/2013, che prevede disposizioni specifiche relativamente al ruolo assegnato alle organizzazioni dei produttori e alle organizzazioni interprofessionali nel settore lattiero caseario.

Di fronte a queste proposte, che iniziavano a porre dei nodi strutturali, gli industriali disertarono il tavolo.
I pastori, stremati dopo più di un mese di proteste, l’8 marzo 2019 furono costretti ad accettare un accordo a 0,74 euro Iva inclusa al litro per il latte conferito da marzo sino a fine campagna, con l’impegno di un conguaglio a novembre sulla base dei prezzi medi ponderati del Pecorino Romano della borsa di Milano per il periodo tra novembre 2018 e ottobre 2019.
Contestualmente il Mipaaft propose 14 milioni per il ritiro del formaggio in eccesso, 10 milioni per sostenere i piani della filiera ovina e 5 milioni per abbattere gli interessi pagati dagli allevatori sui prestiti.
In tal modo, a novembre, il prezzo del Pecorino avrebbe dovuto raggiunge 8,50 euro al chilo, con un corrispettivo prezzo del latte al litro di 1,02 euro.
Oggi va dai 7,20 ai 7,50 euro al kg, ma il prezzo del latte al litro comunque non rispetta la griglia.
Al tempo stesso, le altre risorse promesse non sono ancora state messe in gioco. A dir la verità, ora sarebbero ancora più inutili e potrebbero essere investite meglio, soprattutto per quanto riguarda i 14 milioni, dato che ormai i magazzini di stagionatura non presentano più eccedenze da tempo, visto che l’annata passata si è conclusa a luglio 2019 con 26.939 tonnellate di Pecorino Romano prodotto, il 21,2% in meno rispetto all’annata casearia 2017-2018, e che ormai tutto il formaggio dell’annata 2018-2019 ha superato i 5 mesi di stagionatura, necessari – da disciplinare – per poter essere commercializzato.

È sempre più evidente che occorre immaginare una riforma complessiva della filiera, per superare le soluzioni tampone e restituire protagonismo agli attori senza i quali nulla funzionerebbe: i pastori.

Dal pastore-conferitore al pastore-produttore 

Il pastore, oltre a essere soggetto a rapporti contrattuali svantaggiosi e alle fluttuazioni dei ricavi, anche sul fronte dei costi vive sempre maggiori difficoltà per via dei cambiamenti climatici che incidono sui pascoli, sulle quantità produttive e sulle condizioni sanitarie e riproduttive del bestiame.
Oltre a essere il produttore della materia prima, dal suo lavoro quotidiano passa la grande parte dell’indotto: caseifici, mangimifici, trasporti, mattatoi, il settore meccanico e delle costruzioni fino ad arrivare al terziario, dei veterinari, dei biologi, degli impiegati delle Asl, di enti regionali e delle due facoltà universitarie, Agraria e Veterinaria.

La sua importanza, tuttavia, ha anche un valore sociale, culturale e ambientale. Il pastoralismo è un elemento centrale per la vita di tanti paesi, nonché un forte marker identitario dell’isola intera. I pastori sono essenziali per mantenere i terreni puliti, per prevenire gli incendi, il dissesto idrogeologico e l’incuria. Infine, sono tra i principali custodi del paesaggio, che ha un valore storico e culturale sempre più importante in termini economici e turistici.
Eppure, nonostante la sua centralità, il pastore vive una condizione di debolezza economica e ricattabilità che può risolversi soltanto se si affrontano alcune sfide decisive per rovesciare i rapporti di potere interni alla filiera ovi-caprina.
Innanzitutto, attraverso percorsi formativi, consulenza e opportuni incentivi economici, i pastori devono affrontare la storica sfida di raggiungere una diversificazione dei ricavi tesa a ridurre la via del conferimento del latte, ritagliando parte della materia prima per la chiusura in loco della filiera produttiva. Obiettivo: sganciare una parte del reddito aziendale dalla volatilità dei prezzi del latte al litro.
Ciò significa arrivare a produrre delle lavorazioni di qualità – anche e soprattutto in cooperazione con altri pastori del territorio, in particolar modo per l’acquisto di refrigeratori comunitari –, trovando nuove modalità di vendita diretta, fondata su relazioni di fiducia e reciprocità, e su canali eCommerce, affrontando un complessivo e irrimandabile «salto tecnologico», come fanno già diversi minicaseifici.
Oltre alla necessità di diventare pastori-produttori (non più esclusivamente pastori-conferitori), servono investimenti per la costruzione di adeguate strategie digitali singole e comunitarie.
Vanno poi rivendicate politiche che incentivino realmente, economicamente e in termini formativi, la multifunzionalità delle aziende, ad esempio per affiancare all’allevamento ovino altre forme di allevamento, per curare le biodiversità e il paesaggio, per creare fattorie didattiche, servizi agrituristici, di pet therapy o di agricoltura sociale, e abbassare i costi aziendali tramite l’autoproduzione dell’energia con impianti fotovoltaici.

Chi può innescare e seguire questa rivoluzione di mentalità, prima ancora che di capacità, competenze e saperi? Serve certamente una presa di coscienza dei produttori stessi rispetto all’immensa ricchezza che potrebbero mettere a valore senza essere costretti a svenderla.
Poi ha un ruolo l’università in collaborazione con gli enti regionali del settore, nella definizione di strumenti e competenze e nel recupero e nella re-immissione innovata dei vecchi saperi delle scuole «improprie» di campagna, gli ovili, come li definiva Michelangelo Pira.
Infine, serve un’azione chirurgica da parte di un’inedita equipe pubblica di professionalità transdisciplinari, che sostengano i produttori in tutte le fasi produttive. Equipe del genere aiuterebbero a redigere piani di sviluppo personalizzati integrati e dialoganti con dei complessivi piani di sviluppo produttivi territoriale che dovrebbero essere animati dalle istituzioni locali e dai Gal.

Il domani dei pastori è un «ritorno al futuro»: un recupero e innovazione di quell’expertise artigianale e di quella complementarità virtuosa tra pastorizia, agricoltura e ambiente, fortemente compromessa in questi ultimi decenni dall’affermazione di un modello insostenibile fondato sul gigantismo dei volumi produttivi, per sorreggere una concorrenza basata sul costo e non sulla qualità del prodotto. Un modello che ha generato il circolo vizioso che è culminato con le ripetute crisi del prezzo del latte e l’erosione del reddito delle piccole aziende di allevatori, che hanno visto crescere sensibilmente i costi fissi di produzione (tecnologie, aumento dei capi, carburanti, elettricità, mangimi, spese di irrigazione) e la dipendenza dagli input esterni precedentemente trattati.

Sul lungo periodo, i pastori devono tornare a essere al contempo allevatori, produttori e commercianti, recuperando progressivamente il controllo sulla trasformazione e la vendita, le fasi in cui si genera maggior valore aggiunto, cooperando tra loro per acquisire la forza per poter decidere dove e come vendere i propri prodotti.
Per liberarsi dalla dipendenza e acquisire autonomamente potere contrattuale anche nei confronti della grande distribuzione, la strada è la costruzione di organizzazioni di produttori partecipate da migliaia di pastori e dalle aziende della trasformazione, accordandosi per produrre e trasformare decine di milioni di litri di latte, con un accordo all’origine, sul prezzo al litro, e alla fine, sul prezzo del prodotto al mercato. 
 Ciò permetterebbe di controllare meglio le quantità della produzione e dunque il prezzo di mercato, superando la competizione tossica tra trasformatori che ricade sui produttori. Ma ciò porterebbe anche a ragionare realmente di diversificazione del prodotto, che abbisogna di grandi investimenti sulle professionalità, sulle certificazioni, sulla promozione.
La scintilla per avviare tutto questo non passa né dai Consorzi, deputati a tutelare esclusivamente le loro rispettive Dop, né dalle aziende e cooperative della trasformazione, strutturate in larga misura per la monoproduzione del Romano, né dalla politica, che al più deve smettere di sprecare soldi per politiche assistenziali o volte al ritiro periodico delle eccedenze, contribuendo invece all’ideazione di una riforma complessiva del settore. L’innesco passa innanzitutto dai pastori che decidono di aggregarsi e di produrre una vasta gamma di prodotti, coniugando la ricerca della qualità con la salvaguardia della dignità del proprio lavoro.

Innovazione, diversificazione e commercializzazione

Se l’unico orizzonte possibile è quello tratteggiato poco sopra, vanno anche identificati degli obiettivi di medio termine che permettano di migliorare la situazione a favore dei produttori. Una svolta complessiva non passa dal mero rispetto del tetto produttivo del nuovo Piano di Regolazione dell’Offerta 2019/2022 del Consorzio di Tutela del Pecorino Romano.
Né tantomeno dalla trasformazione di parte del prodotto in formaggio da tavola, riducendone la sapidità, in linea con gli indirizzi dei medici e dei nutrizionisti, nonché delle nuove tendenze di consumo. Del resto, dei passi sono già stati compiuti: da poco sono stati lanciati tre nuovi tipi di Pecorino Romano e il formaggio oggi può raggiungere una salatura del 3,5%, contro l’8% di un tempo. Certamente ancora abbastanza lontano dal Parmigiano Reggiano che ha l’1% di sale o dalla Dop del Pecorino Sardo, che registra l’1,5%.
Di quest’ultimo e degli altri formaggi quantitativamente «minori» occorre parlare.
Secondo Oilos, Organismo interprofessionale del latte ovino sardo – che avrebbe dovuto avere il compito di amalgamare la filiera ma che non è mai decollato –, nel 2018 la produzione dei tre pecorini è stata di 550 mila quintali, dei quali 340 di Pecorino Romano (superando ampiamente il tetto d’equilibrio dei 280 mila quintali), 20 di Pecorino sardo Dop, 7 di Fiore sardo Dop e il restante in cotti e semicotti senza denominazione protetta. Tutti prodotti che andrebbero opportunamente valorizzati, per la loro qualità e per la stretta connessione con la storia e la cultura isolana.
Il Pecorino Sardo è riconosciuto come il formaggio identitario per eccellenza, mangiato perlopiù dai sardi e ricercato dai turisti quando vengono in vacanza.
Il Fiore Sardo, il cui perno produttivo è da sempre stato Gavoi e in generale la Barbagia di Ollolai, presenta una testimoniata qualità del prodotto, essendo derivante da una lavorazione a latte crudo e solo da pecore di razza sarda.
Per non parlare del resto della produzione dei formaggi ovini, che è ricco di differenze pregne di storia; tra i tanti: pecorino di Osilo, di Nule, casizolu, pirittas, canestrati, bonassai, caciotte, ricotta e via dicendo.

Senza addentrarsi tra i formaggi senza denominazione protetta, che come già detto potrebbero costituire una valida opportunità per l’economia di piccola scala, la vendita online e offline e l’attrattività turistica delle aziende pastorali, per far crescere la produzione delle due Dop marginali, investendo i mercati internazionali e le nuove tendenze di consumo globali, serve innanzitutto educare al consumo, fare informazione, avere una forte comunicazione istituzionale con l’obiettivo di creare nuova domanda.
Un esempio emblematico ci viene dal Consorzio del Parmigiano Reggiano che nel 2019, dei 38,4 milioni di euro di profitti, ne ha destinato 22,4 milioni al marketing, di cui 8,6 milioni destinati oltreconfine, tra cui nuovi progetti Paese in Australia, Centro America, Area del Golfo e Balcani, dopo i 14,3 milioni del 2017 e i 20,3 milioni del 2018.

Occorre, poi, avere una visione di lungo termine, indirizzando degli sforzi per lo studio e la definizione di nuovi prodotti che facciano del riconoscimento della qualità uno strumento per la differenziazione del prezzo e l’ingresso in nuovi mercati.
Chi oggi trasforma milioni di litri deve essere spinto ad assumersi un maggiore rischio d’impresa per scommettere sull’innovazione del prodotto (per esempio creme, yogurt, meno sale, senza lattosio) e di packaging (monoporzioni formato snack, zip, formati a cubetto, petalo ecc.) al fine di incrociare le tendenze di consumo giovanili (apericena, finger food, ecc.), nuovi canali di consumo (hotel, ristoranti, catering etc.) e nuovi paesi che dimostrano un aumento vertiginoso dell’import di alcuni prodotti: un esempio è la Cina, dove i settori benestanti considerano sempre più il latte in polvere come un safe food particolarmente adatto ai neonati.

Il latte sardo, principalmente derivante da pascolo, è uno dei migliori al mondo: ciò non si può registrare esclusivamente dai consueti prerequisiti sanitari (grasso, caseina, proteine, cellule somatiche, carica batterica etc), ma, come evidenzia una ricerca di Agris, dal contenuto di acido linoleico coniugato, il Cla, ricco di effetti benefici per la salute, da un livello di acidi grassi Ω-3 (in particolare Epa e Dha) superiori rispetto a quello di pecore allevate in stalla, nonché da una maggiore concentrazione di vitamine (Vitamine A ed E) che consente un grado di protezione antiossidante superiore.
La grande produzione industriale rischia di minare queste qualità e gli imprenditori devono scommettere su un maggiore controllo del prodotto, sulla certificazione della sua storia e delle sue caratteristiche, su un conseguente lavoro di storytelling sulle qualità nutraceutiche e sensoriali fortemente connesse all’ambiente e al paesaggio dell’isola.

Differenziarsi sulla sostenibilità e sulla qualità, dimostrando e raccontando come un formaggio ottenuto da latte ovino di pecore alimentate con fieno e insilati (caso frequente in Francia e Spagna) non sia la stessa cosa di un formaggio derivante da latte di pecore allevate al pascolo in Sardegna, è un vantaggio che può valere per le Dop, ma anche per i formaggi destandardizzati e territorialmente connotati, prevalentemente a latte crudo, prodotti nei minicaseifici multifunzionali che si spera possano moltiplicarsi nei prossimi anni.

Per finire, sul fronte della commercializzazione, bisogna rivendicare in tutti i modi una pluralizzazione dei mercati di sbocco, a partire da quello sud-est asiatico, in forte crescita in termini di importazioni di formaggi.
Tanto può passare dal ruolo delle reti di emigrati, dei ristoranti e dal tipo di storytelling che si decide di adottare sul piano informativo e promozionale.
Ma soprattutto, come già detto, una strategia utile potrebbe essere quella di puntare sulla sostenibilità ecologica dell’allevamento estensivo e semi-estensivo sardo e la qualità del prodotto derivante da essa.
Per vendere non basta cercare nuove terre e nuove fasce di consumatori, ma occorre saper valorizzare ciò che abbiamo, che rende la Sardegna unica, e farlo pesare nei mercati globali.

Senza i pastori la Sardegna muore, senza la Sardegna la pastorizia muore 

«Senza i pastori la Sardegna muore», si è spesso ripetuto nelle piazze dello scorso anno.
Al tempo stesso, senza la Sardegna la pastorizia muore.
Serve una nuova consapevolezza collettiva accompagnata da inedite iniziative politiche, economiche e culturali che superino la gestione emergenziale finora attuata, immaginando insieme agli attori principali un percorso di sviluppo della filiera ovicaprina.
E serve subito, per affrontare nel corso dei prossimi anni un grande problema del settore, ovvero la sua senilizzazione. Oggi fare il pastore non è conveniente e tanti giovani, pur avendo la volontà e le competenze, non hanno le condizioni basilari per poter scommettere su questo lavoro.
Costruire le basi affinché essi possano animare in futuro le campagne della Sardegna è essenziale per il benessere di tutta l’isola e per aiutare a risolvere il fenomeno dello spopolamento, che non è una semplice contrazione demografica, ma diventa sempre più effetto e causa di una contrazione economica, sociale e culturale sempre più grave.
Sono le generazioni future ad aver in mano la possibilità di studiare e praticare la strada dell’aggregazione tra produttori, della piena diversificazione, della competizione nei mercati globali attraverso la distinzione qualitativa, della multifunzionalità della propria azienda che è funzionale al benessere animale, alla custodia e alla valorizzazione delle biodiversità, dei paesaggi, della storia, alla creazione di filiere corte, di nuovi rapporti di reciprocità e di tutte le altre possibilità che abbiamo in parte accennato.
Sono le generazioni future ad avere la possibilità di valorizzare il proprio lavoro e al contempo di tutelare dei beni collettivi fatti di saperi, cultura, ambiente e capacità oggi ampiamente sviliti da un intero sistema che si poggia sulle spalle dei più deboli.

Oggi siamo noi a dover alzare la voce e a porci l’obiettivo, con coraggio, studio e impegno, di iniziare un percorso di emancipazione.
La questione pastorale deve tornare a essere centrale nel dibattito politico, con un programma di rivendicazioni e azioni che guardi dalla mungitura alla commercializzazione, fino ai risvolti positivi che ha il pastoralismo in termini ecologici, sociali ed economici.
Non serve una politica che si impegni esclusivamente per una migliore gestione dei finanziamenti e dei pagamenti del Piano di Sviluppo Rurale o del Premio Unico, né nuovi enti o palliativi economici. Non serve una politica che si nasconde dietro i dati, le discussioni per addetti ai lavori, i tavoli inconcludenti, i ritiri delle eccedenze, le promesse, per poi stare sempre dalla parte dei grandi industriali o della grande distribuzione. Va relegata al passato, immaginando un’alternativa di futuro.

È tempo di costruire un discorso di cambiamento strutturale che coniughi la risoluzione della questione pastorale a quella della lotta allo spopolamento, pilastri di una più generale «questione sarda» che non può essere affrontata nella sua complessità se non emergono le tante voci che la compongono, con le loro particolarità, i loro problemi e le loro possibili alternative alle miserie di questo presente.

*Danilo Lampis, laureato in scienze filosofiche, lavoratore precario e amministratore comunale di Ortueri (Nu).

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