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Dopo le rivolte scoppiate all’interno degli istituti di detenzione è
necessario compiere una riflessione su quella che oggi, aggravata
dall’emergenza sanitaria, è la situazione dei detenuti nelle carceri
italiane. Non doveva essere di certo un’epidemia a riattivare l’attenzione sul tema,
che anzi sarebbe dovuta essere costante da parte delle istituzioni, ma
dati gli sviluppi recenti è necessario avviare un progetto di proposte
affinché la salute dei detenuti e del personale all’interno degli
istituti venga salvaguardata, e affinché la pena vada a svolgere in
sicurezza quello che è lo scopo di rieducazione e reinserimento sociale
del condannato. Anche il personale va garantito e deve essere dotato di
strumenti che permettano di svolgere le attività nel rispetto delle
norme igienico-sanitarie.
In tal senso denunciamo il silenzio del ministro della giustizia Alfonso Bonafede, e del Governo in generale,
il quale ha mostrato disinteresse verso la situazione dei penitenziari,
non prefiggendosi lo scopo di attuare politiche relativamente al
miglioramento delle condizioni del sistema carcerario tutto.
Lo stato dell’arte è di un sovraffollamento di oltre 10.000 unità nelle carceri italiane.
In una realtà come quella carceraria caratterizzata da una ristrettezza
di spazi, per cui è praticamente impossibile rispettare le distanze di
sicurezza minime e le condizioni igienico sanitarie idonee, il contagio
potrebbe propagarsi a macchia d’olio. A questa situazione tragica si aggiunge la questione della salute dei detenuti:
numerosi sono i dati che mostrano una situazione allarmante. Epatite C,
HIV e tubercolosi sono alcune delle patologie più frequenti della
popolazione carceraria. Il fatto che un terzo della popolazione sia
straniera, per il collasso dei sistemi sanitari esteri, determina tassi
di tubercolosi latenti molto più alti rispetto alla popolazione
generale.
Un altro fattore che determina un rischio molto più elevato di contagio
in carcere, è il numero di tossicodipendenti, “gli ultimi dati a
disposizione sono quelli del 2018 e mostrano che quell’anno i
tossicodipendenti dietro le sbarre erano 16.669, il 27,94 percento dei
detenuti complessivi, mentre cinque anni prima (nel 2013) erano 14879,
ovvero il 23,79 percento. Numeri che potrebbero essere molto più alti,
in quanto il conteggio si limita ai tossicodipendenti accertati dal
sistema sanitario nazionale e non include coloro che, pur facendo uso di
sostanze, non dichiarano la propria dipendenza.” Se consideriamo che
nelle carceri non esistono sistemi di riduzioni del danno (da siringhe
pulite ad acqua distillata), per via del presupposto erroneo che in
carcere non dovrebbe circolare droga, è chiaro che l’immagine che ci si
presenta è quella di una miccia pronta ad esplodere.
Una situazione così allarmante ha delle responsabilità politiche ben precise.
Sono anni che il discorso politico assume toni securitari, proponendo
aumenti delle pene randomici e istituzioni di nuovi reati. Due misure su
tutte, proposte da parti politiche diverse, ci danno l’idea della
retorica su cui si è basata la politica criminale negli ultimi anno.
Una è l’introduzione del reato di omicidio colposo stradale voluta da
Renzi, che si base su una presunzione di colpa e causalità tra ebbrezza
alla guida ed evento lesivo, e cosa ancor più grave introduce per un
reato colposo delle sanzioni e delle pene molto più vicine a quelle di
un reato doloso.
L’altra è la previsione del carcere fino a sei anni per i percettori di
reddito di cittadinanza sorpresi a svolgere un lavoro a nero. Entrambe
misure che rispondono alle esigenze sociale in maniera repressiva
avallando le sirene del giustizialismo, senza chiaramente risolvere le
contraddizioni che stanno alla base di queste richieste di sicurezza.
A politiche criminali di questo stampo corrispondono dati sulla
popolazione carceraria italiana che ci mostrano un mosaico composto
prevalentemente da poveri, tossicomani e stranieri; soggetti per cui è
più difficile difendersi in un processo e che, per lo più, sono spinti a
commettere crimini per necessità. A questo si aggiunge il dato che solo
il 10% del totale degli incarcerati ha commesso reati di grande
pericolosità sociale (omicidi, reati associativi, traffico
internazionale).
Il carcere è, quindi, un’istituzione che porta con sé gravi criticità.
Le carenze del sistema carcerario italiano sono state ampiamente
evidenziate dalla sentenza Torreggiani che puniva l’Italia per
sovraffollamento carcerario, ma il problema risiede nell’istituzione
carceraria in quanto tale. È infatti, il mezzo più lontano dalla
rieducazione del condannato, così come viene prevista dall’art 27 della
Costituzione che, non a caso, non parla di carcere esplicitamente ma
preferisce definire le pene al plurale. Questo è esemplificato dal tasso
di recidiva, che si attesta al 70%.
E’ necessario quindi aprire un dibattito sul superamento del
carcere, provando a mettere in campo degli strumenti alternativi già da
subito che permettano di evitare le situazioni di questi giorni.
Uno degli strumenti alternativi da adottare in queste
settimane potrebbe essere la commutazione, per le pene di reati minori,
da detenzione carceraria a detenzione domiciliare. Ciò
permetterebbe da un lato di rendere la vita all’interno degli istituti
più sicura, permettendo di adottare le misure sanitarie dovute e
necessarie per questo periodo; dall’altro lato la detenzione domiciliare
permetterebbe di svolgere una pena in sicurezza per il detenuto stesso.
La pena, nella maggior parte dei casi, non deve diventare la cessazione
di rapporti con l’esterno, il diritto alla sessualità e gli affetti non
vengono meno per le persone detenute e devono essere il più possibile
tutelati. Per questo è necessario che lo stato predisponga mezzi idonei e
sicuri per permettere la comunicazione con i propri parenti dei
detenuti, sicuramente in questo momento eccezionale, ma anche nelle
situazione di normalità.
L’eccezionalità della situazione richiede anche un’ eccezionalità della
soluzione, per cui così come richiesto da più voci si possono immaginare
misure come amnistia (l’estinzione del reato per un periodo precedente,
per cui lo stato smette di perseguirlo perchè si rietene che non abbia
più disvalore sociale e non necessiti di punizione), indulto (commutare
parte della pena) per motivi sanitari per i reati con le pene più
ridotte, e il differimento di esecuzione della pena. Anche l’Iran, paese
che vive in maniera altrettanto dura la crisi sanitaria, ha predisposto
la scarcerazione per chi ha una pena residua da affrontare inferiore ai
cinque anni.
Il dibattito su amnistia e indulto nel nostro paese vive,
sfortunatamente, di un retaggio giustizialista che si basa sull’idea di
liberare i “colpevoli” per danneggiare la società “ per bene”. È chiaro
che in una situazione di questo tipo invece, l’uso di questi istituti di clemenza avrebbe un significato di tutela e di solidarietà sociale a difesa delle marginalità.
Le 12 morti di detenuti di questi giorni e la repressione
poliziesca che ne è conseguita hanno portato davanti agli occhi di tutta
la realtà, sempre nascosta, del carcere, un tema che non deve più
rimanere per addetti ai lavori ma su cui è necessario prendere parola
tutti.
PER APPROFONDIRE:
https://lavialibera.libera.it/it-schede-54-coronavirus_il_dramma_dei_tossicodipendenti_dietro_l_assalto_alle_infermerie_delle_carceri
https://www.altalex.com/documents/news/2016/03/07/omicidio-stradale-camere-penali-legge-repressiva-sproporzionata-e-incoerente
https://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=77434
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