Intervista a Enrico Giovannini. "Aumenta il prezzo dei beni alimentari, mentre gli altri scendono". Il virus produce più diseguaglianze perché "investe un paese già fragile e con un welfare inadeguato".
Professore Enrico Giovannini,
sono passate poche ore dalle Considerazioni finali del governatore della
Banca d’Italia. Lei era a via Nazionale per ascoltarlo. “Finita la
pandemia avremo più diseguaglianze”, ha detto Visco. Cosa c’è dentro
queste diseguaglianze?
Il
Covid-19 ha colpito un Paese già fragile, con un sistema di welfare non
disegnato per affrontare una crisi di queste proporzioni. E ha colpito
in maniera violenta chi già era in difficoltà. Paghiamo il prezzo di una
situazione sociale già indebolita.
Quale?
Prima
della crisi, il 27% della popolazione italiana era a rischio povertà ed
esclusione sociale. Parliamo di oltre 16 milioni di persone. Di queste,
cinque milioni circa erano poveri assoluti e gli altri erano persone
che vivevano in famiglie con una bassa intensità lavorativa o in
situazione di disagio. Ma anche in famiglie che di fronte a spese
impreviste di 800 euro non sapevano come fronteggiarle.
Il
virus ha inferto un colpo durissimo. I poveri, come ha detto Visco,
hanno perso il doppio. I dati Istat di oggi dicono che i prezzi sono nel
complesso scesi, ma quelli dei beni alimentari sono aumentati. Andiamo
incontro a una difficoltà crescente per molti di comprare un chilo di
pane o un pacco di pasta?
Alcuni
aumenti si stanno sentendo subito sul portafoglio perché sono legati ad
acquisti quotidiani. Il carrello della spesa aveva già avuto un netto
aumento e in una situazione come l’attuale è normale che gli alimentari
abbiano forti fluttuazioni. Queste dinamiche colpiscono i più poveri.
Alcuni servizi, come la luce e il gas, hanno avuto un calo e in parte
compensano, ma solo in parte.
La fase 2 si è
avviata, ma gli italiani non spendono. Sempre l’Istat dice che i consumi
sono crollati del 5,1 per cento. Quando potrà esserci un’inversione di
tendenza?
Il punto cruciale è proprio
questo, è crollata la propensione al consumo. Prima eravamo in casa e
non potevamo fare una serie di spese. Ora che siamo usciti dal lockdown
se si chiede alle famiglie come vedono l’economia e il futuro, le
risposte sono molto pessimiste. Ma se gli si chiede come vedono il
proprio bilancio familiare, dicono che c’è un peggioramento, ma non
fortissimo.
Ci spieghi meglio questa percezione del bilancio familiare.
Il
reddito non è caduto nello stesso modo per tutti. Alcuni, chi già era
fragile e povero, hanno avuto un calo maggiore. Ma gli interventi del
Governo, il fatto che il 70% delle attività siano rimaste potenzialmente
aperte durante il lockdown e che una parte del Paese abbia continuato a
funzionare regolarmente fanno dire a molte famiglie che non si è perso
troppo. Ma questo non significa che si sta tornando a spendere. Oggi c’è
la voglia di risparmiare, i portafogli sono chiusi.
Come si riaprono i portafogli degli italiani?
Innanzitutto,
bisogna creare lavoro decente. Il lavoro è molto più che il reddito che
si riceve. Il lavoro è una prospettiva di vita. Servono lavori decenti e
durevoli.
Il Covid-19 di
posti di lavoro ne ha bruciati e ne brucerà a migliaia. Per
Confindustria quasi un milione. Come si creano posti di lavoro dopo una
crisi di questa portata?
In molti modi. Ad
esempio, lo Stato deve avviare rapidamente progetti infrastrutturali per
colmare i ritardi del nostro Paese, magari utilizzando green bond per
raccogliere il risparmio disponibile, vista la loro finalizzazione
mirata allo sviluppo sostenibile. Bisogna sostenere le imprese che
creano lavoro di qualità. D’altra parte, con il Mes si potrebbe
investire per superare le diseguaglianze territoriali e di accesso alla
salute del nostro sistema sanitario. Si potrebbe sviluppare la
telemedicina e l’assistenza domiciliare, o procedendo alla sanificazione
delle bidonville in cui vivono centinaia di migliaia di irregolari che
abbiamo giustamente regolarizzato e considerato essenziali. E poi
mettendo mano alla Pubblica amministrazione.
In che modo?
C’è
una potenzialità enorme nella Pubblica amministrazione, quella del turn
over. Nei prossimi anni andranno via 500mila persone. I nuovi assunti
vanno selezionati con nuovi saperi e con criteri diversi da quelli del
passato. Anche così si crea lavoro, reclutando cioè giovani, aperti
all’innovazione, pagandoli adeguatamente e soprattutto facendoli sentire
parte di un progetto di rinnovamento del Paese.
Il
primo step della ripresa, quindi, è passare dal portafoglio chiuso
degli italiani a un lavoro capace di rimettere in moto i consumi. Come
deve andare avanti questo percorso?
Intendo
leggendo con attenzione i dati disponibili. Da tanti anni mi batto per
andare oltre il Pil per capire lo stato di un Paese. Ad esempio,
l’opinione pubblica non ha capito che i fondi messi a disposizione dal
Governo riducono fortemente l’impatto della crisi sul reddito
disponibile delle famiglie, dato poco citato dalla stampa. D’altra
parte, si sta cercando di raggiungere anche i molti che non avevano una
protezione. Il Reddito di emergenza che abbiamo proposto e che è stato
istituito va pubblicizzato, cosa che non si sta facendo. Ma sul welfare
bisogna rimettere in discussione molte cose.
Tipo?
Il
welfare è stato disegnato fino ad oggi così: i dipendenti sono coperti
da ammortizzatori sociali, mentre gli autonomi si organizzano in modo
diverso e proprio per questo hanno una contribuzione più bassa. Questo
patto è andato in crisi con il Covid-19 e anche gli autonomi vengono
aiutati dalle finanze pubbliche. Bisognerà discutere se questo è il
modello che vogliamo continuare ancora a seguire o meno.
Fermiamoci
al Reddito di emergenza. C’è chi punta il dito contro il governo
lamentando che si tratta dell’ennesima misura assistenzialista. Il Paese
non avrebbe bisogno di interventi a lungo periodo, più strutturali?
Innanzitutto,
il Reddito di emergenza va a chi non riceve altri sussidi e cerca di
impedire che le persone più fragili e povere finiscano nelle mani della
criminalità organizzata. Ma è soprattutto un’occasione straordinaria per
lo Stato di entrare in contatto con gli invisibili. Il passo successivo
è proporre loro un programma di formazione piuttosto che il
microcredito, cioè strumenti che li aiutino a “rimbalzare avanti”.
Riprendiamo il nostro percorso. Riforma della Pubblica amministrazione, un nuovo welfare. E poi?
Non
dobbiamo ripetere l’errore che gli economisti fecero nel 2008. Oggi,
come allora, la crisi non colpisce solo lo stock di capitale economico,
ma anche lo stock di capitale umano (le competenze e i saperi) e lo
stock di capitale sociale, che ha a che fare con la coesione sociale. Se
non si opera per la ricostituzione di tutte le forme di capitale
impattate dalla crisi usciremo da questa crisi indeboliti e incapaci di
creare benessere, come successo nelle crisi precedenti.
Insomma, serve un ribaltamento. Un po’ quel “cambio strutturale” dell’economia che ha invocato Visco.
Esattamente.
Dobbiamo cambiare le nostre politiche, orientandole ad uno sviluppo
sostenibile da tutti i punti di vista. Parlo di una proposta che abbiamo
avanzato come Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS).
Noi spendiamo 19 miliardi all’anno per sussidi dannosi per l’ambiente.
Se li eliminassimo, e usassimo 10 miliardi per tagliare il cuneo
fiscale, stimolando la competitività e dando reddito ai lavoratori, 5
miliardi per sussidi alle imprese per convertirsi all’energia
rinnovabile e all’economia circolare, con 4 miliardi li destinassimo ad
un piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile, lei
crede che qualcuno avrebbe il coraggio di alzare la voce e dire che
questo non si può fare?
I soldi, almeno sulla carta, ci sono. L’Europa ha appena approvato il
Recovery Fund. Dentro al governo, però, già si litiga per come
spenderli. Dove devono andare a finire tutti questi soldi che avremo da
gennaio?
Il Recovery Fund è un’occasione
unica che l’Europa e l’Italia hanno per una trasformazione profonda, nel
senso dello sviluppo sostenibile. Basta leggere con attenzione la
proposta per capire che i fondi messi a disposizione non potranno che
finanziare progetti per la digitalizzazione, la transizione ecologica,
la formazione, la riforma della giustizia, l’aumento dell’efficienza
della pubblica amministrazione. Cioè per trasformare il sistema
socioeconomico nella direzione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo
sostenibile, scelto l’anno scorso dalle istituzioni europee come quadro
di riferimento per il futuro dell’Unione. E questo è un bene per il
nostro Paese, ma smettiamo subito di sognare utilizzi non compatibili
con le strategie europee. Questo paese non rimbalzerà in avanti se la
produttività non cresce. E se non cresce la produttività allora non
crescono né il reddito né l’occupazione. Se non facciamo così le uniche
cose che cresceranno, come ha detto Visco, saranno il debito e le
diseguaglianze.
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