domenica 31 maggio 2020

E se la tutela della salute fosse solo una scusa?

Da qualche giorno a Brescia e Milano è vietato vendere bevande d’asporto. A Brescia alcoliche e analcoliche, dopo le 20.00, dal giovedì alla domenica. E nemmeno supermercati e negozi di vicinato possono farlo. A Milano l’ordinanza è riservata all’alcol, ma salva i supermercati.

effimera.org Andrea Cegna

Ordinanze diverse, quella bresciana imposta dal tavolo per l’ordine e la sicurezza. Quella milanese dal sindaco Sala. Giovedì sera il centro di Brescia era pieno di polizia che passeggiava per le strade dei bar “verificando” che non ci fosse consumo stradaiolo di bevande. Di fatto un grande assist ai locali che hanno posti a sedere all’esterno. Di fatto una limitazione della socialità, o meglio di una certa socialità e dello spazio pubblico.
Non è una novità post pandemia che le amministrazioni comunali attacchino le forme di socialità, soprattutto informale, nelle città.
Non stupiscono retoriche, dichiarazioni di sindaci, e titoli a nove colonne sui giornali main-stream. Non è nemmeno nuova la dinamica di un racconto generazionale, giovani vs anziani/e, ma se le foto degli “scandali” si osservassero con attenzione si vedrebbe che il dato “generazionale” non esiste ed è una semplificazione poco utile.
E se proprio uno scontro potrebbe esistere è lo scontro tra chi può permettersi di sederi ad un tavolino del bar, e chi invece per bersi una birra o una coca cola ha solo l’opzione del negozio di alimentari.

Le scelte di Brescia e Milano agiscono sulla città intera seppure le scene di assembramento riguardavano zone specifiche e ben perimetrabili. Una limitazione collettiva per un caso isolato. E non solo isolato, perchè i Navigli o Piazzale Arnaldo sono luoghi della città dove per anni le amministrazioni han dato possibilità di aprire locali uno sopra all’altro e per anni è stato concesso in quelle zone ciò che altrove vedeva retate di polizia e repressione. Ora si usano quei luoghi della città, costruiti e disciplinati in una direzione, per colpire l’intera popolazione.
Proviamo a fermare il tempo e far finta che non si sia in pandemia, cosa si sarebbe detto sugli attacchi “al popolo dell’aperitivo”? Probabilmente il dibattito si sarebbe schiacciato su due poli: la difesa della vita nello spazio pubblico vs la difesa del diritto al sonno e del quieto vivere. Poche e circostanziate voci avrebbero provato a ragionare sulla diversità di necessità individuali che necessariamente, in una città e/o metropoli, generano scontro e quindi necessiterebbero di un dialogo, sapendo che nessuna delle polarizzazioni è di per se sbagliata ma nemmeno giusta. Al di la del dibttito, la politica avrebbe usato lo scontro per provare a portare avanti l’idea di città che più aggrada i governanti. Spesso rispondente alle logiche del decoro, e quindi al sogno di una città asettica e disciplinata con un ultra perimetrazione dello spazio urbano, dove lo spazio pubblico deve essere solo uno spazio di passaggio, con la vita delle persone che si svolge dentro luoghi privati ed adibiti a rispondere alle diverse esigenze. Questo l’abbiamo già visto, per esempio, nei parchi delle città, dove in molti è stato vietato il gioco della palla, di fatto favorendo lo spostamento delle persone in quei luoghi dove il gioco della palla è consentito, magari perchè a pagamento. Come sostenevo nell’incipit, l’attacco ad alcuni luoghi e modalità di vita sociale viene attenzionata dalle amministrazioni da tempo. L’attenzione di solito ha generato la lotta alle forme informali di socialità, con delibere e dibattito pubblico volto a reprimere la vita sociale in parchi e piazze, spostando il tutto dentro gli spazi del consumo.
Torniamo ad oggi e situiamo il dibattito in corso partendo dalle foto “scandalose” di Piazzale Arnaldo o dei Navigli. Il dibattito che si è generato cambia. E nel nome della “salute pubblica” le traiettorie della discussione. La polarizzazione non guarda al diritto ma ai rischi sanitari, tra chi attacca chi si ammassa a bere l’aperitivo e chi invece giustifica (un po’ è accaduto con la questione “runner”). Pare mancare un passaggio: perchè aree urbane costruite ad hoc per avere centinaia di avventori, con bar l’uno attaccato all’altro, e un via vai “strutturale” di chi cerca un tavolo e aspettando beve qualcosa in strada non sono state gestite in maniera particolare, e con la dovuta cura, lasciando agli esercenti la scelta se aprire o meno, e anche sul come aprire? Si potrebbe dire che le amministrazioni non hanno il “potere” di intervenire su tutto, vero, rispondo. Ma se l’area è delicata le amministrazioni, responsabili della governace, hanno l’obbligo di affrontare la questione, cercando, anche forzatamente, forme di concertazione che uniscano il diritto all’aggregazione e la socialità con l’attività economica dei commercianti e la cura della salute pubblica. E’ stato fatto? Forse in parte, o meglio dire che probabilmente con modalità formali si, quasi certamente te trattando ogni bar nella stessa maniera. Sembrerebbe che per alcune amministrazioni è stato comodo si generasse il caso, perchè con la scusa della tutela della salute pubblica si è potuto accelerare sugli scontri di cui parlavo all’inizio, e risolverli in maniera repressiva.
Si potrebbe pensare che il discorso sia machiavellico e che la corsa alla trasformazione dello spazio pubblico in spazio di passaggio sia una forzatura. Si potrebbe. Io penso sia uno dei tasselli fondamentali nella costruzione della città del capitale, dove l’elemento di estrazione di ricchezza deve essere massificato il più possibile, e una città disciplinata è una città economicamente più florida. I poveri erano e restano utili da essere sfruttati ma un peso per lo sviluppo della città. Devono pian piano invisibilizzarsi e materializzarsi solo quando lavorano. Finito di lavorare lontani dalla vista dei turisti e degli investitori. Torniamo alle foto, qualcuno dirà si vuole negare che ci siano stati atteggiamenti irresponsabili e che non hanno seguito le prescrizioni su mascherine e assembramenti? Penso che la risposta sia molto più complessa che si e no. Ma ammettiamo che sia si, è stato così, possiamo quindi forse dire che le responsabilità sono condivise? no. Se premiamo sul tasto della responsabilità non possiamo accettare che le scelte individuali, dei commercianti e della politica abbiano lo stesso gradiente, responsabilità e conseguenze. Se è certo che alcuni commercianti hanno riaperto “come se nulla fosse” e la politica ha trovato forme d’interesse nello speculare sulle immagini degli aperitivi e creato caos comunicativo, le scelte individuali, che non devono essere per forza difese e considerate corrette nel nome del diritto alla socialità, scontano le ambiguità della comunicazione e certo anche le variabili umane. Uso le parole di Alessandro Diegoli, conduttore di Radio Popolare, su Facebook per spiegarlo “il tira e molla tra allentamenti e strette che disorienta tutti quanti è figlio di una gestione seicentesca dell’epidemia, non dei comportamenti dei singoli. Siamo stati irreprensibili per settanta giorni, tutti a casina o in giro con l’autocertificazione e, invece di darci una pacca sulla spalla spiegandoci le ragioni di scelte impopolari, ci trattano come svantaggiati con quel tono tra il paternalista e l’autoritario“.
Aggiungo un pezzo. Possiamo assumere che persone che sono obbligate a sfidare il rischio del virus quotidianamente per andare a lavorare dopo mesi di chiusura forzosa decidano anche che se possono ammalarsi per timbrare il cartellino allora possono farlo anche per divertirsi? L’atteggiamento è irresponsabile?
O è irresponsabile la corsa alla riapertura e l’ambiguità con cui si pretende attenzione sanitaria senza però introdurre politiche sanitarie? Possiamo davvero accettare che l’irresponsabilità sia uguale per politica ed individuo? Che politica, commercianti e singoli cittadini abbiano stesse responsabilità, penso, sia da respingere con forza. In più, penso, sarebbe interessante indagare su come gli atteggiamenti individuali rispondano alla costruzione di un clima, del discorso egemone, e delle frammentate, ambigue e contrastanti posizioni scientifiche. Anche perchè, penso sia bene ricordarlo, le mascherine sono obbligatorie all’aperto in Lombardia e Piemonte. Nel resto d’Italia no. E ci sono paesi come la Danimarca dove non sono obbligatorie.
Fatto sta che oggi, casualmente, i luoghi che fanno “caso” siano quelli, mi pare, che in diverse città erano già all’interno di accese discussioni e dibattiti. “Casi” ampiamente prevedibili, quindi, e che casualmente si sono verificati nei primi giorni di “riapertura”. Mi pare che si stia vivendo però un cambio di fase sull’argomento generale e quindi non più, solo, lo spostamento dell’aggregazione informale in aree del consumo ma un vero e proprio confinamento delle persone dentro gli spazi del consumo, e l’accelerazione nella trasformazione dello spazio pubblico a mero luogo di attraversamento e passaggio. Non che questo non fosse già in corso. La scelta di Sala di bloccare la vendita “delle bevande d’asporto” risponde a questa logica binaria e si somma ai dispositivi repressivi già in vigore come il daspo urbano. Così come a Brescia. Piazzale Arnaldo era da mesi attenzionato con campagne mediatiche e multe della polizia municipale. Ma a Brescia l’amministrazione guardava con fastidio anche ai gruppi di giovani che di sera, dopo aver fatto la spesa al supermercato, si trovavano e ubriacavano in piazza. “Casualmente” a Brescia, come ricordavo prima, la vendita di bibite è vietata anche per i supermercati.
Di fatto le amministrazioni usano la scusa della salute pubblica per forzare precedenti progettualità di trasformazione delle abitudini e usi aggregativi.
Si aprano però importanti ragionamenti. E’ sensato difendere il “popolo dell’aperitivo” e quell’uso dello spazio pubblico?
Non sarebbe necessario, e forse già era necessario, ripensare e ridefinire lo spazio pubblico, come spazio di socialità e cura, unendo esigenze umane, aggregative e sanitarie per imporre un discorso diverso? Non sarebbe interessante che i nostri luoghi sperimentassero forme sicure di spazio pubblico collettivo? Dove per sicuro intento la rimodellazione fisica e sociale degli spazi, per garantire cura e rispetto delle diversità di genere, per far sentire a proprio agio tutte, tutti, e tutto?

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