domenica 31 maggio 2020

La pace sociale è una guerra a bassa intensità.

Una riflessione su I Miserabili, il film di Ladj Ly ambientato in una periferia parigina che affronta i temi degli abusi della polizia e, in fondo, della capacità di innescare la rivolta a partire dalla consapevolezza della propria vulnerabilità.



 «Non ci sono né cattive erbe né uomini cattivi. Ci sono solo cattivi coltivatori» si chiude con questa citazione di Victor Hugo I Miserabili, film di Ladj Ly, già autore di riprese delle violenze poliziesche nel quartiere dove è cresciuto, a Les Bosquets, nella periferia parigina. 
Il regista ha sempre usato la camera da presa come difesa contro gli abusi di potere della polizia francese, che spesso si comporta da vero e proprio esercito di occupazione al contempo pretendendo integrazione e trattando i suoi cittadini come colonizzati senza diritti né umanità.
La storia ruota intorno alla ripresa di una violenza della polizia contro un bambino e al tentativo di non far deflagrare il conflitto nel quartiere tra dei rom che conducono un circo, gli abitanti afrodiscendenti e le due organizzazioni che si contendono il controllo del territorio: la criminalità e la polizia, in qualche modo parificate come in quell’epopea noir che è Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide (1966) di J.P. Melville.
La violenza è lo strumento con cui viene gestito il disordine nel quartiere di Montfermeil, periferia di Parigi. Paura, e non rispetto, legano gli abitanti ai poliziotti. Scambi di vantaggi, e non diritto e responsabilità individuale davanti alla legge, legano le bande, la politica e la polizia. Omertà e giustizia vengono confuse nel quotidiano controllo della pace sociale, in realtà una guerra a bassa intensità. La frase di Hugo sembra voler assolvere – o forse incoraggiare – i ragazzi che si ribellano ai padri – e sono padri, e non madri infatti i responsabili della violenza poliziesca e criminale. La frase di Hugo sembra voler dare la chiave di lettura del film. La violenza è del sistema e non degli attori sociali.
Il rapporto tra violenza del sistema e degli attori sociali a cui allude l’uso della citazione di Hugo è quella del razzismo istituzionale, dove le responsabilità individuali sfumano dentro un più ampio meccanismo di difesa in forza di legge dei privilegi della maggioranza. È il razzismo contemporaneo, quello differenzialista, che teorizza l’inferiorità non solo a partire da delle falsità biologiche, ma, soprattutto a partire dalla trasformazione della cultura in una razza, della povertà in destino, esito necessario delle predisposizioni dei soggetti non bianchi. Rischio corso anche del regista che rappresenta la comunità rom circense nel film in modo superficiale e stigmatizzante: una banda di matti, di sadici che ama più gli animali che gli esseri umani. È il problema di alcune politiche identitarie di chi è dominato: nella denuncia dell’ingiustizia subita non si vede ciò che unisce ad altri oppressi. E si fa dello stigma un oggetto di orgoglio, con esiti spesso paradossali come denunciò già Frantz Fanon.

E d’altronde, per tornare al tema dei coltivatori, le responsabilità ci sono. Sarebbe altrimenti inspiegabile capire come mai dopo le rivolte del 2005, le già scarse e fatiscenti infrastrutture pubbliche distrutte nella rabbia della rivolta, non siano state ricostruite, e migliori servizi e opportunità non siano stati garantiti, come ricorda nel film l’ex criminale Salah convertito all’islam. Infrastrutture distrutte in quanto interpretate come simboli di occupazione, architetture dello stato di polizia legalizzato in cui la polizia può chiedere centinaia di volte all’anno i documenti a dei cittadini, portarli in caserma e incarcerarli in modi sconosciuti alla popolazione bianca della Francia. E spesso ucciderli, come accadde quando scoppiarono le rivolte nel 2005 e come continua a succedere in Francia, negli Stati uniti e in tanti altri stati. È il razzismo come esposizione prematura alla morte, fisica o sociale, di cui scrive Ruth Wilson Gilmore. Morte prematura spesso disconosciuta da chi è solito denunciare la violenza di chi è oppresso e insorge, senza riconoscere quella di sistema, del welfare, del mercato del lavoro, dell’integrazione subalterna. Non ci può essere critica della violenza che non sia anche critica delle ingiustizie che la favoriscono.
Eppure c’è della logica in queste forme di disconoscimento, di negazione della parola e della razionalità di chi si rivolta. Come scriveva Jacques Ranciere, è l’esito di una specifica partizione del sensibile, di una certa distribuzione del diritto al riconoscimento come soggetti capaci di rivendicare – e ottenere – diritti. Al di là della trasformazione dello stato sociale, dove la polizia e le carceri contano molto più del welfare e del diritto al lavoro, i cittadini bianchi – les petit blancs, di cui scriveva Albert Memmi a proposito delle colonie – hanno interesse nel mantenimento della subordinazione dei cittadini non considerati degni di vita. Nella depressione per il presente e nell’orrore per il futuro, incontrollabile, e segnato dall’irreversibile declino sociale, i ceti medi impoveriti e bassi non possono che contare sul salario psicologico della differenza che li divide dai non bianchi – e per bianchi non si intende solo il colore della pelle ovviamente, ma una precisa gerarchia di valori e identità sociali legate al soggetto della nazione.
Non è infatti solo il calcolo delle imprese e della politica a produrre l’esclusione radicale di chi non è e non verrà mai considerato pienamente cittadino, ma è il differenziale di prestigio sociale e di eguaglianza davanti alla legge – e alla polizia – e nell’accesso al welfare dei ceti proletarizzati bianchi che può spiegare la peste nazional-populista in Europa e Stati uniti. Ed è alla non-bianchezza e alle mistificazioni del nazionalismo, che è dedicata la prima scena della festa per la vittoria della Francia ai mondiali del 2018. La telecamera va sui volti dei cittadini della nazione non garantiti nei loro diritti e però rappresentati dai campioni nel calcio. L’unico salario psicologico che possono ricevere i non bianchi è nel vincere come nazione di calcio, per essere integrati mediaticamente per pochi minuti, dopo i quali si tornerà ai propri quartieri ghettizzati. Integrati nel regime spettacolare dell’immagine e finalmente in mondovisione. Esclusi per il resto dei loro giorni.
Il poliziotto buono, protagonista del film, rappresenta le forze democratiche, non pienamente razziste e non coerentemente antirazziste, che cercano la mediazione impossibile tra il mantenimento dello status quo e le rivendicazioni di cambiamento. Ma è una democrazia ben misera, un’umanità piuttosto disumana quella di chi non si ribella, di chi accomoda la violenza razzista con qualche timida lamentela, al massimo portando in farmacia – invece che all’ospedale – le vittime del flashball. Senza denunciare ma al massimo riponendo fiducia nella capacità morale di chi, «perdendo la lucidità», spara su dei bambini disarmati. Ma sparare forse non è una forma di assenza di lucidità, ma piuttosto il disvelarsi della verità del controllo statale dell’ordine. Si spara su dei bambini in rivolta perché se non si sparasse i bambini potrebbero pensare di poter far arretrare la polizia, di poter contendere a loro e ai piccoli mafiosi di quartiere l’organizzazione del territorio. Quindi bisogna sparare per affermare chi esercita legittimamente la violenza. D’altronde, si sa che il fondo di questa legittimità è piuttosto precario e va rinnovato con dosi quotidiane di violenza, in particolare verso i cittadini non bianchi, verso gli stranieri, i marginali, i rivoltosi e chiunque sia incluso subordinatamente.
Le rivendicazioni non ascoltate dai tutori della democrazia formale, dai poliziotti buoni e dal loro doppio di quelli cattivi, non sono solo le espressioni politiche della rabbia, ma anche le forme di vita che si esprimono dentro e contro la miseria dei ghetti, dalla piccola criminalità, alla solidarietà etnica, all’organizzazione religiosa della comunità. Non si tratta ovviamente di ridurre tutti i fenomeni a un’unica matrice socioeconomica, ma come la crisi sociale provoca rafforzamenti identitari in chi ha poco altro su cui contare, così anche alcune scelte religiose possono essere lette in relazione al contesto di deprivazione in cui si sviluppano. Nel film questo ruolo è incarnato da Salah, ex criminale convertitosi all’Islam e attivo nel proselitismo di quartiere dei Fratelli Musulmani. Per ragioni morali, di supposto male minore in un presente senza scampo, e di pacificazione sociale, aiuterà la polizia a insabbiare un caso che avrebbe potuto far esplodere le tensioni congelate dalle strategie di contenimento di polizia e criminalità.
La politica nel film non è quella dei partiti o delle istituzioni, ma quella delle alleanze volte a contenere la violenza entro un certo limite. La politica dei ragazzi romperà questa politica degli adulti. «Tu sei nuovo, non puoi capire», dicono i poliziotti del quartiere al nuovo arrivato sgomento davanti all’arbitrio sessista del superiore. La violenza, l’abuso e la collusione non sono l’eccezione nella regolazione dell’ordine, sono la norma. In questo senso il tono controllato del film – inusuale e notevole a fronte della solita facile enfasi dei film di denuncia e/o alla moda à la Joker, dove la violenza delle masse oscilla ambiguamente e hollywoodianamente, tra quella del fascismo e quella delle rivolte anti-austerity – è coerente con il contenuto. E però, nella scena finale, invece c’è tutta l’ambiguità – forse estetizzata – della scelta di dare la morte o no a un altro essere umano.  Un cedimento all’effetto – come nella patetica lezione morale sul rapporto tra leoni e uomini fatta pronunciare a Salah – che rischia di indebolire la potenza dello stesso messaggio che lancia.
Il film si chiude con la scelta, la responsabilità, subito dopo negata dalla frase di Hugo che apre i titoli di coda. E però la verità non sta nella negazione deterministica della capacità morale dell’individuo, ma forse proprio in essa, in quella capacità di dire no, di tracciare la linea di cui parlava Albert Camus, nella disobbedienza civile. Disobbedienza che non è un happening, come ammoniva il tardo Gunther Anders non più convinto dalla non-violenza radicale. Non-violenza non è una passeggiata in compagnia, ma riconoscimento e presa in carico della vulnerabilità propria e delle altre e degli altri, come innesto della rivolta. Sta qui forse il senso del film. Pur non condannando la violenza dei ragazzi – come è giusto che sia se non si fanno ragionamenti più sistemici, ossia esattamente come non fanno i media cosiddetti progressisti – è nella responsabilità individuale, nel riconoscere nell’altro un essere umano, persino nel perpetuatore dell’ordine che opprime, che si apre una politica dell’universale, che trascenda le spirali senza fine della violenza identitaria.
Non c’è eroismo nel volto di chi guida la rivolta, in Issa, sfigurato dalla violenza poliziesca. C’è rabbia, ma c’è anche, proprio per averla subita di persona, consapevolezza della violenza, che pure viene agita contro altre vite. E infatti la politica dei ragazzi – anch’essi quasi tutti maschi, forse spia di un distanziamento del regista dalle forme di violenza di cui sono portatori – è una politica del conflitto. Ma il disaccordo che fonda la politica può non avere un esito mortale. Dipende dalle donne e dagli uomini, dal tentativo di interrompere il «cattivo coltivare».

*Bruno Montesano è studente di Master della School of Oriental and African Studies (Soas) di Londra. Collabora con la rivista gli Asini e con l’organizzazione Sbilanciamoci!.

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