Vorrà pur dire qualcosa il fatto che mentre tutti sono costretti a
“restare a casa” – anzi, a “chiudersi in casa” -, gli unici a dover
“uscire” siano loro, i lavoratori. O meglio, i “lavoratori manuali”.
Anzi, diciamola pure la parola obsoleta: gli Operai. E quelli che come
loro lavorano con le mani.
volerelaluna.it
“Quando la peste batte alle porte della città – ha scritto un opinionista francese chiedendosi Perché oggi rileggiamo La Peste di Camus? – il n’y a plus de place pour l’accessoire”.
Non c’è più posto per l’”accessorio”, per quanto è futile e
superficiale, nella vita quotidiana, ma anche nel pensiero. E nella
coscienza collettiva. Ora, nella gran massa di cose che il coronavirus
ha spazzato via in pochi giorni c’è anche quella falsa credenza, vero e
proprio luogo comune delle retoriche neoliberiste, secondo cui il lavoro
manuale sarebbe un residuo solido del passato. Marginale e poco
rilevante. E che le nostre società “avanzate” vanno avanti nella marcia
veloce in ben altri luoghi, su ben altri circuiti, dai reparti, dalle
officine e dalle strade: nelle towers della banca e dell’alta
finanza, nelle ZTL della comunicazione e della creatività,
dell’intrattenimento e della produzione di denaro per mezzo di denaro.
Ora, con la brutalità di una natura feroce, il virus ci dice che non è
così. Che tutto quello che avevamo posto al vertice della piramide
sociale è in realtà “accessorio”. E che il “bene del paese” è affidato a
quell’esercito di paria, che tutti i giorni sono costretti a esporre il
proprio corpo – nei vagoni stipati della metropolitana, su bus
contingentati ma pieni nelle ore di ingresso e uscita dalle fabbriche,
sui furgoni della rete logistica che credevamo consistesse in un
algoritmo ma che in realtà funziona a sudore, nei reparti delle
fabbriche ad avvitare bulloni o produrre mascherine o anche solo a
mantenere in vita le filiere della committenza internazionale -:
costretti a esporre il proprio corpo perché, appunto, lavorano col
corpo. Lo mostrano i lividi sulla faccia delle infermiere della
rianimazione costrette a vegliare 18 ore al giorno, le mani escoriate
dai guanti dei rianimatori h24, gli sguardi spenti degli autisti delle
ambulanze che fanno la spola senza requie. Donne e uomini in carne ed
ossa che nella generale immobilizzazione della popolazione, vengono
chiamati invece a una “mobilitazione totale” perché altrimenti “saremmo
perduti”.
E’ tutta una gerarchia sociale che si rovescia, se volessimo ascoltare
la parola del virus, nel momento in cui coloro che avevamo messo sulla
cuspide, i divi del calcio, i campioni del gol e dell’intrattenimento,
cui eravamo disposti a riconoscere paghe milionarie, fuggono come topi
dalla nave su aerei privati, e loro, cui erano state riservate le
briciole, posti precari e salari da fame, stanno invece lì, al centro
del campo, inchiodati come servi della gleba ai loro “mezzi di
produzione”. Ma è anche la gerarchia spaziale – la misura del benessere e
del “valore” dei territori – a saltare, nel momento in cui il contagio
sembra colpire massicciamente di più le aree produttive, ad alta
concentrazione di “attività” (quelle che appunto consideravamo modelli
“d’eccellenza”) rispetto alle altre. Anche qui, vorrà pur dire qualcosa
se bergamasco e soprattutto bresciano sono l’epicentro dell’epicentro
lombardo, luoghi d’elezione del total business, di un attivismo
frenetico in cui ognuno si fa imprenditore di se stesso (e
inconsapevole veicolo del contagio). In qualche modo si potrebbe dire
che, tragicamente, là dove ferve la “febbre del fare” si alza e dilaga
anche la “febbre del virus” quasi che il morbo seguisse una scala di
valori sadicamente connessa – una sorta di nemesi – con quella
prevalente nel mondo umano.
D’altra parte, se vogliamo stilare una graduatoria dei diversi gruppi
sociali valutati per il modo con cui hanno risposto all’emergenza
sanitaria, dovremmo mettere in cima alla lista dei “peggiori” quelli che
fino a ieri erano stati considerati “i migliori”: imprenditori e uomini
d’industria, eletti come i veri “eroi moderni”, custodi del nostro
benessere e del nostro posto nel mondo, e rivelatisi invece, di fronte
all’”emergenza” ammalati di una cinica miopia. Fin da quando i primi
casi dell’epidemia sono comparsi hanno chiesto, come un sol uomo, di non
fermare il loro business. Di tenere “aperto tutto”,
soprattutto le loro imprese. Hanno minimizzato, minacciato, ordinato. E
anche quando il contagio si è esteso, mostrando tutta la propria
pericolosità e letalità, hanno costruito la propria muraglia cinese
intorno alle loro attività. Come se una linea invalicabile di confine
fosse stata tracciata e si potesse fermare tutto – scuole, teatri, bar e
ristoranti, stadi, chiese, parchi, uffici pubblici, tutto! – tranne le
loro fabbriche (e le reti infrastrutturali necessarie a servirle). Al
contrario di Yahveh che nel Libro di Giobbe dice al satana che
lo tenta alla scommessa, di “toccare” quell’uomo pio in tutti i suoi
possessi ma non nella vita, i confindustriali italiani invocano che si
tocchi pure tutti nella vita, ma non nei possessi propri.
Esemplare in questo il presidente di Confindustria Lombardia, Marco
Bonometti, bresciano!, che ancora l’11 marzo – quando pressoché tutto il
Paese diventava “zona rossa” – rendeva pubblico un comunicato
in cui dichiarava “indispensabile la necessità di tenere aperte le
aziende , dando continuità a tutte le attività produttive e alla libera
circolazione delle merci” (si deve a impuntature come questa se il
decreto del Governo “Chiudi tutto” ha operato una chiusura solo parziale
e probabilmente per questo solo parzialmente efficace). Due settimane
prima, il 27 febbraio, dopo il primo allarme, le “parti sociali” avevano
emesso una sciagurata dichiarazione congiunta in cui si affermava, testualmente:
“Dopo i primi giorni di emergenza, è ora importante valutare con
equilibrio la situazione per procedere a una rapida normalizzazione,
consentendo di riavviare tutte le attività ora bloccate”. L’avevano
sottoscritto Abi (l’associazione bancaria), Coldiretti, Confagricoltura,
Confapi, Confindustria, Alleanza delle cooperative, Rete Imprese Italia
(CNA, Confartigianato, Confcommercio e Confesercenti) – e la cosa non
stupisce. Ma anche Cgil, Cisl, Uil con una frettolosa superficialità che
grida vendetta.
Per fortuna – oltre al sindacalismo di base, attivo soprattutto nella logistica – ci ha pensato la segretaria della Fiom Francesca Re David
a difendere l’onore del sindacato italiano e a sostenere gli scioperi
dilagati nella scorsa settimana “perché gli operai si sentono figli di
un dio minore”, dichiarando che “non è tollerabile che vedano la loro
vita di tutti i giorni protetta e garantita da tante norme, ma una volta
superati i cancelli della fabbrica si trovino in una terra di nessuno”.
E invitando Bonometti “e chi ragiona come lui a farsi un giro in
autobus per andare in fabbrica e a lavorare nelle linee produttive dove
la distanza tra le persone è di pochi centimetri”. Dove le mascherine
scarseggiano o non si vedono neppure. Dove i controlli sanitari
all’ingresso sono inesistenti. Dove le mense sono poco o nulla
sanificate. E dove in caso di chiusura dei reparti non indispensabili
alla produzione si chiede ai dipendenti di usare le ferie maturate, cioè
di pagare di tasca propria l’emergenza. Condizioni ottocentesche, che
portano alla superficie, con la drammaticità del momento, una condizione
operaia precipitata, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, al livello
più basso delle garanzie, dei diritti, del reddito e della
considerazione sociale. Da questo inferno – come dall’inferno della
pandemia – bisognerà ben uscire. Con i buoni gesti di solidarietà e di
rispetto delle regole, certo. Ma anche – come segno di rinascita – con
la lotta, se è ancora lecito usare questa parola.
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