Antonio Gramsci, Scritti di letteratura, a cura di Lelio La Porta, Editori Riuniti, 2019, pp. 196, €12,75.
patriaindipendente.it Francesco Marola
Questo
interesse fu uno dei maggiori in Gramsci, e si protrasse a lungo: dai
primi studi universitari torinesi, in filologia moderna, fino agli
ultimi giorni della lunga prigionia fascista, che aveva tentato di
“impedire al suo cervello di funzionare” (ma anche in questo il fascismo
fu sconfitto, con la stesura dei Quaderni del carcere).
Il libro non è di quelli che interessino esclusivamente un pubblico
di specialisti dell’argomento.
La riflessione del grande dirigente e
teorico comunista non è mai disgiunta, infatti, dalla connessione alla
prassi politica che caratterizza tutti i suoi scritti, anche quelli
apparentemente più “disinteressati” (per citare la famosa lettera a
Tania) quali gli scritti rivolti alla letteratura.
Com’è noto, nel pensiero di Gramsci è centrale il tema dell’egemonia,
circa la necessità di costruire consenso attorno all’ideologia della
classe operaia da parte di strati più ampi della società, anziché
puntare al rovesciamento del regime borghese solo sul piano delle
istituzioni statali.
In questa chiave diviene centrale la riflessione
sulla cultura, che però va intesa in senso ampio: da una parte, i
comunisti devono comprendere quello che è il concreto senso comune delle
classi popolari italiane, di cui sono manifestazione tanto i fenomeni
di costume quanto il più atavico folclore; dall’altra, devono criticare
la cultura “alta”, espressa dall’arte e dalla filosofia della società
borghese. Lo studio della letteratura si rivela dunque un potente
strumento analitico dei rapporti sociali, volto alla loro
trasformazione.
Ma anche guardando al campo specialistico, l’antologia rappresenta
uno strumento particolarmente utile, in un momento di rinnovata
attenzione all’aspetto critico-letterario dell’opera di Gramsci (si
veda, ad esempio, il recente volume collettivo Il presente di Gramsci.
Letteratura e ideologia oggi, Galaad 2018). Risale infatti al 1975 la
precedente raccolta di riferimento di scritti gramsciani sulla
letteratura, a cura di Giuliano Manacorda, intitolata Marxismo e
letteratura. Un testo oggi introvabile, e soprattutto redatto in
un’epoca degli studi ancora priva dell’edizione critica dei Quaderni,
completata poco dopo, nello stesso anno, da Valentino Gerratana per
Einaudi. Rispetto a quel libro, la nuova antologia è maggiormente
selettiva, e introduce i riferimenti filologici necessari,
nell’indicazione esatta del quaderno e del numero di paragrafo del
testo. Inoltre, La Porta fornisce un solido apparato di note, che
permette di orientarsi agevolmente tra le numerose opere e persone
citate negli scritti gramsciani. I testi selezionati non sono tratti
solo dai Quaderni, bensì anche dalle lettere e dagli scritti
pre-carcerari, come le cronache teatrali stilate dal giovane militante
socialista per la redazione torinese dell’Avanti!. Dopo una breve nota
introduttiva e un profilo biografico dell’autore, l’antologia è
suddivisa in cinque capitoli con relative introduzioni specifiche,
rispettivamente: 1. Dante; 2. Manzoni; 3. Pirandello; 4. Letteratura
popolare; 5. Il futurismo. Il libro seleziona dunque gli scritti
dedicati ad alcuni temi della letteratura nazionale: un interesse,
quello nazionale, sicuramente prevalente in Gramsci, dato il fine
pratico a cui si accennava precedentemente, ma non esclusivo. Può
sorprendere inoltre, a tal riguardo, l’assenza delle dense pagine
dedicate al Principe di Machiavelli, o quelle di carattere metodologico
sulla critica letteraria di De Sanctis e di Croce. Una dimensione più
ampia emerge tuttavia dal modo in cui Gramsci legge gli autori in
oggetto, ovvero dal carattere fortemente comparatistico della sua
riflessione, che pone il contesto italiano in parallelo alla letteratura
europea e internazionale.
Questa prospettiva si fa evidente soprattutto negli scritti raccolti
nel quarto capitolo dell’antologia. Qui occorre distinguere chiaramente
due interessi gramsciani, talora confusi: da una parte, quello
sociologico per la «letteratura popolare», nel senso limitativo di
letteratura d’appendice, o se vogliamo “bassa”; dall’altra, quello per
la mancata formazione, in Italia, di una «letteratura
nazionale-popolare». I due interessi sono articolati da Gramsci,
rispettivamente come punto 9 e 1 (ultimo e primo), in una nota
intitolata Nesso di problemi (Q21 §1), opportunamente inclusa alle pp.
120-3. Quello di nazionale-popolare (scritto anche all’inverso,
popolare-nazionale, a indicare l’identità dei due termini, secondo il
concetto di popolo-nazione) è un aggettivo che per Gramsci porta in sé
un intero problema, tra i più importanti affrontati nei Quaderni: la
mancanza di connessione tra popolo e intellettuali. Egli rileva che in
Italia, a differenza di altri Paesi europei, la grande maggioranza degli
intellettuali di professione sia a lungo rimasta una casta separata
dalla vita politica nazionale, innanzitutto per influenza delle
istituzioni cattoliche. Una partecipazione all’interesse nazionale e
dunque popolare, tipica di Paesi come la Francia formata dalla
rivoluzione borghese, o anche della più simile Germania, quindi un ruolo
progressivo degli intellettuali e della piccola borghesia in senso
democratico, avrebbe prodotto una coscienza civile popolare che invece
in Italia è mancata. Questa riflessione di carattere storico è per
Gramsci necessaria alla nuova classe che ambisce a divenire egemone,
attraverso l’azione del partito comunista.
Il limite storico di quella parte di intellettuali di professione,
costituita dagli scrittori italiani, emerge nelle riflessioni rivolte ai
Promessi Sposi. Celebre è la critica gramsciana al grande romanzo
storico – che pure aveva innovato fortemente la letteratura nazionale,
elevando a protagonisti due popolani – per la rappresentazione
paternalistica degli umili, indice di un carattere non
nazionale-popolare, ovvero di un distacco tra scrittori e popolo.
Leggiamo direttamente il testo di Gramsci, dalle pagine dell’antologia:
«carattere “aristocratico” del cattolicismo manzoniano appare dal
“compatimento” scherzoso verso le figure di uomini del popolo (che non
appare in Tolstoj)» (p.65); «i popolani per Manzoni, non hanno “vita
interiore”, non hanno personalità morale profonda. Essi sono “animali” e
il Manzoni è benevolo verso di loro» (pp. 65-6); «L’atteggiamento di
Manzoni verso i suoi popolani è l’atteggiamento della Chiesa cattolica
verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di medesimezza
umana. […] Si può mostrare che il “cattolicismo” anche in uomini
superiori e non gesuitici come il Manzoni […] non contribuì a creare in
Italia il “popolo-nazione” neanche nel Romanticismo, anzi fu un elemento
anti-nazionale-popolare e solamente aulico» (p. 66).
Sui motivi della mancata formazione del romanzo nazionale-popolare
all’epoca del Risorgimento, Gramsci trova una risposta ulteriore in
relazione alle forme artistiche: in Italia, come genere
nazionale-popolare, si è affermato il melodramma anziché il romanzo (pp.
156 sgg.). Oltre all’analisi critica, emergono dalle pagine gramsciane
anche elementi di poetica, ovvero indicazioni per una nuova letteratura
che sia al contempo artistica e popolare. Modelli di riferimento sono
indicati nei romanzieri russi, Tolstoj e Dostoevskij: «certo nulla
impedisce teoricamente che possa esistere una letteratura popolare
artistica – l’esempio più evidente è la fortuna “popolare” dei grandi
romanzieri russi» (p. 127). Il tratto caratteristico della loro opera,
alla base della loro connessione sentimentale al popolo, è individuato
nello «spirito evangelico del cristianesimo primitivo».
Venendo all’epoca sua contemporanea, Gramsci vede anche nell’opera di
Pirandello un carattere non popolare-nazionale, ma su un piano diverso.
Va posta in evidenza l’importanza di queste pagine in termini di storia
della critica, in quanto il giovane sardo fu uno dei primi interpreti
del drammaturgo, nelle “Cronache teatrali” dell’Avanti! riportate
nell’antologia. In una di esse (del 1917) si può leggere la felicissima e
celebre metafora: «Pirandello è un ardito del teatro. Le sue commedie
sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e
producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero» (p.
109). Tesi di Gramsci, approfondita nei Quaderni, è che Pirandello sia
stato «più grande come innovatore del clima culturale che come creatore
di opere artistiche» (pp. 85-6). Ma ciò non ha solo intento diminutivo,
in quanto nell’interesse gramsciano conta più la portata culturale,
ideologica, della letteratura, piuttosto che gli aspetti strettamente
artistici: «egli ha contribuito molto più dei futuristi a
“sprovincializzare” l’“uomo italiano”, a suscitare un atteggiamento
“critico” moderno in opposizione all’atteggiamento “melodrammatico”
tradizionale e ottocentista» (p. 86). Eppure, sebbene notoriamente
avversata, nel giudizio gramsciano si sente ancora il peso dell’estetica
crociana, proprio nel separare gli elementi poetici da quelli critici
(«è però il Pirandello libero di ogni intellettualismo? Non è più un
critico del teatro che un poeta, un critico della cultura che un poeta,
un critico del costume nazionale-regionale che un poeta?», p. 89), la
cui connessione nella letteratura è invece spesso indistricabile. Il
carattere «“individuale”, incapace di diffusione nazionale-popolare» (p.
97) dell’opera di Pirandello, a cui si accennava, sta nel fatto che il
suo teatro della “crisi del reale” non comprenda le basi sociali delle
trasformazioni culturali moderne, e resti dunque «intellettualismo
astratto» (p. 88).
Rispetto alle riflessioni rivolte a Pirandello e Manzoni, le pagine
sul decimo canto dell’Inferno restano circoscritte all’aspetto più
strettamente artistico, e la critica sociale si rivolge piuttosto agli
interpreti di regime. Gramsci vuole porre in rilievo un dato a suo
avviso trascurato, ovvero egli ritiene che il culmine drammatico del
canto sia collocato nella figura di Cavalcante, per contrasto a quella
di Farinata, che l’ha oscurata nella ricezione. A tal proposito,
fornisce riflessioni di carattere stilistico, circa la modalità
indiretta della rappresentazione delle passioni. Che però, sottolinea,
non va confusa con una «critica dell’inespresso», ovvero «una storia
dell’inesistito» (p. 33).
Tornando invece al capitolo quarto dell’antologia, Letteratura
popolare, va fatto un riferimento ulteriore alla condizione del
prigioniero politico. È il limitato accesso ai testi, quelli concessi
dall’istituzione carceraria fascista, a sviluppare l’interesse per la
letteratura d’appendice, o popolare in senso limitativo: i feuilletons
di ampio consumo. Quali sono i motivi del successo duraturo dei romanzi
di Dumas, di Verne, di Conan Doyle, perfino di Montépin o di scrittori
ancor più dozzinali? Per quale motivo hanno maggiore diffusione gli
autori stranieri tradotti? Ciò che interessa al prigioniero comunista è
la comprensione dell’immaginario e del senso comune delle classi
popolari. È naturalmente uno studio non limitato al carattere estetico
di queste opere, bensì uno studio culturale. In una breve pagina,
Gramsci rileva peraltro l’arretratezza, nell’Italia del suo tempo, del
«concetto di cultura», in quanto ancora «prettamente libresco: i
giornali letterari si occupano di libri o di chi scrive libri. Articoli
di impressioni sulla vita collettiva, sui modi di pensare, sui “segni
del tempo”, sulle modificazioni che avvengono nei costumi, ecc., non si
leggono mai. […] Manca l’interesse per l’uomo vivente, per la vita
vissuta» (p. 169). La portata innovativa di un tale approccio ha
ispirato, in seguito, i primi Cultural Studies britannici, sviluppati in
stretta relazione alla ricezione dei Quaderni.
Anche in questo campo troviamo proposte di poetica. Ad esempio,
nell’interesse rivolto allo Spartaco di Raffaele Giovagnoli (1878),
romanzo popolare di chiara connotazione politica, connessa alla
simbologia dell’immaginario socialista (basti pensare alla Lega Spartaco
tedesca). Per Gramsci, il romanzo «si presterebbe a un tentativo che,
entro certi limiti, potrebbe diventare un metodo: si potrebbe cioè
tradurlo in lingua moderna: […] si tratterebbe di fare, consapevolmente,
quel lavorio di adattamento ai tempi e ai nuovi sentimenti e nuovi
stili che la letteratura popolare subiva tradizionalmente quando si
trasmetteva per via orale e non era stata fissata e fossilizzata dalla
scrittura e dalla stampa» (p. 153). Ciò, evidentemente, al fine di
riformulare secondo esigenze nuove, come avveniva coi miti antichi,
un’opera letteraria organica alla simbologia del proletariato.
Sempre in questa sezione, tra i molti contributi, risalta un’ampia
nota sulla Origine popolaresca del “superuomo” nietzschiano (pp. 163
sgg.), a cavallo tra l’intento demistificatorio e una vena gustosamente
sarcastica, tipica dell’affilatissima penna gramsciana. Quest’ultima
appare specialmente efficace nel ritratto dei futuristi. Dalla iniziale
difesa del movimento, in quanto parte di un rinnovamento artistico
rivoluzionario nel quadro più ampio del modernismo europeo (scritto che
costituisce una delle primissime prove del giovane studente sardo,
pubblicato sul Corriere universitario torinese nel 1913), dopo le
aberranti prolusioni di entusiasmo futurista per la guerra Gramsci
specificò ulteriormente il suo giudizio, rilevando il contrasto tra il
merito di rinnovamento formale e la sostanza reazionaria della loro
ideologia. Tanto da poter trarre, ormai nel carcere fascista, una
folgorante caricatura dalla loro parabola letteraria: «i futuristi. Un
gruppo di scolaretti che sono scappati da un collegio di gesuiti, hanno
fatto un po’ di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti sotto
la ferula dalla guardia campestre» (pp. 192-3).
Quelli fin qui esposti sono solo alcuni dei temi offerti dagli
Scritti di letteratura. Oltre alla loro importanza in termini storici,
si può ben dire che queste pagine continuano a fornire un’indicazione
metodologica feconda, tanto alla critica letteraria quanto alla critica
sociale. L’auspicio, pertanto, è che la nuova antologia possa avere
un’ampia diffusione, innanzitutto tra i docenti scolastici chiamati al
compito dell’insegnamento, e inoltre presso nuove leve di studiosi alla
ricerca di una solida prospettiva critica.
Francesco Marola, ricercatore Università degli Studi dell’Aquila,
docente del corso di formazione Antonio Gramsci: storia e letteratura
fonte: Patria Indipendente
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